martedì 14 gennaio 2020

Il presidente di Confindustria sull’orlo del fallimento.


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I padroni, si sa, sono sempre lì a dar lezione su come – secondo loro – dovrebbe essere governato il Paese, ridotta la spesa pubblica (aumentando però la parte che deve andare a “sostenere le imprese”), reso efficiente questo e quello,
L’ideologia, o il senso comune, degli ultimi decenni recita infatti “privato è meglio, il pubblico è solo sprechi e inefficienza”. Poi uno guarda le Autostrade privatizzate, che cadono fisicamente a pezzi (dal Ponte Morandi in poi, almeno, se ne dà notizia in attesa della prossima strage), e qualche dubbio comincia a venire anche ai più tonti.
Tra i padroni, i più severi di tutti sono da sempre i dirigenti di Confindustria (il “sindacato” degli imprenditori). I quali, per una sorta di proprietà transitiva, essendo i rappresentanti di più alto livello delle imprese, diventano automaticamente i veri “maghi dell’economia”, quelli che sanno come si fa e quindi hanno solo da insegnare a tutti. Ricordate le prime campagne elettorali di Berlusconi? Tutto il suo argomentare si reggeva sul fatto che “ho creato aziende, dunque…”.
Va da sé che il Presidente di Confindustria, sebbene carica elettiva temporanea, debba essere considerato il Migliore della categoria, o almeno uno dei più bravi (anche Gianni Agnelli fu tra loro…).
Errore.
Nelle pagine interne dei giornali, magari in “taglio basso” (a fondo pagina), fa capolino timidamente una notizia: il Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, titolare della omonima Arti Grafiche Boccia, ha depositato in tribunale una domanda ex articolo 182 della legge fallimentare, «affinché possa essere concesso dal tribunale competente il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prelazione non concordati». 
Negli Stati Uniti si chiama Chapter 11, e significa “protezione dai creditori”. In pratica, non potendo pagare i fornitori e rimborsare i creditori, chiede tutela legale perché questi non possano rivalersi sugli assset aziendali, decretandone così la fine.
Nel 2017 l’azienda aveva accusato perdite per 3 milioni di euro, e girava voce che i suoi dipendenti vedessero lo stipendio sempre più di rado.
La richiesta al Tribunale è accompagnata da un nuovo piano industriale: «un piano di rilancio che prevede nuovi investimenti pari a 10 milioni di euro nei prossimi 18 mesi, che si aggiungono ai 40 milioni già investiti negli ultimi 15 anni, oltre a un aumento di capitale già realizzato pari a 1,3 milioni con annessa ristrutturazione del debito».
La parolina magica è proprio alla fine (“ristrutturazione del debito”), che quando viene evocata per i conti pubblici equivale a dichiarazione di bancarotta (il debito “ristrutturato” è quello che, in parte o in toto, non viene restituito ai creditori).
Le difficoltà aziendali sono comprensibili (la crisi globale non è mai stata superata da 12 anni a questa parte, e il mondo della stampa-grafica-editoria l’ha subita più seriamente di altri settori), e nessuno pretende di insegnare come si fa l’imprenditore.
Però, per simmetria, ci si aspetterebbe che il quasi fallimento come imprenditore inducesse “l’amministratore delegato” in crisi a un profilo più basso, modesto, defilato, sul fronte pubblico.
E invece no. Boccia, come presidente di Confindustria, continua a pontificare come se non ne avesse mai sbagliata una, da imprenditore.
Viene nostalgia dei tempi in cui far parte della borghesia era una cosa seria, esisteva la “legge sui falliti” per cui uno che faceva bancarotta non poteva più fare l’imprenditore, ma solo il lavoratore dipendente (se trovava qualcuno disposto ad assumerlo…). Una forma di “selezione dentro la classe dirigente” mirante a “migliorare la qualità”, a “premiare il merito” e bastonare il demerito.
Ma manco la borghesia è più quella di una volta…

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