Dalle offese di Carnevale agli attacchi in diretta televisiva fino all'ultima provocazione di Berlusconi. A 25 anni dalla strage di Capaci ecco i nomi di chi ha provato in tutti i modi a rendere difficile l'esistenza del magistrato palermitano. Come Lino Jannuzzi che ai tempi della Superprocura definiva lui e De Gennaro "i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia. Una coppia la cui strategia ha approdato al più completo fallimento".
C’è chi non si è pentito delle offese lanciate persino quando l’avevano già assassinato, ma anche chi ha chiesto scusa. Chi ha fatto delle scelte poi rivelatesi errate e adesso porta in tribunale i giornali che le ricordano, chi non ha mai più commentato certe critiche lanciate a favor di telecamera e chi invece nega persino le sue stesse parole. Sono i nemici di Giovanni Falcone, quelli che lo hanno osteggiato in vita rendendogli impossibile l’esistenza. Una categoria che non viene mai – o quasi mai – citata nelle decine di eventi organizzati ogni anno per commemorare il giudice palermitano. “I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Tanti furono gli attacchi e le sconfitte tanto che fu chiamato il giudice più trombato d’Italia e purtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo”, ha ricordato la sorella Maria alla vigilia dell’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Un quarto di secolo dopo quel maledetto 23 maggio del 1992, tante, tantissime cose sono cambiate: a cominciare dalla stessa Cosa nostra e dall’Antimafia, fenomeni che negli anni sono addirittura arrivati a confondersi e compenetrarsi. Un gioco di specchi di cui sono piene le cronache degli ultimi anni e che soltanto nell’isola dei paradossi poteva andare in scena.
I nemici di Falcone – Confusa tra mille riflessi è stata anche la figura stessa di Falcone: la storia del giudice più trombato d’Italia, per citare la sorella Maria, è stata trasformata – spesso dai suoi stessi detrattori – in quella perfetta del magistrato appoggiato da tutti lungo la sua intera esistenza . Venticinque anni dopo la sua morte, il ricordo del magistrato siciliano e è finito annacquato da fiumi di retorica: oggi sembra quasi che Falcone sia stato in vita un uomo amato da tutti, mai attaccato o ostacolato da nessuno. E pazienza se i fatti siano andati in maniera diversa. D’altra parte la figura del giudice palermitano viene usata oggi come una sorta di santino: un nome da citare per dare solidità a qualsiasi tipo di ragionamento o di ragionatore. Solo per fare un esempio, rivendica di aver conosciuto Falcone persino quello che è considerato il capo dei capi di Mafia capitale. “Una volta mi accollarono un reato in Sicilia (il delitto di Piersanti Mattarella ndr), presi l’avvocato e andai da Falcone, il giudice Falcone a Palermo”, dice in un’intercettazione Massimo Carminati. “Ma Falcone lo hai conosciuto di persona te?”, gli chiedono i suoi compari, come racconta il giornalista Lirio Abbate. “Mi ha interrogato. Persona intelligentissima, si vedeva proprio, aveva l’intelligenza che che gli sprizzava dagli occhi. Era anche una persona amabile nei modi”, risponde il Cecato dando vita a un dialogo grottesco.
L'ultima provocazione di Silvio: citarlo come esempio.
Dell'Utri - Berlusconi
Sono al limite dell’imbarazzo, invece, le ultime dichiarazioni di Silvio Berlusconi.”Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”, ha detto l’ex cavaliere, intervistato dal Foglio. Chi magari pensava che il magistrato simbolo per Berlusconi dovesse somigliare al corrotto Vittorio Metta è dunque rimasto deluso. Ma l’ex premier ha addirittura rilanciato: “Al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Il magistrato siciliano purtroppo non può replicare. In alternativa avrebbe respinto al mittente qualsiasi connessione con la ex Cirielli, il lodo Alfano, e la depenalizzazione del falso in bilancio, solo per citare qualche “idea sulla giustizia” di Forza Italia, partito fondato da Marcello Dell’Utri, detenuto a Rebibbia dopo la condanna in via definitiva per concorso esterno. Vale la pena di ricordare che Berlusconi – tra le altre cose – è stato lungamente indagato come mandante a volto coperto delle stragi del 1992 e 1993. “So che ci sono fermenti di procure che ricominciano a guardare a fatti del ’92, ’93, ’94: follia pura. Quello che mi fa male è che c’è chi sta cospirando contro di noi“, disse invece il leader di Forza Italia da presidente del consiglio in carica, quando la procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di via d’Amelio, depistate dal falso pentito Vincenzo Scarantino.
L'Ammazzasentenze che lo offendeva anche da morto.
Corrado Carnevale
D’altra parte è sempre uno dei governi di Berlusconi che nel 2003 inserì un comma in Finanziaria per concedere al giudice Corrado Carnevale di essere reintegrato, recuperando gli anni di contributi pensionistici persi a causa delle inchieste a suo carico. Carnevale era stato lo storico presidente della prima corte di Cassazione che nel 1992 avrebbe dovuto giudicare le sentenze del primo Maxi processo a Cosa nostra. Per il gran numero di annullamenti decisi negli anni precedenti si era guadagnato un soprannome evocativo: l’Ammazzasentenze. Ed è per evitare di ammazzare pure gli ergastoli del primo Maxi processo che Falcone – nel frattempo approdato alla direzione degli Affari Penali del ministero della Giustizia – ottenne l’applicazione di un criterio di rotazione per i casi di mafia approdati alla Suprema corte. Carnevale non la prese bene. “I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone: perché i morti li rispetto, ma certi morti no“, diceva in una conversazione l’8 marzo del 1994, a meno di due anni dalla strage di Capaci. Un’intercettazione in cui il giudice non risparmia neanche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo. “Io sono convinto che la mafia abbia voluto uccidere anche la moglie di Falcone che stava alla prima sezione penale della Corte d’Appello di Palermo per farle fare i processi che gli interessavano per fregare qualche mafioso“, dirà senza un minimo di compassione per la coppia appena assassinata da Cosa nostra.
Il risentimento dell’Ammazzasentenze – Quando il 10 novembre dello stesso anno gli investigatori gli danno lettura di quelle conversazioni, l’Ammazzasentenze confida: “Devo ammettere che io ho avuto del risentimento nei confronti del dottor Falcone”. Gli chiedono: “Neppure dopo la morte di Falcone si è placato quel suo grave risentimento?”. “No, devo ammettere di no”. Processato per concorso esterno, Carnevale è stato assolto in primo grado, condannato in appello a sei anni, prosciolto definitivamente in Cassazione. Dopo l’assoluzione torna a fare il giudice della corte di Cassazione, pensa di ricandidarsi come presidente della prima sezione ma lascia perdere. Poteva rimanere in servizio fino al 2015, ma decide di andare in pensione nel 2013 quando ha ormai 83 anni. Alcuni mesi dopo va a testimoniare al processo Capaci bis – quello nato dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza – e dice incredibilmente: “Non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo”. Ai giornalisti del Foglio e del Giornale che lo vanno a trovare a casa per intervistarlo invece racconta: “La casta a cui appartengo fin dal primo momento non mi ha visto di buon occhio. Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell’invidia“.
Geraci e il voto al Csm che gli preferì Meli.
Ha azzerato praticamente gli interventi mediatici Vincenzo Geraci, altro nome che ha un ruolo nella carriera di Giovanni Falcone, perché insieme al magistrato siciliano era presente ai primi interrogatori di Tommaso Buscetta. Anni dopo Geraci è tra i consiglieri del Csm che la sera del 19 gennaio del 1988 bocciano la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Era lo stesso posto ricoperto da Antonino Caponnetto, l’inventore del pool antimafia: sembrava scontato che la successione toccasse a Falcone. “Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però dì ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni. In tali condizioni vi chiedo pertanto di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato ad esprimere il mio voto di favore”, dirà Geraci annunciando il suo sostegno alla candidatura dell’anziano Antonino Meli: di mafia sapeva poco o nulla ma era stato internato dai tedeschi. Venne nominato consigliere istruttore con 14 voti a favore, 10 contrari (tra i quali Gian Carlo Caselli) e 5 astenuti.
“Un giuda ci ha traditi” – “Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Csm, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli”, si sfogherà Paolo Borsellino, nel suo ultimo intervento pubblico il 25 giugno del 1992. Borsellino non indicherà mai chi fosse quel Giuda: venne ucciso, infatti, meno di tre settimane dopo quell’intervento. Molti anni dopo, quindi, quando il giornalista Rino Giacalone tirerà in ballo Geraci, quest’ultimo lo querelerà per diffamazione. Oggi Geraci è procuratore generale aggiunto della Cassazione: in pratica è il vice di Pasquale Ciccolo, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.
Il Corvo senza nome – Sempre per rimanere nel campo delle toghe non si può non citare il famoso caso del Corvo di Palermo, l’anonimo autore di lettere in cui si accusava Falcone di avere gestito illegalmente il pentito Totuccio Contorno: addirittura di averlo chiamato a Palermo per mandarlo a caccia dei boss del clan dei corleonesi. Accusato di essere il Corvo fu il giudice Alberto Di Pisa, condannato in primo grado a un anno a sei mesi e poi assolto definitivamente nel 1993. L’identità del Corvo non sarà mai individuata mentre tra i detrattori di Falcone si possono annoverare anche personaggi estranei alla magistratura. A cominciare magari da semplici e normali privati cittadini.
Quando i vicini di casa non lo volevano.
“Spostate i magistrati in periferia” – La Palermo in cui ha vissuto Giovanni Falcone era molto diversa dalla Palermo che si è svegliata dopo quello che i mafiosi battezzarono come l’Attentatuni. Un esempio? Una lettera pubblicata dal Giornale di Sicilia negli anni ’80. A scriverla è una donna che abita nelle vicinanze del condominio in cui Falcone fa ritorno ogni sera, blindato dalle auto della scorta. Il motivo della missiva? “Regolarmente tutti i giorni, al mattino, nel primissimo pomeriggio e la sera, vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora mi domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?”; scriveva la vicina di casa del giudice che poi lanciava un invito: “Perché i magistrati non si trasferiscono in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione”. Parole che fanno un certo effetto. Soprattutto oggi che l’albero Falcone – nei pressi dell’abitazione del magistrato – sarà invaso da persone arrivate a Palermo da tutta Italia.
L’attacco in diretta tv – Le cose per Falcone non andavano meglio quando accettava di partecipare a qualche trasmissione televisiva. Nota, anzi notissima, è la puntata che Michele Santoro e Maurizio Costanzo dedicano in tandem alla memoria dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso nell’agosto del 1991. In studio tra gli ospiti c’è il giudice palermitano, attaccato più volte in quell’occasione da personaggi che avranno storie future completamente diverse. “Falcone ha dichiarato che è notorio che l’onorevole Salvo Lima utilizzava la macchina degli esattori Salvo”, è l’intervento – in collegamento da Palermo – di Leoluca Orlando. “C’era bisogno che lo dicessi io perché si sapesse dei rapporti tra i Salvo e i Lima”, risponde Falcone, raccogliendo la replica dell’allora leader della Rete. “Ecco un’ulteriore conferma“, dice in diretta televisiva Orlando, che in pratica accusava Falcone di non aver perseguito volontariamente l’europarlamentare della Dc. Quelle accuse a Falcone saranno rinfacciata per anni al primo cittadino palermitano, il quale chiederà poi scusa per le sue parole. Quella trasmissione, però, è passata alla storia anche per l’intervento di Totò Cuffaro. “Ho assistito ad una volgare aggressione alla classe migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia. Il giornalismo mafioso che è stato fatto stasera fa più male di dieci anni delitti”, è una parte dello sfogo del futuro governatore della Sicilia, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia. Per il video di quell’intervento – intitolato su youtube “Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone” – l’ex presidente siciliano ha querelato Antonio Di Pietro, che lo aveva postato sul suo blog: il tribunale gli ha dato ragione.
"Falcone, chi la protegge?". L'attacco di giornali e tv .
“Giovanni vattene da Roma” – E se oggi tutti concordano nel valutare come un salto di qualità nella lotta alla mafia il passaggio di Falcone a Roma per dirigere gli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, così non era in quel 1992. “Secondo me Falcone farebbe bene ad andarsene il più presto possibile dai palazzi ministeriali, perché l’aria non gli fa bene proprio“, disse l’avvocato Alfredo Galasso nella stessa puntata del Maurizio Costanzo Show, nota per l’esordio televisivo di Cuffaro. “Questo mi sembra scarso senso dello Stato. Al ministero di Grazia e Giustizia ci sono posti espressamente previsti per i magistrati”, fu la replica di Falcone, attaccato spesso per il suo trasferimento a Roma anche in altre salotti televisivi. “Noi abbiamo imparato a conoscerla quando viveva barricato laggiù e forse l’abbiamo un po’ mitizzata. Adesso che sta al ministero e che scrive editoriali sulla Stampa, le sue posizioni sembrano più morbide, più sfumate. Non vorrei dire che ci ha un po’ deluso negli ultimi tempi ma sicuramente è cambiato: lei lo sa? Ne è consapevole?”, gli chiede il 12 gennaio del 1992 Corrado Augias durante una puntata di Telefono Giallo. Una trasmissione che passa alla storia soprattutto per la domanda posta da una componente del pubblico. “Lei – chiederà una donna a Falcone – dice nel suo libro che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei fortunatamente è ancora con noi: chi la protegge?” La reazione del magistrato è amara: “Questo vuol dire che per essere credibili bisogna essere ammazzati?”
I veleni di Jannuzzi: attacco al Maxi e alla Dna.
Lino Jannuzzi
Critiche asprissime arriveranno a Falcone nello stesso periodo anche sulla stampa. È il momento in cui il magistrato siciliano è candidato a dirigere la cosiddetta Superprocura (cioè la procura nazionale antimafia) e il poliziotto Gianni De Gennaro la Dia. Lino Jannuzzi, però, sul Giornale di Napoli li indicherà come i “maggiori responsabili della debacle dello Stato di fronte alla mafia… una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento. Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”. Jannuzzi in seguito sarà senatore di Forza Italia per ben due legislature. In precedenza, tra l’altro – lo ricorda Caselli sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa – erano stati altri due futuri parlamentari di centrodestra ad attaccare Falcone dalle colonne del Giornale e del Giornale di Sicilia: Ombretta Fumagalli Carulli e Guido Lo Porto. Nei loro articoli il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme, un meccanismo spacciato come giuridico”, mentre i procedimenti genericamente contro Cosa nostra vengono bollati come “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”.
“Un mediocre pubblicista” – Gli opinionisti non saranno teneri neanche quando Falcone darà alle stampe un libro – Cose di Cosa nostra – scritto alla fine del 1991 insieme a Marcelle Padovani. “Scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”, scriverà Sandro Viola in un’editoriale durissimo pubblicato da Repubblica il 9 gennaio del 1992. “A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre particolari illuminazioni: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista“, sarà la chiusa di quell’articolo, che oggi è quasi introvabile online. Come i nemici di Falcone: attivissimi quando il giudice era vivo, evaporati dopo il botto di Capaci. E in qualche caso diventati amici intimi del magistrato assassinato. Ma – ovviamente – soltanto post mortem.
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