venerdì 3 settembre 2021

Auto elettriche, così la Cina prepara l’invasione dell’Europa. - Alberto Annicchiarico

 

I nuovi produttori della Repubblica popolare si sono ricostruiti una reputazione in fatto di affidabilità. E ora vogliono sfidare Tesla e i colossi occidentali e coreani.

Dopo la fase di lancio della produzione e la conquista della piena autonomia sul fronte delle tecnologie e della qualità costruttiva, la Cina ci sta pensando seriamente: andare alla conquista del mercato europeo dell’auto. Il processo è stato lungo, ma i piani sono chiari: si parte dalla Norvegia e soprattutto dalla Germania. Nulla accade per caso, quando si parla del Dragone. Si pensi alle 18 case automobilistiche cinesi che si sono installate in Europa dal 2015 con dei centri R&D per studiare il mercato, le regole e le innovazioni anche sul versante dell’alimentazione dei veicoli.

Poi ci sono i 7 miliardi di euro investiti in impianti dai principali player delle batterie per auto elettriche, da Catl (proprio in Germania), la numero uno nota per fornire Tesla ma che ha accordi con quasi tutti i costruttori, a Envision Aesc in Francia (partnership con Renault per una nuova gigafactory da 2 miliardi di euro a Douai) e nel Regno Unito, dove pianifica con Nissan, alleata di Renault, un impianto da 6 GWh..

E se dopo il primo tentativo andato a vuoto tra il 2003 e il 2009 con Landwind e Brilliance, che rimediarono una pessima figura nei crash test lasciando nei consumatori europei la certezza che mai avrebbero comprato cinese, i nuovi produttori della Repubblica popolare si sono ricostruiti una reputazione in fatto di affidabilità. È il caso del più recente modello della sino-svedese Polestar 2, realizzata a Luqiao in Cina, costruita sulla piattaforma CMA, la stessa della Volvo XC40 dalla joint venture tra Volvo e Geely: ha meritato le cinque stelle nel crash test dell’ADAC (Allgemeiner Deutscher Automobil-Club), il club automobilistico tedesco che è anche il più grande del mondo. Polestar, nata con l’ambizione di essere una anti-Tesla, è presente in Germania dal 2020.

Il mercato più importante.

La nuova affidabilità fa parte del piano della leadership politica cinese per rendere il Paese uno dei principali esportatori di veicoli elettrici. È quanto emerge da un nuovo studio del think tank Merics, di Berlino, che della Cina ha fatto la sua specializzazione.

«L’Europa è il mercato più importante per gli esportatori cinesi di auto elettriche», afferma l’autore dello studio, Gregor Sebastian. Il fatto che produttori come Geely, primo costruttore privato cinese, con Polestar, ma anche Great Wall Motors, si presentino al Salone dell’auto (IIA Mobility) di Monaco di Baviera la prossima settimana, mostra chiaramente le loro ambizioni sul mercato tedesco. Del resto un’auto elettrica su due nel mondo arriva dalla Cina. Secondo i dati dell’associazione cinese dei produttori automobilistici CAAM, nella prima metà del 2021 è uscito dalle catene di montaggio un milione di modelli elettrici, il doppio rispetto al 2019. LMC Automotive stima che il numero dovrebbe salire a otto milioni all’anno entro il 2028. Finora, tuttavia, la maggior parte di queste auto è stata venduta nella stessa Cina, un mercato che offre la più ampia domanda del mondo, con 25 milioni di unità previste nel 2021.

Fino a poco tempo fa, le case automobilistiche del Dragone avevano pochi incentivi economici a spingersi nei mercati esteri poiché le vendite nazionali in aumento le hanno sostenute, triplicate in otto anni tra il 2008 e il 2016. Entro il 2025 le auto cosiddette NEV (New energy vehicles) in Cina dovrebbero essere già il 20% del venduto salendo quasi a 5 milioni.

Poi però è arrivata una spinta all’esportazione da parte delle case automobilistiche straniere che producono in Cina (dal 2015 al 2019), che ha visto GM esportare Buick negli Stati Uniti. L’effetto positivo è svanito quando l’amministrazione Trump ha imposto tariffe sulle auto prodotte in Cina. Nel complesso, le esportazioni automobilistiche cinesi sono rimaste contenute, sia in termini relativi che assoluti. Ma una combinazione di progressi tecnologici e cambiamenti strutturali nell’industria automobilistica globale - dall’elettrificazione ai servizi digitali, fino ai primi passi verso la guida autonoma - ha creato una finestra di opportunità per l’espansione globale del made in China. E la politica cinese si è convinta che sia arrivato il momento giusto per conquistare altri mercati.

Gli obiettivi di Pechino sull’export straniero.

Ma invece di creare campioni nazionali, il governo sta ora perseguendo l’obiettivo di «rafforzare catene del valore globali», si legge nello studio. A lungo termine, tuttavia, la leadership cinese probabilmente non tollererà le elevate quote di mercato dei produttori esteri sul mercato interno e nelle esportazioni, anche se per molte case - da Vw a Bmw a Daimler fino ai coreani di Kia e a Gm e prossimamente anche Ford con Changan - ormai la Cina è un hub produttivo imprescindibile. Recentemente oltre il 90% delle esportazioni di auto elettriche dalla Cina è stato effettuato da Tesla, che produce anche per il mercato mondiale nella sua gigafactory a Shanghai.

Chi vincerà? Dei 90 produttori locali di auto elettriche solo quelli che raggiungono una certa dimensione e quindi realizzano economie di scala potranno sopravvivere al consolidamento. I meglio posizionati sono BYD (l’investitore Warren Buffett ne detiene l’8%), Geely, SAIC (il più grande costruttore cinese, che ha partnership storiche con GM e Volkswagen) e le startup rampanti, quotate a Wall Street, Nio e Xpeng, già approdate da qualche mese in Norvegia.

«L’Europa - spiega Sebastian - è particolarmente promettente per i produttori cinesi. Di solito scelgono la Norvegia per entrare nel mercato, perché è lì che l’infrastruttura di ricarica è meglio sviluppata. Ma recentemente il 9% delle esportazioni cinesi di auto elettriche è andato in Germania». «La Norvegia è solo l’inizio», ha avvisato William Li, ceo di Nio, parlando con la stampa tedesca. L’azienda si sta preparando per l’ingresso in Europa «e la Germania è estremamente interessante per noi», ha affermato Li. Le prime Nio dovrebbero arrivare in Germania nel 2022. Ma anche Geely è pronta per la sua nuova Zeekr 001.

Le quattro strategie (e gli aiuti di Stato).

Lo studio Merics ha identificato quattro strategie utilizzate dai produttori cinesi per conquistare i mercati europei: esportazioni pure dalla produzione cinese, esportazioni più centro di sviluppo o design sul mercato di riferimento, produzione sul mercato di riferimento e acquisizione di un produttore locale. Nio si affida alla strategia “Export plus”. La start-up con sede a Shanghai ha aperto il suo centro di design a Monaco di Baviera nel 2015, allora ancora con il nome NextEV, e ha reclutato esperti anche da Bmw. Entro la fine del 2022, il suo sistema di ricarica e sostituzione della batteria dovrebbe essere disponibile in Norvegia. BAIC, Chery, FAW, Geely e Great Wall Motor hanno anche centri di design o innovazione in Germania. Un precedente negativo c’è: le filiale tedesca di Byton ha presentato istanza di fallimento ad aprile.

Geely ha preso piede nel mercato europeo da quando ha rilevato Volvo nel 2010. Nel 2017, il fondatore di Geely, Li Shufu, ha acquistato il 9,7% di Daimler, diventando così il maggiore azionista unico di Stoccarda. «La corsa allo shopping globale di Geely è stata sostenuta dal governo cinese», scrive l’autore dello studio. E non è l’unico caso. I governi locali, anche attraverso dei fondi, e le banche di stato sono stati generosi, negli ultimi quattro anni, anche con marchi come Nio e Xpeng, che hanno ricevuto miliardi di dollari per poter investire e accelerare il processo di crescita. Un chiaro vantaggio competitivo sulle avversarie europee.

L’esempio italiano di produzione in Europa è il colosso automobilistico cinese FAW Group, che sta creando un produttore di veicoli elettrici di lusso a Reggio Emilia, Silk-FAW. La joint venture riunisce la FAW (statale) e la società italiana di ingegneria e design Silk EV. L’obiettivo è produrre un’auto da corsa elettrica sotto il marchio Hongqi, il cui nome si traduce con “Bandiera rossa”, ispirata alla tradizione politica del Paese d’origine. La JV prevede di investire più di 1 miliardo di euro in tre anni. La produzione dovrebbe iniziare nel 2023. La stessa FAW non è riuscita ad applicare la quarta strategia, quella dell’acquisizione: Iveco è rimasta italiana dopo l’intervento del governo di Roma a metà aprile. SAIC invece potrebbe espandere le sue esportazioni di veicoli elettrici sfruttando il marchio britannico MG, acquisito nel 2007.

I possibili ostacoli.

Non mancano le ragioni, secondo lo studio, per cui i piani cinesi potrebbero trovare ostacoli sul loro cammino. Primo, la mancanza di esperienza internazionale: la maggior parte delle case automobilistiche cinesi non dispone di una rete di vendita e assistenza post-vendita all’estero. Secondo, le misure difensive dei governi europei, inclusi nuove regole e dazi (attualmente al 10%). Terzo, normative sulla gestione dei dati che potrebbero rivelarsi ostici per i produttori di veicoli elettrici cinesi. Quarto, la concorrenza dei grandi produttori europei, dato che il vantaggio del first mover sta svanendo con la rapida corsa all’elettrificazione del gruppo Volkswagen, dei produttori premium Daimler e Bmw, ma anche di Stellantis (che investirà 30 miliardi entro il 2025 nei suoi 14 marchi) e in misura forse minore di Renault, la più debole a giudicare dai dati del primo semestre.

I posti di lavoro in Europa.

La Commissione europea considera il settore automobilistico «cruciale per la prosperità dell’Europa». Tuttavia, le esportazioni automobilistiche cinesi potrebbero spostare gli equilibri e minacciare il cuore industriale dell’Europa. La produzione di veicoli a motore impiega 3,5 milioni di persone nell’Ue, che sono le più direttamente minacciate, secondo lo studio Merics. Per ora, le classifiche di vendita di veicoli elettrici in Europa sono dominate dalle case europee e da Tesla. «Tuttavia - è la conclusione - le esportazioni cinesi di veicoli elettrici spinte da sovvenzioni sono in aumento a livello globale, quindi il settore automobilistico europeo orientato all’esportazione potrebbe incontrare problemi».

Illustrazione di Andrea Marson

Il Sole 24 Ore

L'affondo di Draghi, terza dose e obbligo vaccinale. - Paolo Cappelleri

 

'Orientamento del governo è estendere il green pass. Il governo va avanti'. Dai no vax violenza odiosa. Green pass sta andando bene'. 'A fine settembre saremo a 80%. Ribadisco l'invito a immunizzarsi'.


Per il vaccino contro il Covid scatterà l'obbligo, quando verrà dichiarato da Ema e Aifa non più farmaco emergenziale ma ordinario, e si va anche verso l'introduzione della terza dose. Con due secchi "sì", il premier Mario Draghi ha risposto sul tema, delineando questo scenario e anticipando poi l'estensione del Green pass, alla luce di una campagna vaccinale che è al 69% e, da programma, punta a coprire l'80% della popolazione entro la fine di settembre.

O addirittura l'85%, come si sono sbilanciati i ministri al suo fianco a Palazzo Chigi, alla vigilia del monitoraggio che oggi dovrebbe confermare l'Italia tutta in zona bianca ad eccezione della Sicilia, gialla

"Senza mezzi termini è stata anche la condanna del presidente del Consiglio della "violenza particolarmente odiosa e vigliacca" dei no vax contro "chi fa informazione e chi è in prima linea a combattere la pandemia".

Parole accompagnate dall'ormai consueto invito a farsi iniettare il vaccino contro un virus che ha causato la morte di altre 62 persone nelle ultime 24 ore in Italia, con 6.761 contagiati. A fine settembre si partirà con la terza dose per i soggetti fragili, ha annunciato il ministro della Salute, Roberto Speranza. Per ora la quota di chi ha ricevuto la prima dose è poco sopra il 60% in alcune aree come Bolzano (record negativo al 61%), la Sicilia (63%) e nella fascia 30-39 anni non si raggiunge il 70%, tuttavia Draghi e la sua squadra puntano su due dati positivi: il 91,5% del personale scolastico immunizzato e la forte adesione alla campagna dei giovani sotto 30 anni.

Questo, ha detto il premier, "ci permette di affrontare con una certa tranquillità e minore incertezza dell'anno scorso l'apertura delle scuole. La scuola in presenza è sempre stata una priorità". "E si potrà tornare a sorridere", ha aggiunto il ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, confermando che nelle classi in cui tutti sono vaccinati si potrà evitare la mascherina. Una scelta che, però, secondo la leader di FdI Giorgia Meloni "è priva di giustificazione scientifica, visto che i vaccinati possono contagiare ed essere contagiati". Per ora docenti e personale scolastico, così come i viaggiatori delle tratte a lungo raggio, sono vincolati al Green pass, che vale 12 mesi e si potrà ottenere anche con test salivari, grazie a un emendamento approvato dalla Commissione affari sociali della Camera. In futuro riguarderà anche altri settori. "L'applicazione del green pass mi pare stia andando bene.

Sui trasporti ci saranno sempre dei casi di foto di mezzi pieni, ma in generale la preparazione è stata ben fatta", ha notato Draghi, chiarendo che con Speranza "da tempo" sta "discutendo" e "l'orientamento" è quello di "estendere" l'uso del certificato vaccinale: "Per decidere quali settori dovranno averlo prima eventualmente faremo una cabina di regia come è stato chiesto dal senatore Salvini ma la direzione è quella". Si potrebbe cominciare dagli esercenti di ristoranti, bar e mense, e il tema è caldo per i dipendenti della Pubblica amministrazione. Mentre fragili, malati cronici e anziani potrebbero essere fra le prime categorie interessate dall'obbligo (quando sarà possibile applicarlo in modo esteso), che per ora è fissato per legge solo per gli operatori sanitari. Intanto Draghi ha precisato che la vaccinazione per il Covid è prevista anche per "tutti i migranti". In Italia sono arrivate finora oltre 88 milioni di dosi, e le Regioni ne hanno ora a disposizione 10 milioni. Intanto laddove si vaccina meno cresce la percentuale di posti letto di terapia intensiva occupati da pazienti Covid. In Sicilia è al 14%, a fronte di una media nazionale stabile al 6% (555 ricoverati, 15 in più nelle ultime 24 ore). In Sardegna è all'11%, sopra la soglia critica ma in calo da un paio di giorni: dopo il monitoraggio di domani dell'Istituto superiore di sanità l'isola dovrebbe evitare di finire in zona gialla. In base ai tassi di contagio, invece, nell'aggiornamento settimanale della mappa del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) finisce in rosso il Lazio (oltre il 4% con Basilicata, Calabria, Marche, Sardegna, Sicilia e Toscana) mentre la Campania torna in giallo.

ANSA

giovedì 2 settembre 2021

“Non solo stalking: addio arresti anche per spaccio e frodi”. - Marco Pasciuti

 

Fabio Roia. Il giudice sui referendum.

“Non riesco a capire come un problema così macroscopico possa essere sfuggito”. Fabio Roia è presidente vicario del Tribunale di Milano, dove è a capo della sezione Misure di prevenzione. Il problema è che Il quinto quesito del referendum sulla giustizia proposto da Lega e Radicali prevede di abolire le misure cautelari, nonostante il pericolo di reiterazione del reato, nei confronti di persone sospettate di aver compiuto reati che non prevedono la violenza fisica con l’uso di armi o simili. Telefono Rosa e il ministro Mara Carfagna, che è stata promotrice e sua prima firmataria nel 2009, dicono che depotenzia la legge sullo stalking.

“Premetto: – dice Roia, esperto di reati di genere e Consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio – se c’è una volontà referendaria che va in questo senso, i magistrati la rispetteranno. Ma credo sia doveroso avvertire delle conseguenze”.

I promotori dicono di voler limitare gli abusi nell’applicazione della custodia cautelare.

Se il quesito dovesse passare, la si potrebbe disporre qualora vi sia un pericolo di violenza alla persona messa in atto o con armi o con mezzi violenti. Quindi c’è un richiamo solo alla violenza fisica. Ma lo stalking non è basato su quest’ultima. Tanto per restare ai reati di genere, resterebbero fuori tutte le attività, forse la maggior parte, che riguardano la violenza psicologica o morale, tipo le minacce o le molestie che sono una delle caratteristiche fondanti del reato, nonché dei maltrattamenti di familiari e conviventi, nonché le violenze sessuali commesse approfittando dell’incoscienza della persona.

Quando si dà alcol o droga a una ragazzae si abusa di lei.

È un reato in cui se non ci sono le altre due condizioni – il pericolo di fuga o quello di inquinamento delle prove – le misure restrittive non possono essere più applicate. L’onorevole Carfagna ha fatto bene a puntare l’attenzione sullo stalking, ma non è il solo caso. Le parlo di quello che vediamo tutti i giorni nelle aule di giustizia. Il quesito toglie una delle condizioni più frequenti per l’applicazione di misure limitative della libertà, che non sono solo la custodia in carcere ma anche gli arresti domiciliari. Ma questo ciò per tutta una serie di reati che non comprendono un’aggressione fisica o l’uso di mezzi violenti, ma che sono comunque gravi.

Qualche esempio.

Nel caso dello spacciatore, piccolo o grande, non c’è un rischio di inquinamento probatorio o di fuga. Ciò che mi porta ad applicare una misura – i domiciliari per il primo e il carcere per il secondo – è proprio la reiterazione del reato. Che già oggi la legge mi impone di motivare. Una legge che verrebbe spazzata via dal referendum.

È un tipo di reato con cui la gente è a contatto perché magari cel’ha sul marciapiede sotto casa.

Certo, la custodia serve proprio a impedire che si continui a spacciare e lo spaccio non si realizza attraverso atti violenti contro la persona. Un altro esempio è il furto in abitazione. Se passasse il referendum non potrebbe essere applicata nessuna misura cautelare perché non c’è un pericolo di reiterazione del reato basato sulla violenza, in quanto 9 volte su 10 il furto avviene in assenza dei proprietari. E in questo caso non sussistono i pericoli di fuga né di inquinamento delle prove. E poi arriviamo ai reati di frode fiscale o alle gravi bancarotte fraudolente.

Anche quelli?

Se non c’è un rischio di inquinamento o di fuga, ma solo di reiterazione– abbiamo a che fare con soggetti che hanno sviluppato una professionalità nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti o la costruzione di frodi a carosello – io non posso più dare alcun tipo di misura cautelare.

Sembra di capire che la modifica ricadrebbe sulla sicurezza dei cittadini.

L’effetto del quesito sarebbe devastante per la sicurezza pubblica perché finirebbe per depotenziare moltissimo gli strumenti di controllo. E non vorrei che tutto ciò finisse per essere scaricato sui magistrati.

In che senso?

Le misure cautelari vengono sempre date con estrema prudenza. Nel caso dell’omicidio di Vanessa (26 anni, uccisa ad Aci Trezza la notte del 23 agosto, ndr) una delle accuse che vengono mosse al giudice è di non aver dato all’assassino alcuna misura gravosa. Ecco, noi già oggi nel caso di un piccolo spacciatore non possiamo applicare alcuna misura efficace sul piano del contenimento perché magari costui non ha una casa e, invece del carcere, dobbiamo dargli l’obbligo di firma. Se passasse il quesito non potrei fare neanche più questo. E ciò sarebbe frustrante per le forze di polizia, che arrestano una persona, la portano di fronte al giudice e quello la scarcera. Non voglio fare una difesa della categoria, ma è bene che ognuno si assuma le sue responsabilità. Anche perché dell’aspettativa di sicurezza uno dei promotori di questo referendum ha fatto una battaglia politica.

A proposito, Giulia Bongiorno, che firmò la legge del 2009, ora difende il quesito che la depotenzia. Dice che per applicare le misure basterà che il giudice ravvisi nello stalker una “personalità proclive alla violenza”.

Come al solito ci viene chiesto di fare una forzatura interpretativa. Dovrei dire che chi molesta o fa appostamenti a una ragazza è incline alla violenza fisica. Dovrei, cioè, fare un’interpretazione fantasiosa. La strada indicata dall’onorevole Bongiorno, che pure io stimo per le battaglie fatte in favore delle donne, non mi sembra molto corretta. La custodia cautelare è un’extrema ratio, ma dove ci sono le condizioni deve essere applicata. Altrimenti poi altrimenti piangiamo un sacco di donne ammazzate.

ILFQ

mercoledì 1 settembre 2021

Gian Carlo Caselli - “Limitare le misure cautelari? Nelle corde dei radicali, meno del carroccio”. - Gianni Barbacetto

Gian Carlo Caselli - “Limitare le misure cautelari? Nelle corde dei radicali, meno del carroccio”.

Gian Carlo Caselli, già procuratore della Repubblica a Torino e a Palermo, prevede un effetto boomerang, a proposito dei referendum radicali e leghisti sulla giustizia: “Possibili effetti negativi per l’amministrazione della giustizia e per l’interesse generale, ma anche un boomerang per i promotori”.

Dottor Caselli, si riferisce al quesito sulla custodia cautelare?

Non solo a quello. Il quinto quesito prevede che i potenziali autori seriali di gravi reati, se questi non sono commessi con armi o con violenza, non possano più essere assoggettati a misure cautelari in base – come avviene ora – alla previsione della possibile ripetizione dei reati. Si possono riscrivere le norme sulla custodia cautelare riducendone gli spazi: è un’operazione nelle corde dei radicali, assai meno della Lega. Se passa il referendum, ci saranno casi delicati e complessi, in cui sarebbe utile se non necessario ricorrere alla custodia cautelare, che non potrà invece scattare, in forza della nuova normativa. L’opinione pubblica, la piazza, rifiuteranno questa situazione, si genererà sconcerto, ci saranno proteste sul funzionamento della giustizia, che sarà accusata di lassismo. Gli effetti, per la magistratura, già in profondissima crisi dopo lo scandalo Palamara, saranno devastanti. Ancora una volta si darà la colpa di tutto ai giudici. Un boomerang per la giustizia. Ma anche per la Lega che è tra i promotori del referendum e che ha sempre chiesto massima severità per chi compie certi reati, come lo stalking.

In difesa del referendum è intervenuta anche Giulia Bongiorno, in passato sostenitrice di misure dure per chi compie reati contro le donne.

Proprio sul Fatto, la senatrice ha sostenuto che questo referendum vuole evitare gli abusi, ma non riduce le tutele, perché “per applicare le misure cautelari sarà sufficiente che il giudice ravvisi nella condotta dello stalker elementi sintomatici di una personalità incline al compimento di atti di violenza” e il giudice dovrebbe cercare “i sintomi” di una possibile violenza futura. È una forzatura della legge che genera un cortocircuito. La prognosi astratta di futura effettiva violenza è, se non impossibile, almeno molto difficile, opinabile, sicura rampa di lancio di incertezze, discussioni interminabili e polemiche feroci.

Strana alleanza, quella tra i Radicali e la Lega?

Ognuno in politica si allea con chi vuole, ma in questo caso tra i due ci sono enormi differenze. L’area radicale comprende l’associazione “Nessuno tocchi Caino” e ha una filosofia opposta a quella della Lega incentrata sul classico “legge e ordine”. Due mondi così diversi, al punto da far temere un’alleanza strumentale: in un momento difficile per la magistratura, sull’orlo del baratro per una crisi terribile, questo per qualcuno potrebbe sembrare il momento giusto per sferrare l’attacco finale, per fare i conti definitivi con i giudici. Ma vorrei segnalare, a questo proposito, un quesito referendario ancor più pericoloso.

Quello sulla separazione delle carriere?

Sì. Si basa sull’affermazione che i giudici sono appiattiti sul pm, dunque bisogna separarli. È una prospettazione sostanzialmente falsa. In tutti i Paesi in cui la separazione c’è, la conseguenza è sempre una sola: il pm prende ordini o direttive dal potere esecutivo. Fine dell’indipendenza della magistratura, fine della speranza che la legge possa essere uguale per tutti. Così torneremmo indietro rispetto a una situazione che in molti Paesi europei viene invidiata: in un articolo di Le Monde del giugno 2020, autorevoli rappresentanti della magistratura francese indicavano di fatto la situazione italiana come traguardo da raggiungere, per liberare i magistrati d’accusa francesi dal peso di dover analizzare gli affari “sensibili” in base ai possibili interventi del potere. E noi invece in Italia vogliamo fare il contrario.

ILFQ

Stagionali, ecco i veri numeri del boom. Il Reddito e la bufala “divanisti”. - Roberto Rotunno

 

Le cifre Inps dal 2019 - La misura anti-povertà non ha mai frenato le assunzioni, che sono sempre aumentate.

Se davvero – come raccontano mezzo arco parlamentare e certa stampa interessata – il Reddito di cittadinanza ha reso introvabili i lavoratori stagionali, allora le imprese italiane devono spiegare come è possibile che, dopo l’entrata in vigore del sussidio, le assunzioni siano aumentate e di tanto. Questo dicono i dati: nei mesi successivi all’introduzione della misura anti-povertà – vale a dire aprile 2019 – i contratti di lavoro stagionale sottoscritti sono sistematicamente aumentati, almeno fino a quando le chiusure dovute alla pandemia non hanno giocoforza comportato un crollo che comunque, alla lunga, è stato meno drastico di come si potrebbe percepire dalle urla di dolore emanate a reti unificate. Tanto che, giusto per citarne una, i rapporti avviati in tutto il 2020 sono stati 656 mila, praticamente lo stesso numero registrato nel 2018, penultimo anno di “normalità”.

Insomma, dai report Inps emerge chiaramente che nelle ultime tre estati, pur con molte famiglie sostenute dal Rdc, le aziende turistiche hanno continuato a beneficiare di un vasto esercito di addetti. Con buona pace di Matteo Renzi, Matteo Salvini, Vincenzo De Luca, di ristoratori, albergatori e titolari di stabilimenti balneari che continuano a ottenere grande spazio sui media per portare avanti una narrazione accettata per fede dal centrodestra e parte dell’opinione pubblica, sebbene smentita dalle statistiche. Un dibattito così delicato, come quello che alcuni partiti di maggioranza stanno cercando con forza di inserire nell’agenda del governo al fine di abolire lo strumento o quantomeno colpirlo duramente, non può prescindere dai numeri. Partiamo quindi, come detto, da aprile 2019, quando le prime 564 mila famiglie hanno ricevuto la carta acquisti associata al Reddito di cittadinanza. Nello stesso mese, le assunzioni di lavoratori stagionali hanno visto un incremento molto robusto: 114 mila contro le 76 mila dell’anno prima. Si tratta di un mese dell’anno in cui i datori compiono la prima infornata per preparare la stagione estiva e, nonostante nel 2019 sia coinciso con l’arrivo dell’aiuto statale, si è riusciti persino ad aumentare di molto gli arruolamenti. Questa crescita di assunzioni è proseguita per quasi tutti i successivi mesi dell’anno, tanto che il 2019 ha chiuso con un totale di 733 mila contratti a fronte dei 661 mila del 2018. Se per il confronto ci limitiamo a considerare solo il periodo tra aprile e dicembre, quindi solo quello con il Reddito di cittadinanza già operativo, abbiamo 637 mila contratti nel 2019 e 558 mila nel 2018. Conclusione: nei primi nove mesi di Rdc i rapporti stagionali sono saliti di circa il 13%.

Parliamo dell’ultimo anno prima della pandemia. Quando, a fine febbraio del 2020, l’Italia ha iniziato a fare i conti con il Covid, la situazione è inevitabilmente cambiata. Tra marzo, aprile e una parte di maggio il Paese si è fermato, in particolar modo il comparto turistico. A giugno ha dovuto riaprire in fretta e le assunzioni sono tornate a volare: 166 mila, quasi perfettamente in linea con il dato nel 2019. Ma è soprattutto a luglio che le imprese hanno recuperato gli ingressi non effettuati durante la primavera, tanto che in quel mese l’Inps ne segna 178 mila contro i 97 mila di luglio 2018. E ancora ad agosto con 72 mila avviamenti, quasi il doppio dei 43 mila del 2019. Alla fine, il 2020 ha chiuso con 656 mila assunzioni, a spanne l’11% in meno del 2019. Si tratta di una contrazione ampiamente giustificata dai mesi di lockdown. Con le riaperture, invece, non c’è stato alcun effetto divano, pur denunciato dalle imprese come conseguenza non solo del Reddito di cittadinanza, ma anche della mole di interventi pubblici approvati per far fronte all’emergenza (bonus da 600 euro e Reddito di emergenza, per fare due esempi). Semmai ci sono state difficoltà di reperimento, andrebbero imputate all’effetto “collo di bottiglia” creato dalle misure pandemiche. Cioè al fatto che, come mostrano chiaramente i dati, le aziende hanno concentrato in soli due mesi le assunzioni che di solito spalmano in un periodo più lungo e questo ha reso un po’ meno agevole trovare i candidati. Molti disoccupati, tra l’altro, si erano già verosimilmente reinventati in altri settori, per esempio nella logistica, per sopperire alla mancata assunzione. Questo a voler tacere su tutti gli altri fattori che hanno reso strutturalmente meno attrattivo il lavoro nel turismo: le basse paghe, le condizioni indecenti spesso offerte, i sussidi molto deboli nei mesi di inattività forzata.

Arriviamo infine al 2021. Anche qui, le chiusure natalizie e pasquali hanno ridotto le assunzioni stagionali, che fino ad aprile sono cresciute rispetto al 2020 ma tenendosi sempre ben lontane dai periodi pre-pandemici. Già con i primi allentamenti delle restrizioni, i contratti hanno vissuto un boom: a maggio sono stati oltre 142 mila, un record rispetto a tutti gli anni precedenti presenti in archivio. Tra alcune settimane l’Inps pubblicherà quelli di giugno e potremo vedere quanto sia stato robusto il recupero. Ma, intanto, anche l’esplosione di maggio dimostra che si è di nuovo creato un collo di bottiglia.

Chi prende il Reddito di cittadinanza si offre spesso nelle attività stagionali, tanto che l’ultima rilevazione Anpal (di ottobre 2020, poi non sono più state aggiornate dal ministero, non si sa perché) diceva che – dei 350 mila percettori che avevano trovato un impiego – 48 mila hanno operato nella ristorazione e 44 mila nell’agricoltura. Il fatto che il Reddito disincentivi il lavoro è smentito da ogni dato ufficiale. A dirla tutta, per capirlo basterebbe la semplice logica: come si può rifiutare uno stipendio da 1.200 euro in cambio di un sostegno statale che vale in media 548 euro per l’intera famiglia? Questo è quanto “intascano” i nuclei beneficiari: si va dalla media di 447 euro per i single ai 700 euro per le famiglie con quattro bocche da sfamare. Come queste cifre possano indurre la gente a rifiutare una regolare retribuzione da lavoro (che tra l’altro può garantire una pensione futura) resterà un mistero e, prima o poi, gli imprenditori che hanno approfittato dell’eco concessa dai giornali per instillare questo racconto dovranno dare spiegazioni. A meno che non vogliano spiegarlo i vari Renzi, Salvini e De Luca, dato che in tutti questi mesi si sono fatti imperterriti portavoce di quelle stesse imprese.

ILFQ

Lombardia Film Commission, le motivazioni delle condanne ai due contabili della Lega: “Usarono il loro ruolo politico per arricchirsi”.

 

Il capannone di Cormano acquistato da Lombardia Film Commission, scrive il gup di Milano Guido Salvini, "rischiava di rimanere invenduto e di deteriorarsi e solo la decisione degli imputati di acquistarlo" gli ha attribuito il valore gonfiato di 800mila euro. Soldi che poi furono spartiti tra Di Rubba e Manzoni (condannati rispettivamente a 5 anni e 4 anni e 4 mesi per peculato), il venditore Michele Scillieri e l'imprenditore Francesco Baracchetti

Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, revisori contabili della Lega in Parlamento, hanno usato “la loro attività di origine politica” per “ottenere arricchimenti personali”, mettendo in pratica un “modello davvero deteriore”. Sono le dure valutazioni espresse dal gup di Milano Guido Salvini nelle motivazioni della sentenza con cui il 3 giugno scorso ha condannato Di Rubba a 5 anni di reclusione e Manzoni a 4 anni e 4 mesi per il caso del capannone di Cormano, nel Milanese, acquistato dalla Lombardia Film Commission in una compravendita con cui sarebbero stati drenati 800mila euro di fondi pubblici. Per il giudice – si legge nelle oltre 100 pagine del provvedimento – non si è trattato “di un peculato piccolo piccolo, come quello dell’impiegato comunale o del dipendente delle Poste che si appropria di beni”, bensì di un “piano costruito nel tempo“, già dal 2017, “che si è avvalso, per la sua realizzazione, delle competenze di Di Rubba (che all’epoca era presidente di Lfc, ndr) e Manzoni, inseriti ad alto livello in enti pubblici”, e di quelle di Michele Scillieri, commercialista esperto e di successo”, che ha patteggiato 3 anni e 4 mesi lo scorso febbraio. Per Di Rubba e Manzoni, finiti ai domiciliari, di recente la misura cautelare è stata convertita in quella più lieve dell’obbligo di dimora.

Insediarsi “in un Ente regionale e sfruttare tale posizione” per “dirottare su se stessi denaro pubblico – scrive il giudice – è un pessimo esempio perché aggiunge sfiducia e rifiuto da parte dei cittadini nei confronti delle amministrazioni territoriali e nella attività politica in genere”. Nell’inchiesta, coordinata dall’aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi, gli imputati hanno anche mostrato reticenza. “È immediato notare come quelle di Di Rubba – si legge – siano dichiarazioni confuse, incerte, imbarazzate e in parte contraddittorie. Tutto avviene per caso, ogni avvenimento è sfocato, indistinto, come immerso in una nebbia lombarda”. Un intero capitolo è dedicato al concetto di prezzo come proprietà “non intrinseca” di un bene mobile o immobile. “Un immobile – scrive il giudice – è un ente fisico, ma il suo valore non è intrinseco ad esso, non è una sua proprietà, non fa parte della sua “sostanza” ma è determinato “dalle relazioni soggettive tra il proprietario e i possibili acquirenti”. Il capannone di Cormano “rischiava di rimanere invenduto e di deteriorarsi per un tempo indefinito, gravato in più dal debito erariale, e solo la decisione degli imputati, nei loro diversi ruoli, di acquistarlo” ha “attribuito in concreto il valore di 800.000 euro” a un bene “che altrimenti poteva non valere nulla“.

A vendere il capannone a Lfc fu Andromeda, società riconducibile a Scillieri: i commercialisti si spartirono il prezzo pagato dall’ente assieme all’imprenditore Francesco Barachetti (ancora a processo), sulla carta impegnato nella ristrutturazione. In più, nelle motivazioni, sono riportati passaggi di interrogatori nei quali Scillieri ha parlato di “prassi adottate dalla Lega Nord e di cui aveva avuto conoscenza personalmente, relative agli incarichi pubblici e alla successiva parziale retrocessione degli emolumenti (il “sistema del 15%” raccontato dal Fattondr)“. Prassi “condivise e collaudate” da Di Rubba e Manzoni. Per quanto riguarda i filoni d’indagine ancora aperti, infine, dovrebbero presto arrivare a Milano gli atti dell’inchiesta sulla sparizione dei 49 milioni di euro della Lega, una parte della quale è stata trasferita dalla Procura di Genova ai colleghi lombardi, mentre l’altra (su un presunto riciclaggio di dieci milioni in Lussemburgo) va verso l’archiviazione.

ILFQ

Il giuramento di Ipocrita. - Marco Travaglio

 

Diceva La Rochefoucauld che l’ipocrisia è la tassa che il vizio paga alla virtù. Infatti ormai è l’unica tassa che nessuno evade. Una specie di Green Pass obbligatorio per fare politica. Ipocrita Conte che attacca i due decreti Sicurezza del suo ex ministro dell’Interno Salvini senza fare autocritica: il premier che li avallò era lui. Ma ancor più ipocrita chi seguita a definirli fascisti e incostituzionali, scordandosi che a firmarli fu Mattarella (sono “decreti del presidente della Repubblica”, senza il quale non esistono). Super-ipocriti Salvini e gli altri leghisti che nel 2018 elogiarono e votarono in Parlamento il Reddito di cittadinanza e ora ne reclamano a gran voce l’abolizione. Per non parlare del Pd che, più a destra della Lega, riuscì financo a votare contro il più massiccio intervento mai visto contro la povertà, e ora lo difende senza una parola di contrizione per quel No che avrebbe potuto affossarlo. Maxi-ipocriti i giornaloni che continuano a menarla su Conte per aver detto ciò che ora ripetono tutti i leader e gli osservatori con la testa sul collo: bisogna trattare coi talebani (e con chi, se no, visto che sono l’unico potere rimasto a Kabul: con mia zia?) e coinvolgere Russia e Cina (se lo dice SuperMario è un genio della geopolitica, se lo dice Giuseppi è un servo di Mosca e Pechino).

Molti lettori hanno la fortuna di non leggere le cronache romane, sennò scoprirebbero di quali ipocrisie e bugie grondi la campagna elettorale nella Capitale. Siccome la Raggi, data per morta dal 2016, gode discreta salute, non passa giorno senza che i giornaloni inventino una balla. Il Corriere-Roma sbatte in copertina uno scandalo mondiale: “L’ultima offesa a Spelacchio” (l’albero di Natale rinsecchito del 2016 che continua a fornire legna al rogo per la strega Virginia). Quale offesa? Tenetevi forte: “La casetta dedicata ai bambini e al fasciatoio per le mamme installata nel 2018 a Villa Borghese non è mai stata aperta. Eppure doveva essere un esempio virtuoso del riciclo del legno di Spelacchio”. Perbacco. Non è uno scherzo: è il Corriere della sera. Meglio ancora Repubblica: “Raggi, cena con show e la doppia morale 5S. Bufera sull’appuntamento a Ostia: ‘Spettacolo pirotecnico pagato dal Municipio’”, “‘Cena elettorale senza Green Pass’, nuova bufera su Raggi”. La bufera consiste nel fatto che ieri, come ogni anno, Ostia ha chiuso la stagione balneare con una festa in piazza alle 23.30 coi fuochi d’artificio. Sempre ieri, alle 19, la Raggi presenziava a una cena elettorale sulla terrazza di un ristorante da cui i botti neppure si vedono e dove, trattandosi di un locale all’aperto, la legge non prevede il Green Pass. Capito lo scandalo, la bufera, la doppia morale? Ma andé a ciapà i ratt (che fra l’altro a Roma abbondano).

ILFQ