sabato 23 maggio 2020

La Palamarata. - Marco Travaglio


Palamara: «Mai presi 40.000 euro, non sono un corrotto ...
Palamara, Ferri, Lotti
Quello che pensiamo dell’inchiesta sul pm romano Luca Palamara, ex capocorrente di Unicost, che ha scoperchiato il vaso di Pandora del mega-scandalo del Csm e del Risiko delle Procure, l’abbiamo scritto un anno fa quando vennero fuori le prime conversazioni intercettate (anche col trojan horse) dalla Procura di Perugia: più che a un’indagine sulle presunte corruzioni del potentissimo magistrato romano, nel frattempo ridimensionate dagli stessi pm umbri, l’operazione faceva pensare a una gigantesca pesca a strascico per sventare la nomina a capo della Procura di Roma del Pg di Firenze Marcello Viola, sgradito al procuratore uscente Giuseppe Pignatone, che invece preferiva l’amico Francesco Lo Voi, attuale procuratore di Palermo. Le intercettazioni scoperchiarono un verminaio di spartizioni, maldicenze, dossieraggi, delazioni, imboscate, traffici di favori e influenze, simonie, complotti politici e correntizi per mandare (ma soprattutto per non mandare) tizio o caio nei posti chiave. Anche la Procura della Capitale, che vale molto più di un ministero, era oggetto di una guerra per bande: da un lato gli amici di Pignatone che spingevano per il suo fedelissimo Lo Voi, dall’altro gli amici di Palamara e dei parlamentari renziani Lotti e Ferri (quest’ultimo ex capo di MI) che spingevano per il “discontinuo” Viola. Il quale fu il più votato dalla commissione Incarichi direttivi del Csm e avrebbe prevalso nel voto finale al Plenum.
Ma a quel voto non si giunse mai perché, previo intervento del Quirinale, senza che su Viola emergesse nulla di men che corretto, si decise di azzerare tutto e di rivotare da capo. Così prevalse Michele Prestipino, braccio destro di Pignatone a Palermo, a Reggio Calabria e a Roma. E l’indagine, che sulle presunte corruzioni di Palamara non è ancora approdata neppure al processo, ha già sortito l’effetto che qualcuno sperava: garantire a Pignatone una morbida successione in totale “continuità” con la sua, premiando e coprendo errori, omissioni e fiaschi. Anche perché un anno fa, dal maremagno delle conversazioni intercettate, ne furono selezionate e trasmesse al Csm soltanto alcune: quelle funzionali al giro vincente. Solo ora, dopo il deposito integrale degli atti, saltano fuori anche quelle sfavorevoli. Ma i giornaloni – incassato il procuratore di Roma che sognavano con i loro editori – si guardano bene dal pubblicarle. Lo fanno il Fatto e la Verità, in beata solitudine. Ne vien fuori una magistratura associata che, salvo rare eccezioni, si comporta come le peggiori lobby (per non dire cosche).
E naturalmente prende di mira i pochi cani sciolti che si ostinano a non guardare in faccia nessuno: Woodcock, Di Matteo, Scarpinato e pochi altri. L’unica corrente che (almeno finora) ne esce benino è Autonomia e Indipendenza, fondata da Davigo e rappresentata al Csm anche da Ardita e Di Matteo. Per il resto, da quelle di destra a quelle di sinistra, è un museo degli orrori generale che completa il quadro parziale emerso un anno fa. Con una differenza: nel 2019 si dimisero il Pg della Cassazione e altri cinque membri del Csm; ora non si dimette nessuno, a parte il capo di gabinetto di Bonafede. E forse è inevitabile che sia così: se dovessero finire sotto procedimento disciplinare e/o lasciare i propri incarichi tutte le toghe “apicali” intercettate a dire o a fare qualcosa di men che commendevole, si creerebbe il deserto negli uffici giudiziari di mezza Italia. Le metastasi correntizie e carrieristiche sono ormai così ramificate che nemmeno il bisturi può stroncare il cancro. Fermo restando che chi ha commesso illeciti deontologici o penali deve finire dinanzi al Csm o in tribunale, urgono almeno sei riforme draconiane che chiudano al più presto la piaga purulenta e facciano sì che non si riapra mai più.
1) Smantellare la controriforma Castelli-Mastella del 2007 che accentrava (“verticalizzava”) tutti i poteri nelle mani dei procuratori capi e restituisca ai singoli pm quel potere “diffuso” che è garanzia di pluralismo e rende molto più difficile insabbiare indagini scomode. 
2) Frenare gli appetiti carrieristici delle toghe abolendo la rotazione dei capi degli uffici dopo tot anni (chi fa bene resti anche a vita, chi fa male sia cacciato dal Csm perché è incapace, non perché è “scaduto”). 
3) Sistema misto fra sorteggio ed elezione per la scelta dei membri togati del Csm (proposto da Bonafede, ma poi archiviato su richiesta di Pd e Anm), per lasciare al caso almeno la selezione dei candidati, fra i quali poi i magistrati eleggeranno i propri rappresentanti. 
4) Divieto d’accesso alla quota “laica” del Csm per chi ha avuto ruoli politici (tipo Casellati ed Ermini). 
5) Divieto per le toghe che hanno svolto incarichi extra di nomina politica di dirigere uffici giudiziari per almeno 5 anni (Raffaele Cantone, ottima persona, fu scelto da Renzi all’Anac: ora è meglio che non diventi procuratore di Perugia, competente sui reati dei colleghi romani). 
6) Abolire il divieto di pubblicazione testuale degli atti d’indagine anche coperti da segreto, almeno su personaggi pubblici. Così la libera stampa potrà raccontare tutto senza censure. Ove mai esistesse.

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