mercoledì 9 ottobre 2013

Diego Fusaro a Piazza Pulita.


PiazzaPulita_Diego Fusaro_intervento da... di skorpion-05

Diego Fusaro 

http://www.dailymotion.com/video/x15o2jt_piazzapulita-diego-fusaro-intervento-da-standing-ovation-7-10-2013_news?start=3

Pandanus tectorius - Hala fruit.



Pandanus tectorius Parkinson ex Zucc. è una pianta della famiglia Pandanaceae.
Il suo areale si estende dal sudest asiatico, dalle Filippine e dall'Indonesia, ad est attraverso Papua Nuova Guinea e l'Australia settentrionale, coprendo la gran parte delle isole dell'oceano Pacifico, incluse la Melanesia (Isole SalomoneVanuatuNuova Caledonia e Isole Figi), la Micronesia e la Polinesia(Wallis e FutunaTokelauSamoaTongaNiueisole CookPolinesia francese e isole Hawaii).[2]
Presso alcune popolazioni tribali del Bangladesh, le foglie di P. tectorius sono usate come lassativo e per trattare le malattie da raffreddamento e lavaricella[5].
Nella medicina popolare hawaiiana, il polline, i fiori, le foglie e le radici di P. tectorius trovano svariati impieghi: nel trattamento della scrofula, delle infiammazioni cutanee e delle ferite, nella costipazione, nelle infezioni urinarie[6][7].
Nelle Filippine, un decotto di radici di P. tectorius è tradizionalmente utilizzato come diuretico. Decotti di foglie sono invece utilizzati per il mal di testa, i dolori reumatici ed il mal di stomaco. Le foglie secche polverizzate vengono utilizzate per favorire la cicatrizzazione delle ferite.[7]


Gli hawaiani utilizzano l’albero in mille modi: le foglie si trasformano in tessuti e stuoie ma hanno anche proprietà curative, i rami ed i tronchi vengono utilizzati per creare le tubature dell’acqua ed il frutto viene mangiato oppure utilizzato come colore per dipingere.
Ciò che infatti sorprende di più di questo frutto sono i colori accessi e la forma che lo caratterizza! Un vero e proprio spettacolo naturale…
Vi state chiedendo che gusto ha? Chi lo ha assaggiato dice che assomiglia un pò alla zucca.
  

Soluzioni - arredamento.



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domenica 6 ottobre 2013

Scoperta a Bari cava con impronte dinosauri.

Scoperta a Bari cava con orme di dinosauri


Orme risalgono al Cretaceo, circa 100 milioni di anni fa.


Una cava con migliaia di orme di dinosauri, risalenti al periodo del Cretaceo, circa 100 milioni di anni fa, è stata scoperta la scorsa estate dal paleontologo barese, Marco Petruzzelli, all'interno del parco Lama Balice, nella città di Bari. Una anticipazione della ricerca è data dal quotidiano La Repubblica. Il paleontologo, specializzato in icnologia (branca che studia le impronte fossili degli animali) ha rilevato le impronte in un'area compresa nel parco di Lama Balice, che si trova ad un chilometro dall'aeroporto e a ridosso della periferia cittadina.
Si tratta di un giacimento con un numero stimato di circa diecimila orme di dinosauri, con una concentrazione di tre-quattro impronte per metro quadrato. Secondo lo studioso, le impronte fanno pensare che sull'area abbiano camminato ''dinosauri sia di specie erbivora che carnivora''. Il ritrovamento è stato notificato alla Soprintendenza ai beni archeologici, alla presidenza del parco e alla Regione Puglia, affinché l'area possa essere messa sotto tutela''


Leggi anche: 


Palermo, oggi.

Piove e Palermo s'allaga.
Naturalmente, non spazzando le strade quando piove, le foglie secche e i sacchetti sparsi vanno ad ostruire i tombini, impedendo all'acqua di defluire...
In compenso, la tassa sui rifiuti è aumentata del 67%.
Colpa dei palermitani, tutti, senza distinzione: dei civili perchè sporcano, degli istituzionali perchè se ne fregano, da perfetti irresponsabili.





Mondello



Ficarazzi



Via Ferrante, Partanna Mondello



Via Leonardo da Vinci, Palermo



Rotonda Viale Lazio, Palermo

Foto: http://www.gds.it/gds/multimedia/cronaca/gdsid/292958/pg/8/

Vajont: 50 anni fa la frana del monte Toc. - Alberto Boccanegra


I morti furono 1910. Tra gli imputati uno solo andò in carcere ma c'è un suicidio.

VENEZIA - Sono le 22.39 del 9 ottobre 1963. E' in questo istante che un'enorme frana di roccia di circa due chilometri quadrati di superficie e 260 milioni di metri cubi di volume, si stacca dalle pendici del Monte Toc, dietro la diga del Vajont, tra il Friuli e il Veneto. L'enorme massa, un corpo unico, piomba nel sottostante lago artificiale nel quale l'11 aprile, con la terza ed ultima prova di invaso, l'acqua ha raggiunto quota 700,42 metri sul livello del mare.
Lo schianto solleva un'onda di 230 metri d'altezza e ben 50 milioni di metri cubi di materiale solido e liquido in sospensione si alzano. La metà della massa d'acqua scavalca la diga, abbattendosi nella sottostante valle del Piave, provocando la distruzione di sette paesi (Longarone, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago, Castellavazzo). L'altra parte dell'onda sale la valle e va a 'colpire' i paesini friulani di Erto e Casso e una miriade di borghi. Verso Longarone, allo sbocco del Vajont, l'onda è alta 70 metri e produce un vento sempre più intenso, che porta con sé, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori, le persone si rendono conto di ciò che sta per accadere ma non possono più scappare. Lo stesso 9, la prima notizia dell'ANSA titola 'Disastro notte zona del Vajont' e parla di decine di case spazzate via, di morti e feriti, di collegamenti interrotti. La geografia dei luoghi, già sconvolta dalla realizzazione della diga, cambia per sempre.
L'ondata rade al suolo le case ma anche scheggia le altre montagne mentre la cicatrice sul Monte Toc ha la forma di una 'M' gigantesca. I morti accertati sono 1.910 (di cui 1450 solo a Longarone), a cui si aggiungono i 10 caduti sul lavoro durante gli anni di costruzione della diga. Che stesse per succedere qualche cosa alla vigilia del disastro se n'era accorto Alberico Biadene, Direttore costruzioni della Sade, che l'8 ottobre a neppure 24 ore dal disastro, chiede ai vertici della società costruttrice - la Sade - di far scattare l'allarme e provvedere con un piano di evacuazione delle cittadine di Erto e Casso. Il 9 ottobre, prima dell'onda assassina, la frana 'sussurra' che sta per muoversi con gli alberi, là dove resterà la 'M', che si inclinano.
E' mezzogiorno poi quando alcuni operai, in pausa pranzo, vedono ad occhio nudo il movimento della montagna. Uno di loro tra le 15 e le 16 vede degli alberi cadere ed alcune zolle rotolare a valle. Gli animali, nelle stalle e nei cortili passano dal silenzio assoluto all'agitazione, gli uccelli scompaiono. Alle 22 il geometra Giancarlo Rittmeyer telefona a Biadene, a Venezia, per comunicare la sua preoccupazione, dato che la montagna ha cominciato a cedere visibilmente. 39 minuti dopo la telefonata è il disastro e lo stesso geometra è tra le vittime. Solo alle prime luci dell'alba gli occhi dei sopravvissuti possono vedere ciò che è accaduto, mentre la diga, li guarda intatta. Il greto del Piave è stato raschiato dall'onda che ha cancellato del tutto Longarone. Case, chiese, alberghi, osterie, monumenti, piazze e strade sono sommerse dall'acqua che gli ha sradicati dalle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimangono che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Svetta solo il campanile di Pirago, graziato dall'onda assassina. Il 10 ottobre il Gazzettino fa tre edizioni del giornale. Questi i titoli che aprono le 'prime': "Disastro alla diga del Vajont"; "Disastro alla diga del Vajont", edizione straordinaria; "Le prime fotografie", ultima straordinaria. Il Corriere della Sera, il 10 ottobre, apre a tutta pagina con il titolo "L'onda della morte" e sul posto manda a raccontare l'accaduto Giorgio Bocca e il bellunese Dino Buzzati. Subito scatta la commissione d'inchiesta ministeriale e il Presidente della Repubblica Antonio Segni accorre nella valle del Piave e, vedendo il disastro dall'alto dell'elicottero, piange.
Del Vajont, lo stesso Segni, si ricorda nel suo messaggio di fine anno. Per una ferita mai chiusa l'iter processuale è eterno. Nel 1968, il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza contro lo stesso Biadene, l'unico che farà un periodo in carcere, ed altre 10 persone di cui due nel frattempo decedute mentre una terza, alla vigilia del processo, si suicida. Il processo di primo grado si tiene nel tribunale dell'Aquila con le prime tre condanne, nel 1969, a sei anni di reclusione di cui due condonati. Nel 1970, sempre all'Aquila, si tiene l'Appello e ad essere condannati, qui, sono sempre Biadene e una seconda persona. Sentenza confermata in Cassazione nel 1971 ma l'unico a pagare è Biadene (cinque anni di reclusione di cui tre condonati).
Negli anni '70 inizia la battaglia per i danni, in sede civile, con un travagliato percorso: la sentenza di primo grado del Tribunale di Belluno è del febbraio del 1997. La Corte d'Appello di Venezia conferma la condanna per la Montedison (Sade vi era entrata), a risarcire il Comune di Longarone per i danni materiali e morali. Non si andrà in Cassazione. L'ultimo atto del percorso si chiude con l'Enel, ora proprietaria della diga, che paga penali ai comuni di Erto e Casso. In tutto si va a transazioni per 22 miliardi di lire per le parti lese poi rivalutati in 77.

“Truccavano concorsi”. Denunciati cinque ‘saggi’ scelti da Letta per la Costituzione. - Antonio Massari.


L'inchiesta della Procura di Bari nasce su segnalazione della Guardia di Finanza e coinvolge trentotto professori di sette università di diritto in Italia. Tra questi, oltre all'ex ministro alle politiche europee Annamaria Bernini e l'ex garante della Privacy Federico Pizzetti, anche i costituzionalisti voluti da Napolitano per consigliare Letta sul futuro del Paese: Barbera, de Vergottini, Salazar, Violini e Caravita.

In quali mani è la nostra Costituzione? Una risposta ce l’hanno i pm e gli investigatori della Guardia di Finanza che, sull’asse Roma – Bari, indagano con la procura di Bari: cinque “saggi”, incaricati dal presidente Napolitano di riformare la Carta Costituzionale, sono stati denunciati dalla Gdf per truffa, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e falso ideologico.
L’inchiesta conta ben 38 persone al momento denunciate: docenti accusati d’aver costituito un’associazione per delinquere che ha pilotato, negli ultimi tre anni, i concorsi per diventare professori nelle università italiane. Tra loro anche i cinque “saggi” Augusto Barbera e Giuseppe de Vergottini dell’università di Bologna, Carmela Salazar dell’’Università di Reggio Calabria, Lorenza Violini dell’Università di Milano e Beniamino Caravita della Sapienza di Roma. Quest’ultimo ha subito una perquisizione già due anni fa. Ma secondo il suo legale, Renato Borzone, il professor Caravita “non ha alcuna responsabilità e, a giudicare dal numero di proroghe, l’indagine dovrebbe essere già conclusa”.
In realtà siamo in fase d’indagine preliminare, quindi tutti gli eventuali reati sono da accertare nelle sedi giudiziarie, ma lo spaccato che emerge dall’inchiesta appare da un lato desolante, dall’altro devastante, per l’intera università italiana. E non solo. Mentre erano in corso le indagini, infatti, ben 5 denunciati sono stati elevati al rango di saggi della Repubblica, con incarico conferito direttamente dal presidente Napolitano. E oggi, alla luce dell’inchiesta, possiamo rileggere alcune cronache dell’epoca: “Se si dà retta alle indiscrezioni – scriveva la Stampa – Napolitano pare abbia personalmente depennato svariati nomi che non gli sembravano consoni al ruolo o comunque all’altezza della sfida istituzionale”. Oppure il Foglio: “Trentacinque prof. d’obbedienza quirinalizia per fiancheggiare Letta e attutire le intemperanze dei partiti”, titolava, menzionando una frase del Presidente – “Ricordatevi che la vostra non sarà una lotta tra guastatori e difensori della purezza costituzionale” – e aggiungendo: “Li ha coccolati con lo sguardo mentre li ha accolti al Quirinale, tutti e trentacinque quanti sono questi suoi professoroni costituzionalisti, il meglio degli atenei d’Italia, i suoi “saggi”, lo strumento ricorrente e permanente della politica presidenziale di Giorgio Napolitano…”.
Cinque di loro, però, sono finiti denunciati nell’inchiesta condotta dal pm di Bari Renato Nitti, in collaborazione con la Guardia di Finanza, e le accuse sono piuttosto dure. L’inchiesta nasce quattro anni fa, nel 2009, quando Nitti indaga su un concorso bandito dall’Università telematica Giustino Fortunato. È quello il primo momento in cui, la procura barese e la Gdf, incappano nelle vicende dell’istituto di diritto Costituzionale. Gli investigatori intercettano il professor Aldo Loiodice, che è professore ordinario di Costituzionale ed è anche il rettore della Giustino Fortunato, ma nel frattempo interviene la riforma del-l’ex ministro Gelmini, che cambia le regole del concorso.
Il localismo è destinato a finire: nasce una super commissione nazionale, per ogni singolo istituto universitario, che dovrà poi nominare i futuri professori. Il primo concorso dovrebbe chiudersi proprio nelle prossime settimane. La Finanza, nel frattempo, ascolta in diretta telefonate e strategie dei docenti, che si confrontano con il modello Gelmini, e scopre il tentativo di far eleggere, nella commissione nazionale, professori ritenuti avvicinabili: lo scopo, secondo l’accusa, è quello di manipolare i concorsi e pilotare le nomine. I 38 denunciati – tra loro anche Annamaria Bernini e Federico Gustavo Pizzetti di diritto pubblico comparato – appartengono a ben 8 diverse università. Gli istituti finiti nel mirino degli investigatori, per il concorso in questione, sono tre: diritto Costituzionale, diritto Canonico ed Ecclesiastico e diritto Pubblico Comparato.
Il professor Augusto Barbera nega qualsiasi coinvolgimento: “Non potevo ricevere pressioni, poiché non sono in commissione, e non ne ho esercitate, quindi non capisco in che modo possa essere coinvolto. Se qualcuno ha fatto il mio nome a sproposito non posso saperlo. Posso soltanto dire di essere estraneo alla vicenda. Con la riforma Gelmini, poi, gli accordi non sono possibili: la commissione è sorteggiata su centinaia di nominativi. Certo, poi può sempre accadere che un collega faccia qualche pressione”.
Un ‘saggio’, dinanzi a un eventuale avviso di garanzia, non dovrebbe rimettere il proprio mandato? “La commissione s’è chiusa il 17 settembre 2013: il nostro compito è finito. Se poi arriva un avviso di garanzia, e io non ne ho ricevuti, ognuno si comporta secondo la propria sensibilità: potrei dire che sono disposto a dimettermi, anche se avendo concluso il mio compito non sono più un saggio e, soprattutto, un avviso di garanzia non significa nulla, anzi, si tratta di un atto a garanzia del-l’indagato. Piuttosto, posso dire che se dovessi ricevere un avviso di garanzia, sarei immediatamente disponibile a collaborare con la magistratura perché questo è il mio primo dovere”.