Nell’abominio albanese la posta in palio non è “il danno erariale”, ma è il patto costituzionale, la democrazia italiana mai così esposta alle spallate di una coalizione illiberale e irresponsabile.
Era dai tempi del berlusconismo da combattimento che non si vedeva un potere dello Stato colpire al cuore, con tanta virulenza, un altro potere dello Stato. E non vi fate incantare dalla tv di regime, che all’ora di cena serve nel piatto degli italiani la solita sbobba rancida della “guerra tra politica e giustizia”. Non è così: qui, come in Ucraina, non ci sono due combattenti, ma solo un aggressore e un aggredito. Come prevedeva l’ortodossia del rito arcoriano, c’è un governo che si proclama sciolto dal principio di legalità, perché protetto dal voto del popolo che lo ha eletto. E dunque accusa di “golpismo” qualunque magistrato che, nel normale esercizio delle sue funzioni, osi giudicare il suo operato in base ai principi dell’ordinamento giuridico interno e internazionale. Nello stesso giorno succede l’impensabile. La premier Meloni, affiancata dalla “guardia nera” di La Russa e i suoi Fratelli, bastona i giudici di Roma. Il vicepremier Salvini, con ben quattro ministri al seguito, pesta i giudici di Palermo.
Prima ancora del merito, importa questo metodo. Questa sfida a viso aperto agli organi di garanzia previsti dalla Costituzione. Questa deriva ormai davvero “ungherese” della democrazia italiana, mai così esposta alle spallate di una coalizione illiberale e irresponsabile.
Perché deflagri adesso, e con questa furia da junta cilena, è presto detto. Questione troppo complessa per essere lasciata nelle mani ruvide e corrive dei nuovi patrioti, la politica migratoria sancisce il doppio fallimento di una coalizione sfascista e cattivista. Da una parte, crolla il castello di carta del “modello Albania” tanto caro alla Sorella d’Italia. Dall’altra parte, fallisce l’adunata voluta dal Capitano della Lega. Male, per un governo che evidentemente passa troppe ore a “fare la Storia”, non ha tempo per ripassare la geografia e meno che mai per studiare il diritto. La somma di questi fattori — ideologia e xenofobia, arroganza e incompetenza — produce come risultato una Caporetto politica, che fa schiumare di rabbia un ceto politico senza disciplina e senza onore.
Sui migranti perde la premier, che si era illusa di aver trovato l’uovo di Colombo, grazie a un patto scellerato con l’amico Edi Rama, depositando a casa sua i “carichi residui” di carne umana che noi non vogliamo più vedere per le strade delle nostre città (a meno che non ci rimpiazzino in tutto quello che non ci degniamo più di fare, pulire cessi o imbiancare muri, raccogliere pomodori o consegnare pizze, il tutto per un pugno di euro e preferibilmente in nero). L’aveva pensato come un perfetto spot elettorale, da mandare in onda nella settimana del voto europeo di giugno: un bel bastimento carico di profughi, a favore di telecamere del fido Tg1 delle 20, da far partire sulla rotta inversa rispetto a quella che seguirono i 20 mila albanesi della nave Vlora, l’8 agosto ’91. Allora vennero loro da noi, in massa, e li accogliemmo a Bari. Oggi noi gli restituiamo gli “indesiderabili” sbarcati qui, deportandoli nei due lager costruiti a Gjader e Shengjin. Un’ideona, ricalcata sull’immondo esempio inglese di Rishi Suniak, che i suoi migranti voleva spedirli addirittura in Ruanda: noi, più furbi, ci accontentavamo dell’Albania, a un braccio di Mar Adriatico dalle coste tricolori. Gli elettori italici avrebbero apprezzato, gli osservatori stranieri avrebbero copiato. Non è andata così. Sull’esodo niente affatto biblico dei 16 poveri cristi sbarcati dalla Libra, glorioso pattugliatore d’altura da 81 metri, è calata subito l’ovvia mannaia del Tribunale di Roma. L’illegittimità del trattenimento di quei migranti negli hotspot albanesi era chiaro come il sole, come sapeva chiunque, tranne gli astuti Fratelli di Giorgia. Per capirlo, bastava leggere la sentenza della Corte di Giustizia Ue del 4 ottobre, che non riconosce come “sicuri”, ai fini del rimpatrio, almeno 20 dei 22 Paesi che invece lo sarebbero, secondo i giuristi all’amatriciana formati alla sezione di Colle Oppio. Quelle anime perse, ora, hanno “diritto ad essere condotte in Italia”, come scrive nella sua pronuncia Luciana Sangiovanni, presidente della Sezione Immigrazione del collegio capitolino. Dunque, contrordine camerati: tutti a bordo, e si riparte. Anche se non si sa più per dove.
Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. L’operazione Albania è dettata solo da una cieca follia. Un autodafé giuridica, economica, umanitaria. E buon per Meloni se, per avere conforto, le bastano un po’ di von der Leyen, un pizzico di Barnier e le solite cattive compagnie dell’Internazionale Sovranista, riunite in fretta e furia per un pre-vertice a Bruxelles. È noto che nelle vene d’Europa scorre il virus dell’odio e dell’ignavia, dell’intolleranza e del razzismo. Col supporto di Ungheria e Repubblica Ceca, Slovacchia e Austria, l’Italia meloniana sogna lo stesso inferno. Ma per fortuna c’è un giudice a Strasburgo e un altro giudice a Roma. Ci indicano la strada: le migrazioni vanno gestite, con regole certe e anche rigorose. Ma come ci insegna la civiltà dei Padri, sempre nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. Questo fa le democrazie diverse dagli altri regimi. Di questo dovrebbero prendere atto le destre al comando, invece di inveire contro i magistrati, che hanno il solo torto di applicare la legge. Nella Dottrina Meloni, invece, il potere giudiziario ha solo un dovere: aiutare il potere esecutivo. Se non lo fa, è parte dell’ennesimo “complotto”, naturalmente ordito insieme alla sinistra. “Abbiamo contro una parte delle istituzioni” tuona la premier, sovvertendo i ruoli e i principi: qui è l’istituzione-governo che aggredisce l’istituzione-magistratura, non il contrario.
Salvini è una conferma vivente del teorema. Anche lui esce disfatto dal fronte migranti. La sua “chiamata alle armi” a Palermo — a pochi passi dall’altro tribunale, quello che lo sta processando per la vicenda Open Arms — è stato un colossale flop. Non c’era la folla, a sostenere il leader leghista nel suo atto sedizioso contro i giudici, copia sbiadita delle erinni berlusconiane accorse in massa sulla scalinata del Palazzo di Giustizia di Milano per difendere il Cavaliere dalla “persecuzione delle toghe rosse”. A dare manforte al Capitano erano in quattro gatti, Calderoli e Giorgetti, Valditara e Locatelli. Parafrasando Andreotti, ai tempi del famoso viaggio aereo di Bettino Craxi in Cina: davanti al Politeama c’erano giusto Matteo e i suoi cari. Ma a prescindere dal numero dei partecipanti, il fatto in sé resta gravissimo, e fa il paio con il misfatto di Meloni. Un vicepresidente del Consiglio e capo del secondo partito della maggioranza, insieme alla sua delegazione ministeriale, scende in piazza contro l’ordine giudiziario. Come nella peggiore tradizione populista, siamo alla “secessione delle classi dirigenti”: la politica che, per sottrarsi al controllo di legalità, fa saltare il banco. Un’enormità, di fronte alla quale ci permettiamo di suonare la sveglia a Elly Schlein: cara segretaria del Pd, nell’abominio albanese la posta in palio non è “il danno erariale”, ma è il patto costituzionale. Una sfida molto più impegnativa, che richiede un’opposizione all’altezza. Questo film dell’orrore l’abbiamo già visto negli anni di fango del Caimano. Non credevamo di rivederlo oggi, negli anni di palta dell’Underdog.
(Vignetta di Gianlorenzo Ingrami)
Articolo pubblicato su Repubblica
Massimo Giannini, 19 Ott 2024
https://www.libertaegiustizia.it/2024/10/20/la-deriva-istituzionale/
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