domenica 12 luglio 2015

Il ‘Patto scellerato’: Renzi taglia i soldi al Comune di Palermo e Orlando aumenta le tasse ai palermitani. - Giulio Ambrosetti



Questo ed altro emerge dalla lettura della relazione dei revisori dei conti di accompagnamento al Bilancio consuntivo 2014. Il documento viene illustrato dalla vice presidente del Consiglio comunale, Nadia Spallitta. Le società partecipate che nascondono i ‘buchi’ di bilancio.

Tante le notizie che vengono fuori leggendo la relazione dei revisori dei conti di accompagnamento al Bilancio consuntivo 2014. Ne segnaliamo, in particolare, due. 
Prima notizia: il ‘patto scellerato’ tra il governo Renzi e l’amministrazione comunale di Leoluca Orlando. In pratica, Renzi taglia i fondi al Comune e la Giunta Orlando massacra di tasse i palermitani. 
Seconda notizia: le società controllate dal Comune (o partecipate dallo stesso Comune) occultano i ‘buchi’ di bilancio.  
Cominciamo ad esaminare la seconda notizia. Partiamo dal Comune di Palermo, ma il dato riguarda molti Comuni dell’Isola. Per le società controllate dai Comuni siciliani (e forse anche per molti degli stessi Comuni dell’Isola), il prossimo anno, dovrebbe profilarsi qualcosa di molto simile al fallimento. Oggi ci occupiamo del Comune di Palermo, visto che è disponibile la già citata relazione dei revisori dei conti di accompagnamento al Bilancio consuntivo 2014. La relazione è stata consegnata ai 50 Consiglieri comunali di Palazzo delle Aquile, la sede del Comune di Palermo. E per ciò che riguarda i costi delle società partecipate del capoluogo dell’Isola, beh, non c’è da stare allegri. Anzi.
I dati li ha resi noti la vice presidente del Consiglio comunale di Palermo, Nadia Spallitta.  “Aumenta 
palazzo delle aquile
Palermo, Palazzo delle Aquile
considerevolmente il costo delle società partecipate di circa 20 milioni di euro - dice Nadia Spallitta - e permangono consistenti disallineamenti tra i bilanci delle partecipate e quello comunale”. Scendendo nei particolari si nota che, “per alcune di queste società non è stato prodotto alcun bilancio”. Cosa che non sarebbe potuta succedere se fosse stato introdotto il controllo analogo previsto dalla riforma della contabilità pubblica: ovvero l’inserimento dei bilanci delle società controllate o comunque partecipate dai Comuni nei bilanci degli stessi Comuni. Di fatto, al di là delle giustificazioni di rito, la sensazione è che la mancata applicazione della riforma sia servita a nascondere la vera situazione contabile delle società collegate.
I Comuni sono in parte giustificati, alla luce della riduzione dei trasferimenti dello Stato e della Regione siciliana. E, in molti casi, dei mancati trasferimenti di fondi da parte della Regione siciliana. Da qui il gioco delle parti: la Regione che non eroga il dovuto ai Comuni dell’Isola (visto che subisce silenziosamente i tagli di Roma, in buona parte illegittimi, ma avallati, per ragioni di partito, dal presidente della Regione, Rosario Crocetta) e, in cambio, dà la possibilità agli stessi Comuni di continuare a nascondere, per un altro anno, i ‘buchi’ delle società controllate dai Comuni o collegate agli stessi Comuni.    
Palermo, sotto questo punto di vista, fa scuola. A giudicare da quello che scrive la vice presidente del
Nadia Spallitta
Nadia Spallitta
Consiglio comunale, Nadia Spallitta, i bilanci delle società collegate non sarebbero “trasparenti”. E’ il caso dell’Amia, la società che si occupava della raccolta dei rifiuti e che è fallita. O della Gesip, società i cui dipendenti sono confluiti in altre società. O della Rap, la società che ha preso il posto dell’Amia, che costa oltre 120 milioni di euro all’anno e che, però, non riesce a tenere pulita la città.
Palermo panoramica
Panoramica di Palermo
L’elenco continua con la Gesap, la società che gestisce i servizi a terra presso l’aeroporto di Palermo Falcone-Borsellino (già Punta Raisi). Di tale società aeroportuale il Comune detiene il 30 per cento circa delle azioni. La partita sulla Gesap è importante. In questo momento è in corso una guerra con il Comune che difende la gestione pubblica e alcuni ‘pirati’ che vorrebbero privatizzarla a costi irrisori. E va dato atto all’attuale presidente della società, Fabio Giambrone, di aver rimesso in carreggiata la società.
Il centrodestra - che ha controllato tale società per lunghi anni - aveva aumentato i costi in modo clientelare (leggere consulenze esterne). Con l’obiettivo di vendere la società per pochi ‘spiccioli’. Operazione sventata dall’amministrazione comunale di Leoluca Orlando che, con il 30 per cento circa delle azioni (gli altri soci sono la Provincia di Palermo commissariata dalla Regione con circa il 40 per cento delle azioni; la Camera di Commercio con il 20 per cento circa delle azioni e poi piccole partecipazioni di altri Comuni e di privati), esprime il presidente con il già citato Giambrone.
Tra le altre società del Comune di Palermo delle quali non si conoscono i conti c’è la Reset. Quindi la fondazione Teatro Massimo e l’associazione del Teatro Biondo Stabile.     
Nella relazione dei revisori dei conti del Comune di Palermo si affrontano altri temi. Per esempio la pressione fiscale a carico dei cittadini palermitani. Che nel triennio 2012-2014 è aumentata di 150 milioni di euro. E’ il gioco delle tre carte: a Roma il governo Renzi taglia i soldi ai Comuni per portarli alla Germania della signora Merkel. Il costo di questi mancati trasferimenti dello Stato è a carico dei cittadini con l’aumento di tasse e imposte comunali.
A Palermo il dato è doppiamente negativo. Questo perché, all’aumento della pressione fiscale di 150 milioni di euro, si registra una riduzione degli investimento di circa 100 milioni di euro. Ciò significa che i palermitani pagano più tasse per retribuire personale che, nella stragrande maggioranza dei casi, fornisce alla città servizi pessimi (è il caso della mancata raccolta dell’immondizia).   
Interessante anche la truffa sui debiti fuori bilancio. Che passano da 15 a 32 milioni di euro. Con un’incidenza sulle entrate che, dall’1,8%, passa al 4,4%. Di questi 32 milioni di euro, 29 milioni derivano da sentenze esecutive di condanna dell’amministrazione, 1,5 milioni per procedure espropriative erronee e circa 1 milione per acquisizione di beni e servizi senza impegno di spesa.
L’uso improprio dei debiti fuori bilancio nei Comuni è stato stigmatizzato anche dalla Corte dei Conti. In pratica, con tale metodo, si pagano ‘errori’ e fornitori improbabili (senza impegno di spesa, per l’appunto) con scarsi controlli. Con il dubbio, tutt’altro che campato in aria, che i debiti fuori bilancio servano per finanziare la politica.
Non mancano altri dati preoccupanti segnalati sempre da Nadia Spallitta: l’incidenza delle entrate tributarie sulle entrate comunali pari all’88,38% (in pratica, il Comune di Palermo vie ormai grazie alle tasse e alle imposte dei cittadini); una pressione delle entrate pro capite pari a 813 euro nel 2014 (era pari a 599 euro nel 2012); un aumento della pressione tributaria pro capite che, dai 514 euro del 2012, passa ai 718 euro del 2014 (complessivamente 337 milioni nel 2012 e 487 milioni nel 2014); quindi un aumento dell’indebitamento pro capite, che passa da 421 a 452 euro. Fine dei dati negativi? Nemmeno per sogno. “Si riduce la propensione all’investimento dal 18,33% del 2012 all'8,6% del 2014 - scrive sempre Nadia Spallitta -. Si riducono notevolmente gli investimenti pro capite, da 250 a 95 euro (complessivamente si è passati dai 163 milioni del 2012, cifra peraltro già irrisoria, ai 64 milioni di euro del 2014); si riducono i trasferimenti in conto capitale pro capite arrivando a 7,7 euro (rispetto ai 200 del 2012)”. Questo significa che al Comune di Palermo i soldi che dovrebbero servire per gli investimenti vengono utilizzati per pagare il personale del Comune e delle società partecipate. Per ogni dipendente, il costo per il Comune di Palermo si attesta intorno a 50 mila euro all’anno (in media).
“Allarmante appare il valore del contenzioso - scrive sempre Nadia Spallitta - pari a circa 500 milioni di euro (260 milioni attivo e 247 passivo), in relazione al quale non si ha modo di prevedere la vittoria o la soccombenza. Si tratta comunque di un dato che denota sicuramente dei vizi nei procedimenti amministrativi che determinano azioni legali per un valore complessivo pari a più di un terzo dell’intero bilancio. I revisori rilevano inoltre che è stata accolta l’opposizione del Comune avverso al fallimento Amia con diritto alla restituzione di immobili già trasferiti all’Amia per un valore di 80 milioni di euro”.
I revisori sottolineano anche una lentezza nella capacità di riscossione del Comune. “Rispetto ad una previsione di 11 milioni di euro e un accertamento di 9 milioni di euro in materia di recupero per evasione Tarsu, Tia e Tasi - scrive sempre la vice presidente del Consiglio comunale di Palermo - nessun importo è stato poi riscosso nell’esercizio 2014 e in generale è stato effettuato un accertamento di evasione fiscale per 22 milioni di euro, mentre la riscossione ammonta a soli 4 milioni. Questo ha determinato anche una riduzione dell’avanzo di competenza, che da 77 milioni del 2012 passa a 17 milioni del 2014”. Questo dato è importante perché, con molta probabilità, segnala la presenza di un impoverimento complessivo dei palermitani, con famiglie che debbono scegliere: o mangiare, o pagare le tasse al Comune. La dimostrazione che l’idea di far pagare ai cittadini i tagli del governo nazionale - che poi è la politica del governo Renzi - funziona fino a un certo punto: quando si va oltre un certo limite (che a Palermo, in moti casi, è stato superato), molte famiglie e molte imprese non ce la fanno più e non pagano.   
“Con riferimento ai servizi a domanda individuale - scrive sempre Nadia Spallitta - si registra un saldo negativo di 16 milioni di euro (entrate 4 milioni, costi 20 milioni) con una copertura del 20% circa. Nonostante l’incremento turistico dichiarato dagli organismi del settore, per gli spazi espositivi e i musei, a fronte di costi per 3,6 milioni di euro, i proventi sono davvero esigui: 100 mila euro”. Traduzione: il Comune di Palermo è bravo a tartassare di tasse i cittadini, ma è incapace di gestire i propri musei e i propri spazi espositivi.  
Altro giro, altra corsa: le contravvenzioni, che ormai sono diventate un mezzo mediante il quale il Comune di Palermo tartassa i cittadini. “Per le infrazioni al Codice della strada nel 2012 - dice sempre la vice presidente del Consiglio comunale - le entrate erano di 500 mila euro, mentre oggi si è passati a quasi 5 milioni di euro”. La dimostrazione matematica che, a Palermo vigili urbani, ausiliari del traffico e controlli automatici della velocità vanno a ruota libera.
Dalle multe alle sanatorie edilizie. Lì il Comune di Palermo ci va cauto: “Nonostante pendano circa 60 mila istanze di sanatoria edilizia - scrive sempre Nadia Spallitta - i contributi derivanti sono accertati in 1 milione di euro (di fronte a una stima approssimativa di 60 milioni di euro recuperabili). Si riduce il costo dell’utilizzo di beni di terzi da 14 a 9 milioni, così come il costo del personale pro capite che passa da 410 a 357 euro”.
La relazione dei revisori si conclude con numerose osservazioni, soprattutto in relazione agli organismi partecipati e alla già citata mancata produzione dei documenti necessari per fotografare la situazione delle società partecipate alla data del 31 dicembre 2014, “rendendo difficoltoso avere un quadro organico, esaustivo e completo dell’effettiva situazione finanziaria e contabile dello stesso Comune”. I revisori invitano il Comune di Palermo “ad un’azione che in modo radicale muti l’approccio culturale, ancor prima che tecnico, verso il sistema delle partecipate”. E osservano “altresì che non è stato adottato un bilancio consolidato, necessario invece per una visione unitaria della situazione economico-finanziaria dell’ente e per un adeguato controllo di gestione che, per tanto, allo Stato appare inefficace”.
Sulla relazione dei revisori dei conti interviene il capogruppo del PD a palazzo delle Aquile, Rosario Filoramo: "Il Comune - dice - tassa pesantemente i suoi cittadini, paga stipendi, ma non sa o almeno non comunica adeguatamente come eroga i servizi ai cittadini, quanto costano a livello unitario e quali obiettivi vengono raggiunti. Questo il giudizio più tagliente della relazione dei revisori dei conti al rendiconto di gestione 2014. Si tratta di una sonora bocciatura sul piano tecnico e su quello politico. Il rendiconto di gestione - conclude Filoramo - fotografa una situazione che non cambia rispetto a quella del 2013 e una gestione che resta ancorata al modello del secolo scorso. I cittadini pagano profumatamente in cambio di pessimi servizi".  
Concludendo, il prossimo anno, con il controllo analogo, al Comune di Palermo ci sarà da ridere…

sabato 11 luglio 2015

Napolitano junior, il principe ereditario. - Alessandro Da Rold e Marco Fattorini

Giulio Napolitano

Professore universitario dalle amicizie importanti: è lui il Gianni Letta della Terza Repubblica?

Giulio Napolitano, figlio di Clio e del presidente Giorgio, vanta già numerosi soprannomi sebbene abbia appena 44 anni. Ne compirà 45 a luglio, ma nei palazzi romani c’è già chi lo definisce il “principe ereditario dell’aristocrazia comunista” o anche il “Gianni Letta della rottamazione”, nel senso che appare già come il candidato naturale per quel lavoro di tessitura economico-politica bipartisan, appaltato nella prima e nella seconda Repubblica all’ex direttore del Tempo. Nella Terza Repubblica targata Matteo Renzi e Enrico Letta s’inserisce Giulio insieme con il fraterno amico e avvocato Andrea Zoppini, titolare dell’omonimo studio legale tra i più importanti di Roma, attivi entrambi in questa fase così confusa per la Repubblica Italiana, tra cambi di governo in corsa e una partita sulle nomine nelle aziende pubbliche, da Eni a Finmeccanica, che toglie il sonno a tanti boiardi di Stato. Del resto il giovane Napolitano conosce bene la pubblica amministrazione e sa muoversi nel regno dell’apparato statale con grande disinvoltura. 
Insegna diritto amministrativo all’Università Roma Tre, ateneo pubblico dai maligni anche definito “l’università dei Ds”. L’appellativo deriva da un incrocio di circostanze più o meno casuali che fanno dei palazzi lungo l’Ostiense una sorta di Quirinale bis. Da queste parti non è mai stato dimenticato il rettore Guido Fabiani, vero e proprio simbolo dell’ateneo capitolino. In carica per quattro mandati - celebre ancora oggi il voto in senato accademico con cui modificò lo statuto che ne consentiva al massimo due - ha lasciato nel 2013 dopo essere stato nominato assessore alle Attività Produttive e allo Sviluppo Economico della giunta regionale del Lazio di Nicola Zingaretti. Fabiani è sposato con Talia Binotti, sorella di Clio Napolitano, quindi cognato del Capo dello Stato. La figlia Anna Fabiani, cugina di Giulio, insegna Scienze Biologiche sempre a Roma Tre, mentre suo marito Alberto Tenderini è responsabile delle iniziative sportive nella stessa Università. A questo si aggiunga una nota di colore: nel medesimo ateneo si è mossa Clara Fraticelli, oggi avvocato e ieri dottoranda di ricerca in diritto amministrativo nota alle cronache del gossip per una storia d’amore proprio con Napo Junior.
Clio
Generazione quarant'anni, quindi, ma il curriculum di Giulio è tutt’altro che timido: un dottorato alla scuola Sant’Anna di Pisa, un contratto di ricerca alla Sapienza e poi il posto da professore associato all’Università della Tuscia. Nel mezzo una decina di volumi pubblicati per Il Mulino, paper, riviste scientifiche, commissioni di studio e consulenze per i ministeri. Gli vengono riconosciute «eccellenti competenze giuridiche», si muove tra regolazione di servizi pubblici, semplificazione amministrativa, enti sportivi e autorità indipendenti. Nel 2007 Roberto Tomei, dirigente Istat che aveva partecipato al concorso di professore associato in Molise con Napolitano, si rivolse al Tar perché sosteneva che la commissione esaminatrice avesse sopravvalutato i titoli presentati dal figlio del presidente della Repubblica. Il Consiglio di Stato gli diede ragione, ma non ci fu nulla da fare. «Mi arrendo a Napolitano junior» disse in un’intervista a Italia Oggi. Del resto sono in tanti, tra uomini e donne, a essersi arresi al secondogenito dell’ex dirigente del Pci.
Oltre al lavoro però ci sono le passioni, in primis quella per il calcio. La fede laziale di Giulio ha scandito la quotidianità del padre Giorgio. Anni Ottanta: si racconta che al termine di una delicatissima riunione del Pci Napolitano confessò di dover scappare a casa per consolare il figlio amareggiato dalle delusioni della squadra biancoceleste. Crescendo, la professione di fede non viene meno e Giulio continua a seguire la Lazio anche allo stadio Olimpico dove peraltro fu paparazzato al fianco dell’ex fidanzata Marianna Madia. L’attuale ministro per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione prova a far chiarezza: «Con lui cominciai una storia sentimentale quando suo padre Giorgio era ancora solo un ex e illustre dirigente del Pci, poi sono stata a cena al Colle una sola volta». 
madia
Donne a parte, la passione di Giulio per lo sport si è trasformata in lavoro: in questi mesi il presidente del Coni Giovanni Malagò gli ha affidato la riscrittura della riforma della giustizia sportiva. Nel 2012 è stato nominato commissario ad acta della Federcalcio da Giancarlo Abete. «Si è messo subito al lavoro - faceva sapere l’ufficio stampa - per procedere all'adeguamento dello statuto federale». In un momento di tensione per il palazzo del calcio il compito era quello di sbrogliare la matassa della ripartizione dei seggi al Consiglio Federale. Il commissario Napolitano ha dovuto «individuare nell'ambito delle proprie competenze i nuovi pesi ponderati e i livelli di rappresentanza all'interno del consiglio». Andando a ritroso si arriva nel 2006, quando Giulio ha preso parte alla Commissione per la riforma della disciplina delle società sportive, mentre un anno prima era membro della Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport che ha condannato il campione della terra rossa Adriano Panatta per una vicenda legata a sponsorizzazioni con la Federazione Italiana Tennis. Esperienza, quella della Camera di conciliazione, portata avanti con il «gemello» Andrea Zoppini, che all’epoca vestiva i panni di avvocato della Fit.
Zoppini ha lo studio legale attualmente più forte sulla piazza romana. Il suo studio è stato consulente di Poste Italiane nell’aumento di capitale di Alitalia. In passato ha avuto a che fare anche con Ferrovie dello Stato, già sottosegretario alla Giustizia del governo Monti fu costretto alle dimissioni perché indagato per frode fiscale in un’inchiesta poi archiviata dalla procura di Verbania. Aziende statali sembra essere la parola d’ordine per la coppia Zoppini-Napolitano. Nel caso di Giulio oltre all’università c’è stato spazio per incarichi come quello alla presidenza dell’Organo di Vigilanza in Telecom Italia. I maligni sussurrano che negli ultimi mesi l’attivismo del secondogenito dei Napolitano sia mal digerito dallo stesso Renzi. Già molto calda, la situazione diventerà rovente a metà aprile quando ci sarà la lista dei nomi per le 600 poltrone nelle grandi aziende statali dove un tempo decideva Letta, spesso in combinata con il faccendiere Luigi Bisignani.
Luigi Bisignani

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E Giulio, proprio come Gianni Letta, è figlio, non per sua colpa, della Roma intarsiata di salotti, amicizie facoltose, teatri e tennis club. Perfettamente inserito negli ambienti giusti sin dagli anni dell’adolescenza (gli studi classici al liceo Visconti) Giulio non disdegna la Toscana. È questo il refugium peccatorum di borghesia illuminata e classe dirigente pariolina che ciclicamente apparecchia il proprio esodo dal Grande Raccordo Anulare per atterrare in zona Argentario. A Capalbio, avamposto dei salotti estivi che contano, Napolitano Junior è stato avvistato per momenti di relax e vacanza. Nella stessa cittadina era solito frequentare la casa dell’editore Angelo Rizzoli, elegante cenacolo bipartisan dove il rampollo Napolitano ha incrociato anche Renata Polverini e Fabrizio Cicchitto. Nella vicina Ansedonia, siamo sempre in provincia di Grosseto, si è concesso passeggiate in riva al mare con Sabino Cassese, il giudice costituzionale di cui Giulio è stato allievo curandone anche il Dizionario di diritto pubblico edito da Giuffrè. 
Con un papà di tale stazza politica tenersi fuori dall’agone è impresa ardua, forse impossibile. Nello scorso aprile, durante le votazioni in Parlamento per l’elezione del nuovo capo dello Stato spuntò anche un voto per Giulio, «che però non ha i requisiti poiché non raggiunge i 50 anni di età». Scherzo beffardo, per molti un antipasto della riconferma al trono di papà Giorgio, il Re. Ma Giulio non ha fatto mancare il suo contributo personale, anzitutto da militante. Chi lo conosce bene non esita a definirlo «un riformista di sinistra» e i più puntigliosi ricordano quella volta che al congresso dei Democratici di Sinistra votò per la mozione Morando. In una conversazione con Claudio Cerasa de Il Foglio, Giulio Napolitano spiega la politica vista dalla plancia dei quarantenni: «Siamo figli dell’età post ossessioni ideologiche, un’età in cui la cultura della conciliazione, grazie anche alla nascita dell’Unione Europea, ci ha aiutato a seguire un percorso autonomo, molti di noi sono maturati all’interno di esperienze aggregative diverse dalle sezioni e dai circoli di partito. Chi è nato nei nostri anni il collante politico-culturale se l’è dovuto costruire e chissà, magari la partecipazione a centri di ricerca, uffici studi, fino ai famigerati think tank nasce proprio da qui».
Letta
Non è un caso che le consuetudini politiche del giovane Napolitano lo vedano frequentatore di alcuni tra i think tank più blasonati della cosa pubblica nostrana come Astrid, fondazione “per l’analisi, gli studi e le ricerche sulla riforma delle istituzioni democratiche e sull'innovazione nelle amministrazioni pubbliche”, presieduta da Giuliano Amato e Franco Bassanini. Ma Giulio ha scritto anche per la creatura dalemiana Italianieuropei, passando pure dal centro studi Arel di Nino Andreatta e dal cenacolo di Vedrò, feudo di Enrico Letta. All’ex premier, con cui condivide l’anno di nascita 1969, lo lega un’amicizia cementificata dai trascorsi professionali: Giulio è stato suo braccio destro e consulente giuridico quando Enrico sedeva alla poltrona di sottosegretario alla presidenza del Consiglio durante il governo Prodi, ma gli insider aggiungono un altro dettaglio: «Da anni Letta si avvale della collaborazione di Giulio in qualità di ghost writer». Letta ha fatto la sua parte firmando l’introduzione del libro di Napo Junior “Le autorità al tempo della crisi”, saggio poi presentato in pubblico, tra gli altri, da Ferruccio De Bortoli, Antonio Catricalà e Giulio Tremonti.
Al papà, Re Giorgio, viene rimproverato l’eccessivo interventismo sui governi, per questo s’è beccato la corona mediatica del monarca. E a lui, il figlio, ultimamente è stata addebitata qualche ingerenza di troppo a margine delle consultazioni per la formazione della squadra di governo. A metà febbraio è Paolo Granzotto su Il Giornale a incorniciare il chiacchiericcio di palazzo riferendo che Giulio avrebbe partecipato a un summit del premier incaricato con Giorgio Napolitano. «Assolutamente falso», replica con una nota il direttore dell’ufficio stampa del Quirinale Maurizio Caprara, che sente il bisogno di precisare: «Mai è stato presente alcun familiare ai colloqui istituzionali del presidente Napolitano». Eppure nei palazzi si continua a mormorare.

Napolitano? “De Gennaro e Letta ce l’hanno per le palle, sanno di Giulio.” - Vincenzo Iurillo e Marco Lillo





L'intercettazione del febbraio 2014 fra Dario Nardella, vice di Renzi quando il premier era sindaco di Firenze, e Michele Adinolfi, oggi comandante in seconda della guardia di Finanza, evoca ombre su attività e "conflitti d'interesse" di Giulio Napolitano, figlio dell'allora presidente della Repubblica. "Sanno qualcosa di lui". Al centro la nomina a sorpresa del generale Saverio Capolupo, anziché di Adinolfi, al vertice della Gdf da parte del governo Letta.


Il 5 febbraio 2014, quando già la staffetta era matura, alla Taverna Flavia di Roma pranzano in quattro: il vicesindaco (poi sindaco) di Firenze Dario Nardella, il generale della Guardia di Finanza allora a capo di Toscana ed Emilia-Romagna Michele Adinolfi, oggi comandante in seconda della Gdf, il presidente dei medici sportivi Maurizio Casasco e l’ex capo di gabinetto del ministro Tremonti nonché presidente di Invimit, società di gestione del risparmio che amministra immobili pubblici ed è di proprietà del ministero dell’Economia, Vincenzo Fortunato.
I carabinieri del Noe guidati dal colonnello Sergio De Caprio intercettano il colloquio con una cimice sotto il tavolo. Due le partite: la nomina a sorpresa del generale Saverio Capolupo, anziché di Adinolfi, al vertice della Finanza da parte del morituro governo Letta. E la staffetta tra questi e Renzi, amico dei commensali. In questo contesto l’attuale numero due della Guardia di Finanza dice che il figlio di Napolitano Giulio oggi a Roma è potente, è tutto”. Poi sembra dire che il capo dello Stato sarebbe ricattabile perché “l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e (Enrico, ndr) Letta ce l’hanno per le palle, pur sapendo qualche cosa di Giulio”. Nardella non fa una piega, anzi.
Scrive il Noe: “Nardella dice che la strada è più semplice. Bisogna fare la legge elettorale e andare alle elezioni anticipate”. Poi dice che Letta gli sembra “andreottiano” e “attaccato alla seggiola”. E allude malizioso: “A meno che non ci sia anche da coprire una serie di cose, come uno nomina sei mesi prima il comandante, perché… a me è venuta la Santanchè pensa, che dice tanto tutti sanno qual è la considerazione di Giulio Napolitano. Prima o poi uscirà fuori”. Insomma, il segreto non sarebbe più tale. “Se lo sa la Santanchè, vabbè ragazzi”.
Adinolfi resta sul tema: “Giulio oggi a Roma è tutto o comunque è molto. Giusto? Tutto, tutto… e sembra che… l’ex capo della Polizia … Gianni De Gennaro e Letta ce l’hanno per le palle, pur sapendo qualche cosa di Giulio”. Nardella commenta criptico: “A quello si aggiunge, quello è il colore…”, seguono parole incomprensibili. Fortunato pensa al potere del figlio del presidente: “Comunque lui è un uomo, c’ha studi professionali, interessi. Comunque tutti sanno che lui ha un’influenza col padre. Come è inevitabile… ha novant’anni c’ha un figlio solo”. Nardella concorda: “È fortissimo!”. Adinolfi: “Non è normale che tutti sappiano che bisogna passare da lui per arrivare” e Nardella sembra accennare a un possibile conflitto di interesse: “Consulenze, per dire consulenze dalla pubblica amministrazione”.
A conferma dell’ipotetica relazione tra la nomina di Capolupo e una presunta ricattabilità di Giulio Napolitano c’è una telefonata del giorno seguente. Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e delegato per la Legalità di Confindustria nazionale, parla con Adinolfi. Mentre aspetta Montante confida a qualcuno vicino: “Perché è stato prorogato… chissà perché… Figlio di puttana ha beccato ha in mano tutto del figlio di Napolitano, tutto… me l’ha detto Michele… ha tutto in mano sul figlio di Napolitano”. Dove Michele, secondo i carabinieri, è Adinolfi.
Non è chiaro, dalla registrazione, cosa abbia in mano Capolupo. Potrebbero essere parole in libertà ma una democrazia non tollera ombre. Anche Giorgio Napolitano non esce bene dalle intercettazioni, come quella di una conversazione tra Fabrizio Ravoni, già al Giornale dei Berlusconi e poi a Palazzo Chigi con Berlusconi e Fortunato. Il Noe definisce “interessante” la conversazione del 5 febbraio 2014 in cui il burocrate più potente ai tempi di Tremonti, “in contrasto con l’attuale governo Letta sente il bisogno di esternare circa un ruolo anomalo di Giulio Napolitano.
Il discorso – prosegue il Noe – parte da Fortunato che racconta a Ravoni le sue considerazioni sull’azione del Presidente della Repubblica, che avrebbe favorito provvedimenti favorevoli al figlio Giulio imponendo il rigore su altri: ‘Guarda è un uomo di merda io so’ convinto da tempo… prima ha fatto cadere questo poi ha spostato il rigore a parole perché tra l’altro quando si trattava di far passare i provvedimenti per l’Università che gli stavano al cuore al figlio era il primo a imporci le norme di spesa ma comunque poi ha imposto a tutto il paese un anno di governo Monti al grido rigore, rigore, rigore…’”. E il Noe ricorda che Napolitano jr. è professore ordinario a Roma tre.
di Vincenzo Iurillo e Marco Lillo
da Il Fatto Quotidiano del 10 luglio 2015
*Riceviamo e pubblichiamo:
“Il Fatto Quotidiano di oggi riferisce di una conversazione da taverna fra una serie di persone, da me mai frequentate, le quali, per spiegare il loro mancato ottenimento di vantaggi e nomine sostengono che ciò sarebbe dovuto al fatto, risibile e assurdo, che io sarei “ricattato” o “ricattabile”.
Nei nove anni di presidenza di mio padre ho sempre assunto un profilo pubblico e professionale volutamente in disparte, rifiutando moltissimi incarichi che anche indirettamente avrebbero potuto riverberarsi negativamente sulla attività e la immagine del presidente della Repubblica. 
Tant’è che i commensali, nei cui confronti valuterò le azioni da intraprendere, non riescono ad evidenziare un solo fatto, evento, provvedimento che in qualche modo mi avrebbe favorito.
Rimane una domanda di fondo: come sia possibile che conversazioni manifestamente irrilevanti, per la loro forma e il contenuto, siano potute entrare nella carte di un procedimento penale che riguarda tutt’altre vicende e da qui diffuse ad arte. Ma si tratta di malattia antica che va ben oltre il maldestro tentativo di gettare fango sulla mia persona”.
Giulio Napolitano

Renzi: “Letta incapace, Berlusconi è con me”. La strategia per Palazzo Chigi spiegata al generale Adinolfi. - Vincenzo Iurillo e Marco Lillo

Renzi: “Letta incapace, Berlusconi è con me”. La strategia per Palazzo Chigi spiegata al generale Adinolfi

L'INTERCETTAZIONE - L'attuale premier parlava così al telefono con l'attuale numero due della Guardia di finanza quando non era ancora premier. Voleva mandare Letta jr al Quirinale: "Sarebbe perfetto". E aggiungeva: "Lui non è capace, non è cattivo, l'alternativa è governarlo da fuori. B. sarebbe sensibile a fare un ragionamento diverso."

Le strategie per prendere il posto di Enrico Letta, spiegate dalla viva voce di Matteo Renzi in una telefonata dell’11 gennaio 2014, meno di un mese prima di suonare la campanellina dello sfratto al suo predecessore. Renzi, si scopre oggi, propose a Letta l’onore delle armi, uno specchietto per le allodole o una promessa che non si poteva mantenere e nemmeno rifiutare: il Quirinale nel 2017 in cambio di Palazzo Chigi. Ma Letta, che Renzi definisce “un incapace”, non accetta e così l’allora sindaco lo asfalta.
Nell’indagine di Napoli sulla Cpl Concordia c’è la vera trama della svolta politica. Il 10 gennaio 2014 Renzi va a Palazzo Chigi con Delrio. Qui avrebbe fatto la proposta all’allora premier, come racconta l’indomani. Ore 9.11, Renzi risponde al comandante interregionale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, allora indagato per una sospetta fuga di notizie che sarà archiviato su richiesta dello stesso pm Henry John Woodcock. Renzi parla sul suo cellulare, una “utenza intestata – annotano i carabinieri del Noe – alla fondazione Big Bang”. Quel giorno compie 39 anni.
Renzi (R): Signor generale!
Adinolfi (A): Mi dicono fonti solitamente ben informate che ti stai avviando anche tu verso una fase di rottamazione.
R: È la disinformatia del partito…
A: Come stai amico mio? Tanti auguri, tanti auguri e complimenti. Matteo, spero di vederti in qualche occasione.
R: Con molto, molto piacere. La settimana prossima sarà un po’ decisiva perché vediamo se riusciamo a chiudere l’accordo sul governo. E…
A: Rimpastino?
R: Sì, sì. Rimpastino sicuro. Rimpastone, no rimpastino! Il problema è capire anche… se mettere qualcuno dei nostri…
A: È lì il punto! O stare fuori, va bene?
R:No, bisogna star dentro.
A: Oppure stare dentro.
R: Stare dentro però rimpastone.
A: Significa arrivare al 2015.
R: E sai, a questo punto, c’è prima l’Italia, non c’è niente da fare. Mettersi a discutere per buttare all’aria tutto, secondo me alla lunga sarebbe meglio per il Paese perché lui è proprio incapace, il nostro amico. Però…
A: È niente, Matteo, non c’è niente, dai, siamo onesti.
In sostanza Renzi anticipa a un generale, non un suo consulente ma al limite un suo controllore, una strategia che nessuno ha mai svelato: la staffetta (il “rimpastone”) con un risarcimento, il Quirinale nel 2017, per l’inquilino sfrattato da Palazzo Chigi. Proposta rifutata. Due i problemi, spiega Renzi al generale: Letta jr ha 46 anni, dovrebbe aspettarne tre per il compimento dei 50, soglia minima per il Colle, e non si fida. Inoltre “il numero uno” alias Napolitano, giustamente, è contrario.
R: Lui non è capace, non è cattivo, non è proprio capace. E quindi… però l’alternativa è governarlo da fuori…
A: Secondo me il taglio del Presidente della Repubblica.
R: Lui sarebbe perfetto, gliel’ho anche detto ieri.
A: E allora?
R: L’unico problema è che … bisogna aspettare agosto del 2016. Quell’altro non c’arriva, capito? Me l’ha già detto.
A: Sì sì, certo certo.
R: Quell’altro 2015 vuole andar via e … Michele mi sa che bisogna fare quelli che… che la prendono nel culo personalmente… poi vediamo magari mettiamo qualcuno di questi ragazzi dentro nella squadra… a sminestrare un po’ di roba.
A: Sì sì, ho capito.
R: Purtroppo si fa così.
A: Non ci sono alternative, perché quello, il numero uno non molla e quindi che fai?
Renzi conferma che Napolitano è contrario e aggiunge: Berlusconi è favorevole. Il patto del Nazareno c’era già 8 giorni prima di essere siglato. L’incontro Renzi-Berlusconi è del 18 gennaio, ma fu annunciato il 16, cinque giorni dopo la telefonata.
R: E poi il numero uno anche se mollasse… poi il numero uno ce l’ha a morte con Berlusconi per cui… e Berlusconi invece sarebbe più sensibile a fare un ragionamento diverso. Vediamo via, mi sembra complicata la vicenda.
A: Matteo, intanto t’ho mandato una bellissima cravatta.
R: Grazie.
A: (…) Se vuoi il colore lo puoi cambiare, ci sono dei rossi e dei neri, va bene? (ride)
R:No ma va bene, poi io amo il calcio minore per cui va bene.. un abbraccio forte.
A: Che stronzo! Ciao, ciao. Buon compleanno, buona giornata.
Per comprendere l’ultimo passaggio bisogna sapere che Adinolfi è milanista e amico fraterno di Adriano Galliani da trenta anni. Inoltre è amico di Gianni Letta, come dimostrano altre conversazioni depositate nelle quali Letta senior lo sponsorizza mentre Letta jr lo fa fuori dalla corsa a comandante generale. Inoltre è considerato vicino a Berlusconi. Forse per questo Renzi gli parla del leader di Forza Italia quasi come se fosse un amico comune, a differenza di Napolitano. Se questo aiuta a capire perché Renzi, notoriamente viola, accetti una cravatta da un rossonero, non spiega perché il leader della sinistra italiana si faccia chiamare “stronzo” da un amico di Berlusconi, che vuole promuovere a capo della Finanza. Ma questa è un’altra storia.

venerdì 10 luglio 2015

Maugeri, gip Milano sequestra villa in Sardegna e conti correnti di Formigoni.



Sigilli alla casa estiva di Arzachena e ai depositi bancari riconducibili all’ex governatore della Lombardia e al suo amico Alberto Perego. Il sequestro è stato disposto dal giudice Paolo Guidi su richiesta della Procura per un totale di 49 milioni di euro e riguarda anche gli altri imputati del processo. Il gip: "Confermato il sistema tangenti", "Tesoretto" a disposizione dell'ex presidente. 

A poco meno di un mese dall’inizio del processo, il 6 maggio, Roberto Formigoni, comincia a pagare il suo conto con la giustizia. La Procura di Milano ha chiesto e ottenuto il sequestro preventivo dei suoi beni, conti ad eccezione di uno, tre auto, frazioni di alcune proprietà, ma soprattutto quella villa in cima alla collina del Pevero, non lontano da Porto Cervo, sette stanze su tre livelli, patio, verande coperte, terrazzo da cui si contempla Cala di Volpe. Era questa dimora a essere nell’elenco dei benefits ottenuti dall’allora governatore della Lombardia in cambio di delibere di giunta che avrebbero permesso alla Fondazione Maugeri (e anche al San Raffaele) di ottenere un flusso di finanziamenti e rimborsi: “provvedimenti diretti ad erogare consistenti somme di denaro e procurare altri indebiti vantaggi economici alla Fondazione”.
“Confermato il sistema delle tangenti”. Il provvedimento disposto dal gip di Milano Paolo Guidi riguarda anche gli altri imputati: il valore totale del “prezzo della corruzione” è di 49 milioni di euro. Una corruzione, come scrive il giudice nelle 42 pagine del provvedimento, viene confessata da Umberto Maugeri Gianfranco Mozzali, rispettivamente l’allora presidente della Fondazione e consulente: “Hanno confermato in sede di incidente probatorio – scrive il gip – il sistema di tangenti e la connessa ed articolata struttura societaria e contrattuale di supporto in Italia e all’estero…”. Ma non solo il giudice sottolinea come i due abbiano “riferito alla ineluttabilità di effettuare pagamenti di ingenti somme a favore di Daccò e Simone al fine che si aprissero le porte in Regione Lombardia, in un contesto ove la gestione dei finanziamenti nel campo della sanità era sotto il controllo di un tavolo della sanità”.
La villa dell’amico Alberto Perego. Formalmente ad acquistare la villa, nell’ottobre 2011, fu Alberto Perego, amico dell’attuale senatore. Ma anche l’ex presidente paga 1 milione di euro sostenendo sia un prestito. E così questa mattina su richiesta dei pm Laura Pedio, Antonio Pastore e Gaetano Ruta il gip Paolo Guidi ha disposto il sequestro, effettuato dai militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano.
Secondo la tesi dei pm “le utilità a favore del presidente di Regione Lombardia” in cambio della “protezione globale” che garantiva erano davvero tante: 3,7 milioni in yacht, 800 mila euro in vacanze ai Caraibi, e poi spese varie, ristoranti. Invano il Celeste aveva cercato di difendersi sostenendo che si trattava di spese di gruppo, ma mai riuscito a produrre una ricevuta una. Dalle analisi dei conti correnti fatte da chi indaga non risulterebbero, a fronte delle entrate, uscite se non per importi modestissimi. E neanche nessuna restituzione di denaro come lui aveva affermato per l’acquisto di biglietti aerei, per esempio, al faccendiere Pierangelo Daccògià condannato in appello per il crack San Raffaele
“Consegnate anche somme in contanti”. Oltre che a Formigoni nel processo ci sono Daccò appunto, l’ex assessore alla Sanità della Lombardia Antonio Simone, gli ex vertici della fondazione Maugeri, Nicola Maria Sanese dirigente del Pirellone, il direttore generale dell’assessorato alla Sanità Carlo Lucchina e appunto Alberto Perego. Il sequestro dei conto perché, come era riportato nell’avviso di conclusione delle indagini, “somme di denaro contante” sarebbero state “periodicamente consegnate in Milano da Daccò a Formigoni di importo non determinato e, comunque, complessivamente non inferiori a circa euro 270mila”. Il sequestro riguarda gli altri imputati: ovvero Perego, Daccò, Simone e altri per un totale di 49 milioni
“Il tesoretto” a disposizione di Formigoni. Le indagini, scrive il gip, hanno accertato “l’esistenza di una struttura organizzata e permanente, avente il suo fulcro presso la Giunta regionale della Regione Lombardia e in ispecie in Roberto Formigoni, presidente della Giunta dal 1997 al 2011, volta a trasferire indebitamente e con sorprendente continuità, al polo sanitario Fondazione Salvatore Maugeri e all’omologo polo Fondazione San Raffaele ingenti somme di denaro a titolo di finanziamenti regionali tangibilmente maggiori di quanto sarebbe stato permesso dai perimetri e dai limiti della discrezionalità amministrativa e tecnica”. Tutto ciò “secondo un piano preordinato per cui una quota (notevole) di tali somme doveva essere drenata dalle Fondazioni verso società estere e relativi conti correnti riconducibili a due soggetti (Pierangelo Dacco’ e Antonio Simone)” i quali per almeno un decennio “venivano a essere gestori di un ‘tesoretto’(dell’ordine di decine di milioni di euro) che in parte, negli anni, veniva messo a disposizione del presidente Formigoni e del suo entourage“.  
Formigoni: “Non hanno sequestrato 49 milioni perché non li ho”. “I 49 milioni che sarebbero stati sequestrati a me, non li hanno sequestrati perché non li ho”. E su questa cifra, “la stampa, con cui sono solidale, è stata indotta in errore da una comunicazione ambigua degli uffici” della Procura di Milano. Formigoni dice di volere fare chiarezza: “Sono trasparente e voglio una conferenza stampa alla luce del sole”. “Questi 49 milioni come si legge nelle carte devono o dovranno essere sequestrati a una serie di soggetti. Si parla di tale signor Maugeri, tale signora Mazzali, Daccò, Simone… E si dice che 25 milioni sono stati già sequestrati”. “Una calunnia”, insomma. I magistrati, ha poi sostenuto, riconoscono “che Formigoni non ha intascato un euro ed è per questo che devono arrampicarsi sugli specchi e inventare le famose presunte utilità” di cui avrebbe beneficiato, come vacanze, yacht e case di lusso. Il senatore sostiene di avere a sua disposizione il conto da parlamentare con un saldo positivo di “18 euro” e di essere in rosso su un altro dopo aver aperto un fido “anche per pagare gli avvocati”. “Fortunatamente al 20 del mese mi arriva la mensilità di aprile”. 

giovedì 9 luglio 2015

F35, il governo ordina altri quattro aerei. Salgono a 14 i velivoli acquistati dall’Italia. - Enrico Piovesana

F35, il governo ordina altri quattro aerei. Salgono a 14 i velivoli acquistati dall’Italia

Firmato un nuovo contratto da 35 milioni con Lockheed Martin: lo si legge sul sito del Pentagono. L'accordo è relativo all’ordine di un nuovo lotto (il 10°) comprendente 2 aerei convenzionali e 2 in ‘versione portaerei’. La cifra, una caparra di prenotazione, riguarda solo i componenti a lunga consegna, mentre il grosso del pagamento - 150 milioni a velivolo - verrà versato a rate alla conferma d’acquisto (2016) e poi alla consegna. M5S e Sel: "Mancanza di coerenza con gli impegni presi sulla riduzione del budget". Rete Disarmo: "Poca trasparenza".

Lontano dai riflettori e forte della sua maggioranza, il governo Renzi tira dritto sugli F35, sicuro di sbaragliare senza clamori anche le ultime deboli resistenze parlamentari di chi vuole il ridimensionamento o la cancellazione dell’impopolare e costosissimo programma militare.
Solo grazie al sito web del Pentagono veniamo a sapere che la Difesa italiana ha firmato a inizio giugno un nuovo contratto con Lockheed Martin ordinando altri quattro F35 e portando così a 14 il totale dei velivoli acquistati finora dal nostro Paese. Il contratto, da circa 35 milioni di euro, è relativo all’ordine di un nuovo lotto di F35 (il decimo) comprendente quattro aerei: due convenzionali e due in ‘versione portaerei’ a decollo corto e atterraggio verticale. La cifra, una sorta di piccola caparra di prenotazione, riguarda solo i componenti a lunga consegna (Long Lead Items), mentre il grosso del pagamento - 150 milioni di euro ad aereo – verrà versato a rate alla conferma d’acquisto (2016) e poi alla consegna. E’ stato firmato anche un altro contratto datato 30 giugno, da circa mezzo milione di dollari: ennesimo pagamento per lo sviluppo del software di bordo che prosegue, con enormi difficoltà e ritardi, dal 2002.
La Difesa – che entro l’anno acquisterà definitivamente i due F35 del lotto precedente ordinati due anni fa – sta seguendo la tempistica di acquisizione prevista dalla pianificazione contrattuale originaria calcolata sul totale di 90 velivoli: sei aerei nel 2013, due nel 2014, due quest’anno (dovevano essere tre), quattro il prossimo (quelli appena ordinati), cinque all’anno nel triennio 2017-2019 e nove nel 2020. Esattamente i 38 velivoli previsti entro tale data dal Documento Programmatico Pluriennale (Dpp) presentato dalla Difesa a inizio giugno, che infatti conferma il budget complessivo del programma, circa 13 miliardi di euro, stabilito nel 2012 dopo la riduzione da 131 a 90 aerei. Budget che invece,secondo la ‘mozione Scanu’ approvata lo scorso settembre, deve essere dimezzato.
Questo è il motivo per cui nella Commissione Difesa di Montecitorio, chiamata entro fine luglio a esaminare il Dpp del ministro Roberta Pinotti, i deputati delle opposizioni (Sel e M5S) e lo stesso capogruppo Pd, Gian Piero Scanu, chiedono al governo il rispetto degli impegni presi con il parlamento: “Sul programma F35 – ha dichiarato Scanu nella prima seduta sul Dpp – si rileva una mancanza di coerenza tra la programmazione degli acquisti cui il governo intende procedere e gli impegni indirizzati al governo stesso con la mozione approvata dall’Assemblea il 24 settembre scorso con il parere favorevole dello stesso Esecutivo”.
Se il capogruppo Pd in Commissione si dice sicuro che alla fine il governo accetterà il dialogo e farà un passo indietro sugli F35, le opposizioni sono pessimiste e prevedono che anche questa volta la Pinotti tirerà dritto, interpretando a modo suo l’impegno preso con il parlamento, dove in ogni caso nessuno ha i numeri per mettersi di traverso.
Per Luca Frusone, Cinquestelle, “la Pinotti verrà a ripeterci che non c’è nessuna contraddizione con la mozione Scanu giocando sulla debolezza e l’ambiguità di quel testo, non a caso approvato dal governo perché lasciava ampi margini di interpretazione”. Il riferimento è all’assenza di numeri di aerei e cifre finanziarie, alla dicitura “dimezzamento del budget originario” (quello per 90 o per 131 aerei?) e alla postilla “tenuto conto dei ritorni economici” (per Finmeccanica, diversi miliardi, o per l’erario, nulla?).
Secondo Donatela Duranti di Sel, più che le interpretazioni contano i numeri: “Quando in Commissione si arriverà a votare sul Dpp, una eventuale risoluzione contraria congiunta sostenuta da Sel, Cinquestelle, Scanu e pochi altri del Pd come Galli e Bolognesi, verrà semplicemente bocciata dalla schiacciante maggioranza Pd favorevole agli F35. Certo, rimane il significato politico, perché a quel punto verranno scoperte le carte in tavola e gettate tutte le maschere”.
Di fronte alla rassegnazione che sembra prevalere tra i parlamentari, Francesco Vignarca, portavoce di Rete Disarmo e della campagna Taglia le ali alle armi sostiene la necessità di non arrendersi e di continuare a pretendere che il governo rispetti le decisioni del parlamento: “Sugli F35 il Ministero sta andando avanti senza ripensamenti, senza trasparenza e ignorando le mozioni parlamentari che chiedevano una riduzione del budget, riconfermato invece nell’ultimo bilancio della Difesa. Continuiamo a chiedere alla Pinotti un incontro, che finora ci ha negato, per discutere questa grave situazione”.

Accordo sui debiti esteri germanici.


Hermann Josef Abs firma l'accordo sul debito di Londra il 27 febbraio 1953


L'accordo sui debiti esteri germanici, noto anche come accordo sul debito di Londra (in tedesco rispettivamente Abkommen über deutsche Auslandsschulden e Londoner Schuldenabkommen, in inglese Agreement on German External Debts e London Debt Agreement), è stato un trattato di parziale cancellazione del debito firmato a Londra il 27 febbraio 1953 tra la Repubblica Federale di Germania da una parte e Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia dall'altra.

Termini dell'accordo

I negoziati durarono dal 27 febbraio all'8 agosto 1953[1]. Il trattato, ratificato il 24 agosto 1953, impegnava il governo della Repubblica federale di Germania sotto il cancelliere Konrad Adenauer a rimborsare i debiti esterni contratti dal governo tedesco tra il 1919 e il 1945[1] ed era accoppiato al concordato sul rimborso parziale dei debiti di guerra alle tre potenze occidentali occupanti. Furono prese in considerazione le esigenze di 70 Stati, 21 dei quali provenienti direttamente dai partecipanti ai negoziati e firmatari del contratto; i Paesi del blocco orientale non vennero coinvolti e le loro richieste furono ignorate.
In fase di negoziazione, il totale ammontava a 16 miliardi di marchi di debiti degli anni 1920 inadempiuti negli anni 1930, ma che la Germania decise di rimborsare per ristabilire la sua reputazione. Questa somma di denaro venne pagata ai governi e alle banche private di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Altri 16 miliardi di marchi erano rappresentati da prestiti del dopoguerra dagli Stati Uniti. Sotto la negoziazione di Hermann Josef Abs, la delegazione tedesca raggiunse un elevato livello di riduzione del debito: con l'accordo di Londra infatti l'importo da rimborsare fu ridotto del 50% a circa 15 miliardi di marchi e dilazionato in più di 30 anni, il che, rispetto alla rapida crescita dell'economia tedesca, ha avuto un minore impatto[2].

Conseguenze economiche e politiche

L'accordo contribuì in modo significativo alla crescita del secondo dopoguerra dell'economia tedesca e al riemergere della Germania come potenza mondiale economica e permise alla Germania di entrare in istituzioni economiche internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l'Organizzazione Mondiale del Commercio.
L'accordo normava anche i debiti delle riparazioni della seconda guerra mondiale e questi furono messi in correlazione con la riunificazione tedesca (evento che nel 1953 sembrava lontano e non certo). Fu stabilito che i debiti sarebbero stati congelati fino alla riunificazione della Germania. Quando nel 1990 questo evento si verificò i suddetti debiti furono quasi del tutto cancellati, questo per permettere al nuovo stato di gestire una costosa e difficile riunificazione.[3] Del totale rimasero operative solo delle obbligazioni per un valore di 239,4 milioni di marchi tedeschi che furono pagati a rate. Il 3 ottobre 2010 la Germania terminò di rimborsare i debiti imposti dal trattato[4] con il pagamento dell'ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro[5].
Dopo la fine della guerra fredda, tra il 1991 e il 1998 furono firmati degli accordi bilaterali di compensazione - simili a quelli degli anni '60 con i paesi occidentali[6] - con la Polonia, la Russia, l'Ucraina, la Bielorussia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania.