lunedì 3 settembre 2012

AVVOCATO DEL DIAVOLO. - Guido Scorza



Favorita Mediaset, per controllare internet.


Il Parlamento si avvia a varare in tutta fretta – anche perché molti Senatori hanno fatto sapere che crisi o non crisi devono andare in ferie – la legge di conversione del Decreto Legge sui contributi all’editoria e sulla vendita dei giornali e dei periodici.

Inutile, purtroppo, ripetere quello che, ormai, si scrive quotidianamente: il ricorso massiccio ai decreti legge e la loro trasformazione da strumento di normazione urgente ed eccezionale a strumento di normazione ordinario e, anzi, prevalente, espropria il Parlamento del “potere legislativo” e lo rende una sorta di notaio dell’attività normativa svolta dal Governo.

Un Parlamento così, evidentemente, non serve e tanto varrebbe chiuderlo.

Considerazione tanto più vera quando, come in questo caso (n.d.r. ma, ormai, avviene sempre più di frequente) il Parlamento rinuncia “a fare le pulci al Governo” in sede di conversione in legge dei decreti – questo persino se le pulci sono elefanti – ed anzi sfrutta certe occasioni – non essendo più in grado di fare leggi di propria iniziativa – per inserire nei provvedimenti governativi disposizioni-regalo per questo o quell’amico o, comunque, previsioni oggetto di scarsa ponderazione e riflessione, in assenza di qualsiasi preventiva discussione.

È, sfortunatamente, quanto appena accaduto a Montecitorio dove il Senato ha proposto, la Camera dei Deputati accettato ed ora il Senato e pronto a ratificare di nuovo un minuscolo emendamento nella legge di conversione del decreto legge sull’editoria, attraverso il quale allo scopo – più o meno dichiarato – di rendere Google, Facebook e gli altri “demoni” degli editori più controllabili, si è, nella sostanza, autorizzata Mediaset ad allargarsi ancora di più ovvero ad aumentare, nel nostro Paese, la propria già ingombrante posizione – non solo per questioni di numeri – di leader del mercato editoriale.

Cominciamo dal principio perché l’ultimo regalo alle aziende del Cavaliere – sfortunatamente incartato in un emendamento bipartisan – è nascosto nelle pieghe di previsioni di natura tanto tecnica che la loro portata è completamente sfuggita alla più parte dei nostri parlamentari che, probabilmente, pur non comprendendone il senso, hanno lasciato correre, preoccupati di correre a godersi le ultime onorevoli vacanze prima della fine della legislatura.

C’è una norma nell’attuale testo unico della fornitura dei servizi media audiovisivi (già glorioso testo unico della radiotelevisione) – il cui contenuto proviene addirittura dalla sciagurata legge Gasparri – che stabilisce che al fine di garantire il pluralismo dell’informazione, presupposto indefettibile perché la libertà di informazione sia qualcosa di più che una sequenza di macchie di inchiostro parcheggiate sotto il numero 21 nella nostra Costituzione (n.d.r. rischio in Italia elevato come in pochi altri Paesi al mondo), nessun produttore di contenuti – rilevanti, appunto, ai fini della misurazione del pluralismo – può superare talune quote di mercato calcolate in un “paniere” composto da una serie di voci di fatturato.

Tali voci di fatturato, sin qui, sono state rappresentate dai ricavi “derivanti dal finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo al netto dei diritti dell’erario, da pubblicità nazionale e locale anche in forma diretta, da televendite, da sponsorizzazioni, da attività di diffusione del prodotto realizzata al punto vendita con esclusione di azioni sui prezzi, da convenzioni con soggetti pubblici a carattere continuativo e da provvidenze pubbliche erogate direttamente ai soggetti esercenti le attività indicate all’articolo 2, comma 1, lettera l), da offerte televisive a pagamento, dagli abbonamenti e dalla vendita di quotidiani e periodici inclusi i prodotti librari e fonografici commercializzati in allegato, nonché dalle agenzie di stampa a carattere nazionale, dall’editoria elettronica e annuaristica anche per il tramite di internet e dalla utilizzazione delle opere cinematografiche nelle diverse forme di fruizione del pubblico”.

Ora, però, si è scelto di allargare il perimetro del paniere, facendovi rientrare anche i ricavi “da pubblicità online e sulle diverse piattaforme anche in forma diretta incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione”.

L’obiettivo perseguito è evidente: aumentare il controllo dello Stato attraverso l’Autorità Garante delle Comunicazioni – sulla cui indipendenza è sufficiente rinviare alla recente pagina buia della storia del Paese scritta in occasione della nomina dei suoi ultimi membri – sui giganti del web, sin qui, spesso accusati – specie dagli editori di giornali e televisione più blasonati – di muoversi al di fuori di ogni regola e di cannibalizzare il loro mercato.

Il punto, tuttavia, non è se l’obiettivo sia lecito o meno o se meriti o meno di essere perseguito (n.d.r. A voler fare l’avvocato del diavolo si potrebbe dire che anche un ricambio generazionale tra leader di mercato è un fatto democraticamente auspicabile ed apprezzabile).

Il punto è che lo strumento che si è scelto di utilizzare è inaccettabile nel metodo, sbagliato nel merito e drammaticamente pericoloso negli effetti che produce, effetti che, sfortunatamente, sono stati voluti da alcuni e sottovalutati da altri tra i Parlamentari che hanno proposto e poi dato il proprio voto ad una delle norme con le quali il Parlamento chiude il suo semestre di lavoro a servizio del Governo dei professori.

Andiamo con ordine.

Il metodo è inaccettabile perché una norma con un impatto tanto rilevante sul mercato dell’editoria ma, soprattutto, sul pluralismo dell’informazione in un Paese come il nostro a rischio libertà di informazione non si “infila” sul primo treno che passa, avendo cura di sottrarla al dibattito parlamentare – al contrario indispensabile – omettendo, persino, di raccontarla e spiegarla a colleghi di partito con poche chance di comprenderne portata ed effetti solo leggendone il testo.

Il merito è sbagliato perché Internet – anche a volere, per un attimo, personificare e dare un’anima imprenditoriale ad un mezzo di comunicazione con un’operazione concettuale da matita rossa alla scuola elementare – non è, evidentemente, un’azienda editoriale ma un “soggetto” – lo si scrive sempre nella consapevolezza dell’errore – multi cefalo tanto editore, quanto, compagnia telefonica o commerciante di non importa quale genere di prodotto.

Considerazioni analoghe – con la differenza che, in questo caso, è concettualmente legittimo personificarne almeno le società di gestione – valgono per i motori di ricerca e le piattaforme di social networking.

Non siamo davanti ad editori e non siamo davanti a soggetti in grado di darsi – e dare ai contenuti che pubblicano – una linea editoriale e/o di compiere una selezione dei contenuti.

Sono, dunque, soggetti, insuscettibili di incidere sul tema del pluralismo dell’informazione almeno sin tanto che non si arrivi ad ipotizzare – ma occorrerebbe poi provarlo e si potrebbe, a quel punto, agire a prescindere dal quadro normativo del quale stiamo discutendo – che l’algoritmo di Google e degli altri motori o, piuttosto, il software di gestione di una piattaforma da oltre venti milioni di produttori di contenuti solo nel nostro Paese come Facebook, siano “taroccati” in modo da filtrare e privilegiare informazioni pubblicate dagli utenti.

Eccolo l’errore di alcuni e l’astuzia di altri: contrabbandare i gestori dei motori di ricerca e delle piattaforme di social network come editori solo perché attraverso essi circolano milioni di contenuti di carattere informativo e solo perché su questi contenuti qualcuno ha costruito business milionari.

E veniamo ora all’effetto perverso e pericoloso – voluto da alcuni e sottovalutato da altri – prodotto con il varo della norma: se, come si è scelto di fare, si allarga il perimetro del paniere nel cui ambito si misura la formazione di eventuali posizioni dominanti suscettibili di ledere il pluralismo, si produce la conseguenza che anche i più grandi editori come Mediaset, appaiano più piccoli, perché, appunto, il loro fatturato viene misurato non più con riferimento al paniere dei loro veri concorrenti ma con quello al nuovo paniere comprendente anche i milioni e milioni di euro (n.d.r. si tratterà poi di capire come ed in che misura imputabili al mercato geografico italiano) fatturati dall’industria dell’intermediazione dei contenuti.

Il risultato è che Mediaset sarà libera di accaparrarsi – a norma di legge – quote di mercato più ampie rispetto a quelle già detenute e di limitare ancor più di quanto sin qui accaduto il pluralismo dell’informazione senza che nessuno possa neppure ipotizzare di fermarla.

Favorire un gigante dell’informazione italiana, per soddisfare l’ansia di controllare il web ed arginare l’avanzata dei nuovi modelli di business sui vecchi non sembra una scelta sensata e, in ogni caso, è una decisione politica tanto complessa e delicata che non avrebbe dovuto essere assunta in pieno periodo pre-festivo da un Parlamento svogliato e dimissionario.

Peccato che non solo sia avvenuto ma che, con poche eccezioni, l’intero emiciclo parlamentare si sia – più o meno consapevolmente – trovato d’accordo.


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