Non è un addio contrito, è un arrivederci con sillabe di guerra. Non è un lasciare il campo, è una ritirata per vedere quali e quante sono per davvero le truppe degli altri, ma presto, di certo dopo gli Stati generali di metà marzo, se la dovranno rivedere con lui. “Sono qui per rassegnare le mie dimissioni da capo politico” scandisce Luigi Di Maio dopo quasi tre quarti d’ora di discorso dentro il Tempio di Adriano, a due passi dalla Camera. Non ha voglia di dirla quella parola, ma alla fine deve formalizzare il passo indietro, con Vito Crimi che da Statuto gli subentra come reggente, in qualità di membro anziano del comitato di garanzia, e subito dice che “Di Maio non sarà più il capo delegazione dei 5Stelle”. Ma non è così, almeno non ancora, perché nella riunione mattutina con i ministri, quella in cui conferma le dimissioni, il 33enne di Pomigliano d’Arco è laconico: “Ne parleremo”.
Cioè sarà tutta da discutere, con i non dimaiani che invocano il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli per quel ruolo. Ma prima c’è la fine di un’esperienza “Oggi si chiude un’era, il Movimento deve rifondarsi” apre Di Maio. E il suo lungo addio è una cascata di accuse ai traditori, ai nemici interni, “quelli che distruggono sempre i partiti”. Il vero motivo dell’addio, fa capire. Ma c’è anche una promessa di rivincita, che ripete più volte: “Io non mollo, il Movimento è la mia famiglia”. In testa ha quello, Di Maio: lasciare qualche settimana il M5S con un reggente. Evitare che gli Stati generali siano un vero congresso, senza una conta di cui non può prevedere gli esiti. E poi riprendersi tutto, contando sull’incapacità di tutti gli altri di costruire un capo o una proposta alternativa. Ma ora lascia, e ci pensava da tempo. “Questo discorso ho cominciato a scriverlo un mese fa”, rivela. Poco dopo aver visto a Roma Beppe Grillo, che cita con due mezze frasi, per assolvere il compito. Neanche un’ombra di autocritica, ma tanta rabbia. “La prima stesura del discorso era ancora più dura” sussurrano mentre dal palco Di Maio comincia a disseminare quel verbo, “fidarsi”, ed è come inveire contro i traditori. “Io mi fido di noi, di voi e di chi verrà dopo di me” giura. Attorno a lui anche i facilitatori di vario ordine e grado, i volti della nuova struttura. “Ci ho lavorato un anno, adesso ho esaurito il mio compito” scandisce. Ora sarà la transizione verso la tre giorni di marzo, dove però non si voterà un nuovo capo politico o un nuovo assetto. “Agli Stati generali discuteremo sul cosa, subito dopo passeremo al chi”. Cioè a un nuovo capo, o a un organo collegiale. Nell’attesa, vuole regolare i conti. “Alcuni di noi si sono prestati al gioco del tutti contro tutti, il rumore di pochi ha coperto il lavoro di moltissimi” è la prima di tante accuse, celebrate con grandi applausi dalla sua platea.
E fa l’elenco dei nemici. “C’è chi è stato nelle retrovie e, senza prendersi responsabilità è uscito allo scoperto solo per pugnalare alle spalle” ringhia, e in diversi in sala soffiano il nome di Alessandro Di Battista. Poi ne ha per l’ex ministro Lorenzo Fioramonti e altri esuli grillini: “Te ne vai dal Movimento e poi continui a votare la fiducia dal Misto? Non è politica: è psichiatria”. Ma ci sono fendenti anche per l’espulso Gianluigi Paragone: “Ho trovato assurdo l’attacco ai probiviri, noi chiediamo il rispetto delle regole”. E ce l’ha sempre con il senatore ma anche con molti altri, quando difende la piattaforma web: “Sei stato eletto in Parlamento con Rousseau e poi la metti in discussione?”. Il ministro ha parole di miele per i Casaleggio, per Gianroberto e il figlio Davide, “un fratello maggiore”. Ed è ufficialmente gentile con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.“Su alcune cose non siamo stati sempre d’accordo - ammette - ma devo riconoscergli una capacità politica e un’onestà intellettuale rara. Sono orgoglioso della scelta che abbiamo fatto”.
E pare un modo per ricordare che a Palazzo Chigi ce l’hanno portato loro, i 5Stelle. D’altronde la rotta politica di Di Maio è diversa da quella di Grillo e Conte. E il ministro lo sottolinea, parla dell’esigenza di un approccio “post ideologico” su molti temi, a partire dall’immigrazione. Insomma, niente confluenza nel centro - sinistra. E il suo futuro? “Vedremo, non è detto che arriverà un nuovo capo politico” temporeggiano i suoi. Ma non è affatto escluso. E in qualunque forma, lui vorrà esserci. Pronto a tornare quello che sente di essere, il capo.