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martedì 25 giugno 2019

Iva, abbassare le aliquote non frena l’evasione. Almeno in Romania. - Riccardo Saporiti


Torna Fiume di denaro, l’inchiesta di Angelo Mincuzzi e Roberto Galullo sui paradisi fiscali. In quest’occasione l’attenzione si concentra sulla Romania, da vent’anni terra di delocalizzazione per molte imprese italiane. Infodata accompagna l’uscita di questa nuova puntata con un focus sull’evasione dell’Iva in questo Paese.
Sul grafico sono rappresentate, come percentuali, l’Iva incassata (in verde) e quella evasa (in rosso). Il dato arriva da un rapporto della direzione generale per la Fiscalità e l’unione doganale della Commissione Europea. Come si può osservare dal grafico, in buona sostanza il fisco rumeno riesce ad incassare solo due euro su tre di quelli che gli sarebbero dovuti.
Il risultato migliore, con un’evasione “ferma” al 34,47%, è il 2015, che è anche l’anno migliore per l’economia rumena. Nel senso che la previsione di incasso dell’Iva era pari ad oltre 87 miliardi di Leu, la cifra più alta nel periodo preso in considerazione.
Da notare che nel 2016 il governo di Bucarest ha introdotto una riforma fiscale che ha abbassato l’aliquota ordinaria dal 24 al 20%, con l’aliquota reale che è scesa dal 17,2 al 13,5%. Una decisione che però non è servita a ridurre l’evasione fiscale, che anzi è aumentata di un punto e mezzo rispetto all’anno precedente. Il risultato più significativo è rappresentato da una riduzione delle entrate fiscali legate all’Iva, scesi da 57 a 49 milioni di Leu. Cifra identica a quella incassata dal fisco rumeno nel 2012, quando però l’evasione dell’imposta sul valore aggiunto aveva sfiorato il 39%. In Romania, dunque, l’abbassamento delle aliquote non è servito a porre un freno agli evasori fiscali.

lunedì 2 dicembre 2013

I call center ora restano in Italia. Contro le delocalizzazioni stipendi ridotti. - Salvatore Cannavò

I call center ora restano in Italia. Contro le delocalizzazioni stipendi ridotti


Un accordo sindacale di agosto prevede contratti a progetto con salari ridotti al 60% dei minimi. E la legge del governo Monti sospende l'erogazione degli incentivi per le aziende che trasferiscono le proprie attività all'estero.

Delocalizzare o restare in Italia? Questo è il problema. Almeno per i call center, settore simbolo del precariato. Il trasferimento delle attività all’estero è noto da tempo e ha riguardato marchi come Sky, Fastweb, Vodafone oppure realtà del settore importanti come Almaviva. Tra i paesi preferiti la vicina Albania, con circa 60 aziende tra Durazzo, Valona e Tirana. Ma anche la Romania o la Tunisia. Se negli anni Duemila, come nel caso di Atesia, i lavoratori manifestavano soprattutto per regolarizzare il proprio lavoro, ora la protesta è contro le delocalizzazioni: lo hanno fatto quest’estate i dipendenti Fastweb oppure l’Almaviva di Palermo e, ancora, i dipendenti di E-Care.
In tempi di crisi ogni lavoro è essenziale, anche quello meno professionale dei call center, per quanto si tratti ormai di una occupazione rilevante. In Puglia, ad esempio, Teleperformance è la seconda azienda dopo l’Ilva con 3.000 dipendenti, mentre Almaviva (ex Atesia) ne occupa 24 mila in Italia. Contro le delocalizzazioni si sono affermate due soluzioni: una legislativa, l’altra sindacale.
La prima, ha posto dei limiti al processo con apposite restrizioni. La soluzione sindacale sembra invece aver adottato il principio: se il call center si sposta in Albania portiamo l’Albania qui da noi. Cioè, riduciamo drasticamente i salari. È quanto appare dalla lettura dell’ultimo contratto di settore siglato da Cgil, Cisl e Uil con le due strutture padronali, Assotelecomunicazioni e Assocontact in cui si prevede una sorta di “salario di ingresso” al 60 per cento della paga minima.
Con i 100 mila occupati – senza contare quelli interni alle aziende – i call center sono la vetrina per clienti in cerca di informazioni oppure da assoldare con proposte “allettanti”. Il contratto si riferisce a questi ultimi, i lavoratori a progetto (co.co.pro.) in outbound, cioè coloro che effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing e televendita, ricerche di mercato, ecc.). Si tratta di 30 mila addetti per i quali la riforma Fornero ha richiesto il ricorso alla contrattazione per determinarne la retribuzione. E così i datori di lavoro e i sindacati di categoria, Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, hanno siglato un contratto che prevede il riconoscimento del minimo tabellare (circa 1.000 euro netti al mese) ma ridotto al 60 per cento fino a gennaio 2015. Da quella data, poi, si risale di anno in anno fino a raggiungere il 100 per cento del minimo nel 2018. Una forma originale di “salario di ingresso” prolungato nel tempo. Inoltre, per le nuove assunzioni al termine del contratto, l’azienda utilizzerà i lavoratori già assunti sulla base di una graduatoria. Ma per potervi accedere i collaboratori dovranno sottoscrivere “un atto di conciliazione individuale conforme alla disciplina prevista dagli articoli 410 e seguenti del Codice di procedura civile”. Si tratta della rinuncia a diritti pregressi che non vengono nemmeno specificati.
Sai da parte datoriale, sia da parte sindacale, l’accordo è stato difeso come “una importante novità nel panorama delle relazioni industriali”. Le parti hanno addirittura siglato un comunicato congiunto al Fatto, il presidente di AssTel, Cesare Avenia, spiega che “non era mai avvenuto prima che si stipulasse un accordo avente come oggetto dei lavoratori non dipendenti”. Avenia poi, insiste sull’importanza di “aver fissato una retribuzione minima” in un accordo che “amplia le certezze per i lavoratori”. Allo stesso tempo, però, fa notare una fonte sindacale, “si istituzionalizza una contrattazione separata per i co.co.pro che impedisce loro di accedere al contratto generale”.
L’altra misura, quella legislativa, è stata introdotta dal decreto del governo Monti del giugno 2012. Prevede che il cliente contattato da un call center sia immediatamente informato della collocazione estera di chi raccoglie i suoi dati. Ma soprattutto sospende l’erogazione degli incentivi “ad aziende che delocalizzano attività in Paesi esteri”. Norma in parte mitigata dalla circolare interpretativa del 2 aprile di quest’anno con la quale il ministero del Lavoro ha limitato le restrizioni solo alle delocalizzazioni verso “paesi extracomunitari” in analogia con la legislazione Ue.
Nati impetuosamente agli inizi degli anni Duemila, i call center si sono evoluti confusamente con contratti “selvaggi”. La vertenza dell’Atesia nel 2005 ha costituito uno spartiacque, anche per la durezza dello scontro. Contemporaneamente sono usciti i film di Ascanio CelestiniParole sante (basato proprio sull’Atesia) e, in particolare, Tutta la vita davanti di Paolo Virzì tratto dal libro di Michela Murgia, Il mondo deve sapere. Il call center sembra la catena di montaggio degli anni Duemila. Nel 2006, l’allora ministro del Lavoro, Cesare Damiano, uno dei pochi che si occupa ancora di lavoro, con una circolare riuscì a stabilizzare “circa 24 mila lavoratori”. Lavoro distrutto dal successivo governo Berlusconi. Nel frattempo si è ampliato il fenomeno di delocalizzazione alla ricerca del costo del lavoro più basso. Fino a scoprire che quel costo si può ridurre anche qui.
Oltretutto, i call center rappresentano un buon, anzi, ottimo bacino di voti per i partiti, e a buon prezzo.
La politica è riuscita nel suo intento, schiavizzare i cittadini rendendoli formiche facilmente dominabili. E pensare che abbiamo sostenuto in passato dure lotte per ottenere qualche diritto in più, ma questa è un'altra storia.