sabato 30 marzo 2013

E' morto Enzo Jannacci.



Cabarettista, tra i protagonisti della scena musicale italiana, oltre che cardiologo.

E' morto a Milano Enzo Jannacci. Cantautore, cabarettista, tra i protagonisti della scena musicale italiana, oltre che cardiologo, si è spento a Milano all'età di 77 anni.
FABIO FAZIO, ERA UN GENIO  - "Enzo Jannacci era un genio": con questo twitt Fabio Fazio ricorda l'artista scomparso stasera. "Le sue parole che non riuscivano a star dietro ai suoi pensieri. La sua poesia - conclude Fazio - ha inventato un mondo bellissimo".
FRANCESCO GUCCINI, BUON VIAGGIO - "Quelli che... Adesso sanno l'effetto che fa. Buon viaggio": con questo pensiero, postato su Twitter, Francesco Guccini ricorda Enzo Jannacci morto questa sera a Milano.
I NOMADI, GRANDE ARTISTA... SALUTACI LE STELLE!  - "Ciao Enzo, Grande Artista... salutaci le stelle!". Così i Nomadi ricordano Enzo Jannacci su Facebook, allegando il video live di 'Vincenzina e la fabbrica'.
Medico del cuore e dell'anima, Vincenzo Jannacci, detto Enzo, è stato uno degli storici protagonisti della scena musicale del secondo dopoguerra. Certamente unico nel suo saper coniugare intelligenza e satira, analisi della realtà e inesauribile gusto del paradosso. Milanese convinto - a Milano era nato il 3 giugno 1935, a Milano è morto venerdi' serta - si può considerare tra i caposcuola del cabaret italiano, ma è stato anche autore di quasi trenta album, e di varie colonne sonore ed ha lavorato per il teatro, il cinema e la tv. E' ricordato come uno dei pionieri del rock and roll italiano, insieme ad Adriano Celentano, Luigi Tenco, Little Tony e Giorgio Gaber, con il quale formò un sodalizio durato più di quarant'anni. Dopo gli studi classici si era laureato in medicina per lavorare poi in Sudafrica e poi negli Stati Uniti. La sua formazione musicale ha radici altrettanto classiche e inizia al conservatorio ma la scoperta del rock and roll avviene presto. I suoi primi compagni di viaggio sono Tony Dallara, Celentano e poi Giorgio Gaber con il quale forma il duo de "I due corsari", che debutta nel 1959. Ma prosegue parallela la sua carriera di solista e quella di autore, tanto che Luigi Tenco sceglie una della sue canzoni, Passaggio a livello, e la pubblica nel 1961. Lavora con Sergio Endrigo. Lavora anche con Dario Fo, Sandro Ciotti. Poi la grande popolarità arriva con il surreale "Vengo anch'io, no tu no" tanto che diventerà sua la ribalta televisiva, fino a quella di Canzonissima. Ma sarà spesso anche in teatro e non disdegnerà apparizioni in film di grandi registi come Ferreri, Wertmuller, né di esercitarsi come compositore di colonne sonore come fece per Mario Monicelli. Dopo un periodo di oblio all'inizio degli anni '80 torna alla ribalta tanto che incide un disco come "Ci vuole orecchio", che raggiunge il livello di popolarita' di Vengo anch'io. Del 1981 é un trionfale tour in tutta Italia. Nel 1994 si presenta per la terza volta al Festival di Sanremo in coppia con Paolo Rossi con il brano "I soliti accordi", insolitamente dissacrante per la manifestazione, che è anche il titolo del rispettivo CD, arrangiato da Giorgio Cocilovo e il figlio Paolo Jannacci. Tra un album e l'altro, poi nel 2000 torna a lavorare infine con Cochi e Renato, altra storica coppia con cui ha collaborato a lungo, per "Nebbia in val Padana". Oramai la tv lo celebra, come fa il 19 dicembre 2011 Fabio Fazio che conduce uno speciale su di lui in cui amici di lungo corso lo omaggiano interpretando suoi brani. Tra cui Fo, Ornella Vanoni, Cochi e Renato, Paolo Rossi, Teo Teocoli, Roberto Vecchioni, Massimo Boldi, Antonio Albanese, J-Ax, Ale e Franz, Irene Grandi e altri. Enzo Jannacci compare nell'ultima parte dell'evento cantando due sue canzoni.

giovedì 28 marzo 2013

Messina, i disabili devono pagare la segnaletica per i parcheggi riservati.


Disabili


E' quanto prescritto da un provvedimento varato dal comune retto dal commissario straordinario Luigi Croce. Che, riferisce la 'Gazzetta del Sud’, non intende fare passi indietro. “Non dobbiamo trattare i disabili da persone inferiori sono persone normali, come noi. Come pago io pagano loro, e tra l’altro parliamo di costi irrisori”.

Messina i disabili che chiedono un parcheggio riservato devono pagarsi le spese necessarie per realizzare la relativa segnaletica stradale: è quanto prescritto da un provvedimento varato dal comune dello Stretto retto dal commissario straordinario Luigi Croce. Che, riferisce la ‘Gazzetta del Sud’, sul pagamento delle spese non intende fare passi indietro. “Non dobbiamo trattare i disabili da persone inferiori sono persone normali, come noi. Come pago io pagano loro, e tra l’altro parliamo di costi irrisori”, ha detto Croce difendendo il provvedimento dalle polemiche da cui è stato investito.
La determina del comune di Messina per l’assegnazione di spazi di sosta “personalizzati per invalidi in zone ad alta densità di traffico” stabilisce i criteri per l’assegnazione dei contrassegni da parte del Comune. Dalla possibilità di avere il parcheggio riservato vengono esclusi i non vedenti. E soprattutto: “il costo relativo alla realizzazione ed alla manutenzione della segnaletica stradale, sia verticale sia orizzontale, di individuazione e delimitazione dello spazio di sosta, nonché la relativa rimozione sono a carico del beneficiario”.
Siamo all'assurdo!
Chi gode di benefit oltre agli stipendi da nababbi pagati dai contribuenti e, quindi, anche dai disabili, dice a questi ultimi che debbono pagarsi le spese per la segnaletica che li riguarda?
Da non credersi!

mercoledì 27 marzo 2013

Elicotteri Finmeccanica, ministro Difesa indiano ammette: “Corruzione e tangenti”.

Elicotteri Finmeccanica, ministro Difesa indiano ammette: “Corruzione e tangenti”


"Qualcuno si è fregato dei soldi", ha avvertito Arackaparambil Kurien Antony, spiegando che "l'indagine è in una fase cruciale" e "non saremo misericordiosi con nessuno, per quanto grande e potente". Promesse "misure molto severe" per chi è coinvolto.

“Qualcuno si è fregato dei soldi“. Il ministro della Difesa indiano è intervenuto così sulla discussa commessa da 12 elicotteri concordata tra New Delhi e Augusta Westland, controllata di Finmeccanica, che ha portato a febbraio all‘arresto del suo numero uno Giuseppe Orsi. “C’è stata corruzione e sono girate delle tangenti“, ha avvertito Arackaparambil Kurien Antony, spiegando che “l’indagine è in una fase cruciale” e “non saremo misericordiosi con nessuno, per quanto grande e potente, che è andato contro il patto di integrità”.
“Il Central Bureau of Investigation [agenzia investigativa del governo indiano, ndr] sta portando avanti i controlli, insieme al mio impegno in parlamento”, ha ricordato secondo quanto riportano i principali quotidiano indiani, “non c’è dubbio che saranno adottate delle misure molto severe per chi è coinvolto”.
Rispondendo a chi gli chiedeva se l’India andrà avanti con l’acquisto dei siluri “black shark” da Whitehead Sistemi Subacquei, controllata di Finmeccanica, il ministro indiano ha chiarito che non è ancora stata presa una decisione finale. “Non è successo niente per ora”, ha avvertito. E ha aggiunto: “Si procederà solo ai sensi di legge, per ora stiamo aspettando che finisca l’inchiesta su Agusta Westland”.
Il ministero della Difesa indiano aveva annunciato a febbraio di avere iniziato un’azione percancellare il contratto di fornitura dei 12 elicotteri AW-101. Ma Augusta Westland aveva subito precisato che “il ministero della Difesa indiano non ha cancellato il contratto per gli elicotteri, ma ha invece richiesto alla società di fornire alcuni chiarimenti”.

Giustizia e politica, monito Commissione Ue: “Giù le mani dai giudici”.


Viviane Reding


Il commissario europeo alla giustizia Viviane Reding risponde così a chi le chiede se non ritiene che in Italia il conflitto tra politica e giustizia sia una delle cause dell’inefficienza del sistema. Poi aggiunge: "Se si vuole che la magistratura sia davvero indipendente, bisogna lasciarla lavorare".

I continui attacchi alla magistraturaculminati con la manifestazione organizzata dal Pdl al tribunale di Milano, non lasciano indifferente l’Europa. ”Giù le mani dai giudici. Se si vuole che la magistratura sia davvero indipendente, bisogna lasciarla lavorare”. Il commissario alla giustizia Viviane Reding risponde così a chi le chiede se non ritiene che in Italia il conflitto tra politica e giustizia sia una delle cause dell’inefficienza del sistema. L’appello della Commissione europea arriva forte e chiaro, a margine della presentazione di un documento di monitoraggio sulla giustizia che situa l’Italia agli ultimi posti della graduatoria. ”L’Italia e il governo Monti - aggiunge Reding – sono consapevoli che il problema dell’efficienza del sistema della giustizia civile e amministrativa ha un impatto molto negativo sugli investimenti”. Il commissario spiega che nell’ultimo anno ha “lavorato in stretto contatto con le autorità per riformare il sistema e renderlo più efficiente, affinché i casi amministrativi trovino risposte più rapide e gli investitori abbiano certezza legale”. Ma questo lavoro, sottolinea, “deve continuare”.
Tra i dati allarmanti riguardanti il nostro Paese c’è quello della durata dei processi: in Italia – segnala il rapporto – occorrono in media più di 800 giorni per risolvere i procedimenti giudiziari che riguardano cause civili e commerciali. Lo strumento presentato, spiegano a Bruxelles, servirà a individuare obiettivi strategici per il funzionamento del sistema giudiziario nei 27 paesi membri. “L’attrattiva di un Paese per essere un luogo dove investire e fare business è senza dubbio rafforzata dall’avere un sistema giudiziario indipendente ed efficiente”, spiega Reding. “E’ per questo che le riforme giudiziarie nazionali sono diventate una componente strutturale importante della strategia economica dell’Europa. La nuova ‘Classifica della giustizia europea’ avrà la funzione di un sistema di preallarme e aiuterà l’Ue e gli stati membri nei nostri sforzi per raggiungere una giustizia più efficace al servizio dei nostri cittadini e degli affari”.
Il vice presidente degli Affari economici e monetari Olli Rhen aggiunge: “Una giustizia efficiente, indipendente e di alta qualità è essenziale per un ambiente che favorisce il business. Questa nuova iniziativa della Ue aiuterà gli stati membri a rafforzare i loro sistemi legali e i loro sforzi per stimolare investimenti e creazione di posti di lavoro”.

I Ds hanno nascosto 200 milioni di euro. Il Pd: “E che problema c’è? Pagherà lo Stato”, cioè noi. - Stefano Feltri



Il Pd, o meglio, la sua componente ex Ds, è responsabile di un buco di quasi 200 milioni di euro nei bilanci delle principali banche italiane. “E che problema c’è? Pagherà lo Stato”, dice al Fatto l’eterno tesoriere Ds, Ugo Sposetti, appena ricandidato dal Pd.
Il Monte Paschi non c’entra, la questione riguarda quasi tutte le altre grandi banche italiane. Che, dopo anni di trattative e benevola tolleranza, sono passate all’attacco, stimolate dalla crisi: vogliono indietro i soldi. E chiedono di annullare le donazioni con cui i Ds hanno sottratto ai creditori il loro immenso patrimonio immobiliare, superiore al mezzo miliardo di euro, quando sono confluiti nel Pd. Se non riescono a rifarsi su quei beni, scatterà la garanzia dello Stato che copre quasi tutto il debito. Grazie a un apposito provvedimento del governo D’Alema. Nella lunga saga del debito post-comunista si è aggiunta una ulteriore variabile che Sposetti non controlla: un avvocato di Barletta, Antonio Corvasce, che da anni conduce nei tribunali una battaglia per presentarsi alle elezioni con lo storico simbolo dei Ds, la Quercia, di cui rivendica la titolarità.
La nullità delle donazioni La storia è complessa e conviene partire dalla fine. Il 24 giugno 2012 viene notificato ai Ds, che non solo esistono ma hanno ancora una sede a Roma, un decreto ingiuntivo: UniCredit si è stancata di aspettare, vuole indietro i suoi 29 milioni di euro più gli interessi maturati dal 2011 e le spese. Chiede quindi al Tribunale civile di Roma di annullare la donazione di un immobile di Bergamo da parte dei Ds alla Fondazione Gritti Minetti (che ne detiene 58). L’atto è “senz’altro revocabile” perché ha creato “un evidente, grave, pregiudizio alla ingente ragione di credito certa, liquida ed esigibile vantata dalla UniCredit Spa” verso i Ds. Sempre Uni-Credit, per le stesse ragioni, contesta anche la donazione di un appartamento a uso ufficio e di un magazzino a Udine, trasferiti gratis dai Ds alla Fondazione per il Riformismo nel Friuli Venezia Giulia. Anche Efibanca, gruppo Banco Popolare, rivuole i suoi 24 milioni, Intesa i suoi 13, 7 e così via. Fino ad arrivare ai 176 milioni indicati nel bilancio 2011, poi lievitati a causa degli interessi. Le banche, dice sempre il consuntivo 2011, l’ultimo disponibile, hanno già pignorato 30 milioni di rimborsi elettorali ancora da ricevere. E il resto? Niente. Nessuna garanzia o quasi, visto che tutti i beni immobili dei Ds sono stati trasferiti a fondazioni che giuridicamente non hanno alcun legame con il partito. Ugo Sposetti, al Fatto, dice: “Sono beni che erano del partito nazionale, ma che se ne fa l’UniCredit di un piccolo immobile, un circolo dove si riuniscono i lavoratori?”. E ripete la battuta con cui ha tacitato ogni obiezione in questi anni: “Lunga vita ai debitori”.
Tanta sicurezza deriva da una doppia assicurazione: gli immobili sono stati posti fuori dal perimetro del partito, lontano dagli artigli dei creditori. E sul debito una provvidenziale legge del 14 luglio 1998 (governo Prodi), ritoccata da un decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri nel febbraio 2000 (quando, guarda caso, a Palazzo Chigi c’era D’Alema): la garanzia statale pensata per i giornali sovvenzionati che dovevano incassare contributi da Palazzo Chigi veniva estesa anche a “soggetti diversi dalle imprese editrici concessionarie”. Se le banche non riescono ad avere indietro gli immobili dei Ds, insomma, i loro debiti li pagheremo noi contribuenti.
Il patrimonio al sicuro C’era una ragione politica per conferire il patrimonio dei Ds alle fondazioni, cioè a organismi territoriali senza scopo di lucro incaricati di tenere viva la tradizione del partito e custodirne la ricchezza: in tanti, sotto la Quercia, pensavano che l’e-sperimento del Partito democratico non sarebbe durato. E allora nel 2007 si è fatto un matrimonio con la Margherita con la separazione dei beni. Casomai si dovesse tornare indietro. Anche perché i Ds erano ricchi sul territorio e poveri a Roma, al contrario dei margheriti. A Roma il partito di Francesco Rutelli poteva contare sul tesoretto dei rimborsi elettorali da gestire e da spartirsi con alcuni dirigenti, anche in quel caso in autonomia, alle spalle del Pd. Sappiamo com’è finita, con il tesoriere Luigi Lusi, ex senatore, in galera.
I Ds sembravano immuni a questo genere di problemi. Anche grazie, forse, al fatto che il debito accumulato dal Pci era stato ristrutturato nel 2003 da Sposetti, Massimo D’Alema (allora presidente dei Ds) e dal banchiere di fiducia del partito, Cesare Geronzi, all’epoca numero uno della Banca di Roma. Istituto che poi è confluito in UniCredit, capofila dei creditori, guidato a lungo da un altro banchiere non certo ostile al Pd, Alessandro Profumo. Quando è subentrato il meno politicamente connotato Federico Ghizzoni, nel 2011, UniCredit ha iniziato a farsi sotto. E la magia di Sposetti si è dissolta.
Le parti e il tutto La tesi di Sposetti è sempre stata che quasi tutto il patrimonio immobiliare non era a disposizione del partito centrale, visto che si è accumulato in gran parte grazie ai lasciti di militanti che, morendo, affidavano i propri beni ai segretari di federazione, sul territorio: “Non è che perché si chiamano uguale sono la stessa cosa”, dice. Però le banche si sono stancate di credere a questa versione in cui la testa era indipendente dal corpo. Anche perché l’unitarietà del partito traspare facilmente. Per esempio nel settembre 2009, quando l’inclusione dei Ds nel Pd è ormai compiuta, Sposetti scrive a tutti i tesorieri locali e ordina loro di chiudere i conti correnti e trasferire i soldi su un conto romano, cioè al partito centrale. Basta che venga dichiarato nullo un singolo atto di donazione e tutta la costruzione di Sposetti crollerà. Con un potenziale effetto politico interessante: se le donazioni vengono annullate, chi metterà le mani sugli immobili rimanenti, una volta soddisfatte le banche? Tutto il Pd? O se ne occuperanno di nuovo gli ex Ds, Pier Luigi Bersani incluso? Chissà.
Gli altri Ds Le banche hanno un alleato imprevisto nel tentativo di dimostrare che nel 2007 Fassino, Sposetti e la dirigenza dei Ds (c’erano D’Alema e Bersani) hanno fatto cose che non potevano fare, sottraendo gli immobili ai creditori. Si chiama Antonio Corvasce, un avvocato di Barletta che sostiene di essere l’autentico presidente dei Ds, o meglio, del “Partito dei democratici di sinistra, nuova denominazione del Partito democratico della sinistra”. Nel 2008, da consigliere comunale di Barletta eletto nelle file dei Ds, ha annunciato di non aderire al Pd e di rimanere Ds: chi ha partecipato alle primarie democratiche (questa è la sua tesi) ha perso ogni diritto sullo storico simbolo e anche sul patrimonio del partito. “Lo statuto dei Ds vieta la doppia tessera, chi si iscrive a un altro partito si mette fuori”, spiega Corvasce. Che ha riunito un comitato di base e nel 2008 ha convocato un congresso “per la continuità”, sostenendo che i veri di Ds sono quelli che lui guida ancora oggi. Finora quasi tutti i giudici hanno dato ragione a Sposetti e Fassino. Ma Corvasce insiste e, assieme al rappresentante legale del suo partito, il tesoriere Vito D’Aprile, chiede a Sposetti e Fassino di produrre in tribunale documenti per dimostrare che nel 2008 la gestione del patrimonio è stata regolare.
Il verbale misterioso La linea di Fassino e Sposetti si fonda sull’assemblea dei Ds del 26 giugno 2008, la prima dopo la nascita del Pd, decisiva per far proseguire l’esistenza del partito (e assicurarsi così i rimborsi elettorali). Quell’assemblea serve a dimostrare che c’è stata continuità, che Corvasce non può prendersi il simbolo. Fassino e Sposetti producono, nella causa civile contro Corvasce, D’Aprile e i “nuovi” Ds, il verbale di quell’assemblea. Corvasce presenta querela di falso: sostiene che quell’assemblea non c’è mai stata, che Fassino, Sposetti e gli altri hanno gestito i beni del partito come fossero cosa loro violando lo statuto. Il giudice dovrà pronunciarsi.
Ma alcuni dati sono oggettivi: allegata al verbale c’è una lettera di Fassino che, da segretario, annuncia l’apertura del tesseramento nazionale per i Ds il 16 giugno 2008 (quando già c’era il Pd). Dieci giorni dopo il tesseramento è già finito e gli iscritti si trovano all’Hotel Artemide di Roma. Nel verbale si legge che “l’assemblea è costituita in forma totalitaria essendo presenti tutti gli iscritti”. Peccato che poi, nel foglio delle firme, ci siano molti dirigenti che non hanno firmato (i veltroniani Tonini e Bettini, per esempio). Tra quelli che risultano presenti ci sono Pier Luigi Bersani, Antonio Bassolino, Massimo D’Alema. C’è anche la firma di Vincenzo Vita, senatore uscente Pd, che oggi al Fatto dice: “Ho un vago ricordo di quella riunione”. Ma c’era stato davvero un nuovo tesseramento Ds dopo la nascita del Pd? “No, ma quale tesseramento? I Ds hanno continuato a esistere come entità amministrativa, non c’è più stata alcuna attività politica”. Altri dettagli: Fassino e Sposetti producono in tribunale una prima versione del verbale in cui i fogli delle firme non sono autenticati dal notaio. Corvasce protesta ed ecco che appaiono i timbri notarili, ma l’autentica è di due anni dopo, 2010. Sposetti allega anche un video dell’assemblea, in cui Fassino esordisce dicendo che, visto che i Ds non hanno più iscritti, è ora di liquidarne il patrimonio. Il contrario di quanto afferma per iscritto.
Berlinguer sfratta Gramsci Le banche creditrici saranno ben felici di sfruttare queste informazioni per sostenere che le donazioni immobiliari sono nulle. E che le fondazioni locali servono solo a tenere i beni al riparo dal pignoramento (non si registra praticamente alcuna loro attività politica). Nella maggior parte dei casi si limitano ad affittare i locali al Pd. Che paga l’affitto. E se non lo fa viene sfrattato come a Sestu, in Sardegna: Enrico Berlinguer (la fondazione) ha sfrattato Antonio Gramsci (il partito). Uno dei tanti paradossi dovuti alle contorsioni con cui i Ds hanno cercato di far sparire i loro debiti milionari. Senza riuscirci.