lunedì 28 ottobre 2013

Carceri sovraffollate? E’ perché l’Italia non rimpatria gli stranieri. Nonostante la legge. - Thomas Mackinson

Carceri sovraffollate? E’ perché l’Italia non rimpatria gli stranieri. Nonostante la legge

Lo prevede la convenzione di Strasburgo del 1983 che il nostro Paese ha sottoscritto. Con l'attuazione di questa norma si risparmierebbero anche 500 milioni. Ma a distanza di 24 anni dalla ratifica nessuno incentiva questo strumento. In più, non ci sono accordi bilaterali con Marocco, Tunisia e Romania che sono in cima alla classifica delle presenze.

Mentre ancora si parla di indulto e amnistia, l’Italia spende un miliardo all’anno per tenere nelle patrie galere detenuti stranieri che in buona parte potrebbero scontare la pena nei loro paesi d’origine. Il piano è pronto da decenni. Gli accordi per lo scambio ci sono, multi e bilaterali, stretti con quasi tutti i Paesi del mondo. Ma nessuno incentiva questo strumento per svuotare le carceri e i detenuti trasferiti, alla fine, sono così pochi che non vengono neppure conteggiati nelle statistiche sulla giustizia italiana. Percorrendo tutte le vie “ufficialissime” dei ministeri competenti – Interno, Giustizia ed Esteri – è materialmente impossibile avere un dato su quanti abbiano usufruito di questa possibilità e diritto, come prevede la convenzione di Strasburgo del 1983, che l’Italia ha ratificato e inserito nel proprio ordinamento dal 1989 e via via allargato con una serie di accordi bilaterali.
Una beffa. Perché questa strada avrebbe potuto, almeno sulla carta, segnare la svolta sulla questione carceri prima che diventasse emergenza nazionale. Lo dicono i numeri. Nelle celle italiane, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si contano oggi 22.770 detenuti stranieri, un terzo della popolazione carceraria. Tanti, troppi. E ci sarebbero motivi di mera convenienza, oltre che di civiltà, per incentivare a diminuirne il numero. Il costo medio per detenuto calcolato dalla Direzione bilancio del Dap è di 124,6 euro al giorno. Lo Stato, nel 2013, spenderà dunque 909 milioni di euro, quasi un miliardo l’anno. Ma quanto risparmierebbe se desse seguito agli accordi di rimpatrio? Per saperlo bisogna moltiplicare quel costo unitario per i 12.509 detenuti stranieri che scontano una condanna già definitiva, i soli sui quali può ricadere l’ipotesi di un trasferimento. Il costo reale del mancato rimpatrio, o se si vuole il conto del risparmio virtuale, arriva dunque a 568 milioni di euro l’anno, un milione e mezzo al giorno.  Un bella cifra nel conto dello Stato che potrebbe essere destinata a costruire nuove strutture, ammodernare quelle esistenti, incentivare forme di rieducazione e reinserimento. Per contro, i detenuti italiani all’estero non superano le tremila unità. Una differenza che rende evidente quanto il saldo degli “scambi” sarebbe a favore dellItalia (e degli italiani). “Non si possono fare deportazioni di massa”, ammoniscono gli esperti di procedura penale, mettendo in guardia da operazioni di macelleria detentiva.
Ma a chi oppone a ogni ragionamento questioni di ordine etico-morale va ricordato che dal 2002 nessuno ha sbarrato la strada ai voli di Stato per il rimpatrio dei clandestini che la Bossi-Fini ha reso – almeno per le modalità operative – del tutto simili alla deportazione coatta, per di più espulsi non per aver commesso un reato penale ma amministrativo (l’ingresso in Italia senza permesso di soggiorno o contratto di lavoro a supporto del reddito). Idem per il reato di clandestinità introdotto nel 2009 col decreto sicurezza. Ci sono poi ragionevoli argomenti per ritenere che in quel terzo di popolazione carceraria composta da stranieri ci possa essere chi preferirebbe – vista anche la condizione dei penitenziari nostrani – ricongiungersi ai propri parenti e scontare la pena nel proprio Paese. Peccato che non succeda mai, salvo rarissimi casi. A 24 anni dalla convenzione di Strasburgo gli accordi sul trasferimento sono rimasti lettera morta, con buona pace del tempo e delle risorse che l’Italia ha dedicato per dibattiti parlamentari, mandati esplorativi di funzionari della giustizia, riunioni e servizi d’ambasciata da una capo all’altro del mondo. 
Il paradosso degli accordi all’italiana Il paradosso è che incentivare lo scambio e la detenzione all’estero non sarebbe una politica di destra o di sinistra ma di buona amministrazione, per di più ancorata e supportata nella sua applicazione da convenzioni e accordi. Con alcune bizzarrie e illogicità di fondo, però. L’Italia, si è detto, ha aderito alla convenzione di Strasburgo dell’83 insieme a 60 Paesi (gli ultimi sono la Russia e il Messico nel 2007). Ha poi stretto accordi bilaterali con altri sette che erano rimasti  fuori dalla convenzione. Ma – attenzione – non con quelli che più pesano sul conto delle carceri. Ricapitolandoli: nel 1998 abbiamo firmato un accordo con l’Avana quando i detenuti cubani sono una cinquantina e poco più, nel 1999 con Hong Kong a fronte di popolazione carceraria prossima allo zero, nel 1984 con Bangkok (ancora oggi si contano due soli detenuti thailandesi). Mancano all’appello, per contro, proprio i Paesi che per nazionalità affollano maggiormente le nostre celle: il Marocco, su tutti, visto che con 4.249 detenuti occupa il secondo posto nella classificazione delle presenze straniere (18,7%). LRomania che occupa il secondo con 3.674 detenuti (16,1%). La Tunisia, al terzo posto, con 2.774 (12,2%). Altri sono pronti da vent’anni, ma per l’inerzia del Parlamento restano lettera morta. Emblematico il caso del Brasile, dove l’accordo è firmato e manca solo il passaggio in aula. Siamo riusciti invece ad accordarci con l’Albania (2.787 detenuti, 12%). Quando è stato sottoscritto, nel 2002, nelle carceri italiane c’erano 2.700 detenuti albanesi, di cui 960 condannati in via definitiva. Trecento dovevano scontare una pena residuale superiore ai tre anni e sarebbero stati i primi a lasciare l’Italia per scontare la pena nelle patrie galere. Un modello che doveva essere, secondo il Guardasigilli di allora Roberto Castelli, esportato in Marocco, Algeria e Tunisia. Cosa mai avvenuta, a distanza di un decennio. Ma quanti albanesi sono stati  poi trasferiti? Impossibile saperlo, come per tutti gli altri detenuti stranieri in Italia.  
Il mistero sui numeri: “Non abbiamo il sistema informatico” I trasferimenti autorizzati  sulla base di quegli accordi sono irrilevanti al punto che non vengono neppure monitorati a fini statistici. Sapere quanti siano è un’impresa impossibile. Le interrogazioni parlamentari sulla questione non hanno mai avuto risposta e anche per le fonti giornalistiche la strada porta dritto a un muro di gomma che fa rimbalzare da un ministero all’altro. Dovrebbe averli il ministero degli Interni ma non è così. “Sono numeri molto modesti a fronte di procedure complesse, per questo non sono sottoposti a monitoraggio statistico e vanno a finire nelle diciture “altro” degli annali giudiziari”, premettono imbarazzati i funzionari del Viminale. “Il detenuto fa domanda al direttore del carcere che la gira al magistrato di sorveglianza che fornisce il suo giudizio e lo trasmette al ministero. Dovrebbero però averli al ministero di Grazia e Giustizia che amministra le pene”. Ma si bussa lì senza maggior fortuna. Il direttore dell’ufficio Affari penali Antonietta Ciriaco fa sapere che il suo ministero non ha neppure il sistema informatico necessario a estrapolarli quei dati, che non si tratta di estradizioni, per cui “una volta che c’è l’accordo internazionale e una sentenza favorevole della Corte d’Appello al trasferimento, è materia del Dap”. Ma anche al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria cadono dalle nuove. “Noi abbiamo solo dati rispetto a detenzione e scarcerazione, questa storia di chi ha i dati sui trasferimenti va avanti da anni e alla fine le richieste arrivano sempre qui, ma noi non li abbiamo. Avete provato al ministero degli Interni?”. E si ricomincia.
Il saldo delle carceri: 20mila restano, 200 (forse) vanno
Qualche barlume, alla fine, illumina almeno il passato. A margine di uno dei tanti trattati bilaterali il ministero degli Interni nel 2008 fornì, con parsimonia, qualche cifra: nel 2005 il trasferimento delle persone straniere condannate è stato pari a 216, 46 nel 2006, 111 nel 2007 e 87 nel 2008. Si presume che da allora le cose non siano cambiate e che a prendere la frontiera per la carcerazione all’estero siano grosso modo un centinaio di detenuti all’anno. Numeri che rendono bene l’idea di come siano stati tradotti nel nostro Paese la convenzione di Strasburgo e tutta la congerie di accordi bilaterali che negli ultimi vent’anni sono stati annunciati, sottoscritti e celebrati in pompa magna tra convegni, delegazioni e voti in Parlamento.
Alla fine del giro tocca chiedersi anche se la resistenza a fornire dati sul trasferimento – insieme al disinteresse per tracciarli, recuperarli e renderli pubblici – sia del tutto casuale, il frutto accidentale della sovrapposizione di competenze e burocrazie, o se sotto ci sia altro. Il sospetto è che non vengano divulgati perché la loro stessa inconsistenza sarebbe fonte d’imbarazzo per le istituzioni italianeRivela come per vent’anni lo stesso ceto politico che alzava la voce sull’emergenza carceri non è stato capace di utilizzare lo strumento del rimpatrio per alleggerirle. Ancora oggi, del resto, sembra baloccarsi con fantomatici “piani carceri” per i quali non riesce a reperire le risorse e alla fine – messo con le spalle al muro dalla condizione ipertrofica delle celle – si affida all’unico “svuotacarceri” che non comporta costi diretti: un atto di clemenza che consenta alla politica di non fare i conti con la propria storica inerzia. E poco importa se amnistia e indulto alimentano il senso di ingiustizia tra i cittadini incensurati.

domenica 27 ottobre 2013

Condono fiscale, buco da 3,5 miliardi tenuto nascosto per undici anni. - Marco Palombi

Condono fiscale, buco da 3,5 miliardi tenuto nascosto per undici anni


Il provvedimento ideato da Tremonti e Berlusconi del 2002 doveva portare 5,2 miliardi. La Corte dei Conti scopre che ne sono arrivati solo 1,8. Ora il governo, per coprire la voragine nei bilanci pubblici, vuole tornare dagli evasori che non hanno mai versato il dovuto per battere cassa.

Vi ricordate il condono fiscale tombale del 2002 di Berlusconi e Tremonti? Ebbene, è ancora vivo e lotta insieme a noi: è tanto vero che – a undici anni dall’approvazione – si scopre che i “condonati” hanno pensato bene di non pagare tutto il dovuto (anche se, ora, potrebbero avere una brutta sorpresa). Secondo un documento della Corte dei Conti – richiesto dal presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, mentre si lavorava sull’ultimo Documento di economia e finanza – al 10 settembre di quest’anno mancano all’appello la bellezza di tre miliardi e mezzo di euro circa.
Secondo la magistratura contabile, il gettito complessivo per sanare definitivamente ogni irregolarità sull'IrpefIrpeg, addizionali regionali, Ilor e quant’altro al dicembre 2002 doveva essere complessivamente di 26 miliardi: non si tratta di una previsione, ma del calcolo di quanto dovuto da chi ha aderito al condono ricevendo in cambio benefici come un sostanzioso sconto sulle tasse non pagate e la cancellazione di eventuali reati fiscali. Peccato che poi parecchi abbiano deciso di non pagare tutto, cioè di evadere sull’evaso. D’altronde la legge pareva scritta apposta per farlo: il condono, infatti, si considerava completato dopo aver pagato la prima rata. Di più: a chi sceglieva di rateizzare non si chiedeva alcuna fideiussione sul rimanente debito con l’erario.
Risultato: se uno dopo la prima rata non pagava più, partiva la solita catena per la riscossione coatta tra Agenzia delle Entrate ed Equitalia; il tizio però nel frattempo non poteva essere accusato per i reati eventualmente commessi né gli si potevano applicare le multe cancellate dal condono.
La cosa venne fuori nel novembre 2008: su 26 miliardi ne abbiamo riscossi meno di 21, mise a verbale la Corte dei Conti. Per la precisione mancano all’appello 5,2 miliardi, il 16,2 per cento del totale al netto di sanzioni e interessi. Il governo, che poi era lo stesso che aveva fatto il condono, reagì sgomento: impossibile, inaudito, adesso ci pensiamo noi, gli espropriamo tutto. Siamo alla manovra del 2010, quando la commissione Ue comincia a spingere per l’austerità. Lì Tremonti si gioca il tutto per tutto: entro ottobre del 2011 l’Agenzia delle Entrate deve “effettuare una ricognizione” dei contribuenti che non abbiano ancora provveduto ai pagamenti e avviare nei trenta giorni successivi le procedure di riscossione coatta.
Bene così, problema risolto. O quasi: nell’estate 2011 Tremonti prorogò il termine al 31 dicembre 2012 e poi, tanto per stare tranquilli, Monti decise di fissarlo alla fine del 2013. D’altronde mica è una cosa così facile capire chi ha pagato e chi no: il condono del 2002 in qualche caso – almeno 34 mila contribuenti – fu addirittura anonimo, modello “scudo fiscale”. Alla fine, insomma, in sei anni si è riusciti a recuperare 1,8 miliardi (comprensivi, peraltro, di sanzioni e interessi per i ritardi sulle rate). E i benefici del condono? Sono ancora là.
E qui veniamo all’oggi. Quei tre miliardi e mezzo che mancano all’appello sono tornati d’attualità mentre gli uffici del Tesoro e le commissioni parlamentari consumavano gli occhi per far tornare i conti del Def: conti, sia detto per inciso, che per il 2013 tornano solo perché finora agli atti risulta che dovremo pagare la rata dell’Imu di dicembre per complessivi 2,4 miliardi di euro. In quei giorni, come detto, Francesco Boccia chiese alla Corte dei Conti notizie sull’annosa vicenda del condono tombale del 2002 scoprendo quei 3,4 miliardi dimenticati: “Adesso le proroghe sono finite – spiega al Fatto Quotidiano il deputato del Pd – e dobbiamo fare di tutto, già nella legge di stabilità, per recuperare i soldi: la prima cosa è prevedere che chi non è in regola coi pagamenti perde subito i benefici del condono, poi studieremo se applicare penalizzazioni accessorie”.
In sostanza, chi non ha pagato le rate dopo la prima potrebbe non solo trovarsi a dover sborsare tutte le tasse dovute senza alcuno sconto (anche cinque volte più di quanto pattuito a suo tempo), ma pure finire sotto la lente della magistratura per eventuali reati fiscali. Si vedrà, ma va detto che i precedenti non lasciano ben sperare: come ha rivelato l’Agenzia delle Entrate nel 2005, in sessant’anni di condoni solo quelli del 1989 e del 1992 hanno rispettato le previsioni di gettito.

venerdì 25 ottobre 2013

Reddito garantito: 1.300 euro al mese in Danimarca, 460 in Francia. La mappa. - Marco Quarantelli

Londra


Mentre in Italia giacciono in Parlamento proposte di legge mai discusse, nel resto d'Europa sono in vigore forme di sostegno e sussidi non destinati solo ai disoccupati. Dal modello scandinavo all'esperimento francese, ecco come funzionano e quanto valgono. Ma il primato va all'Alaska (grazie al petrolio). In Brasile povertà dimezzata con il piano di Lula.

L’ultima ad entrare nel club è stata l’Ungheria, nel 2009. Tutti gli altri paesi dell’Europa a 28 (tranne Italia e Grecia) hanno adottato da tempo forme di reddito minimo garantito per consentire ai loro cittadini più deboli di vivere una vita dignitosa, così come l’Europa chiede fin dal 1992. Strumento pensato per alleviare la condizione di insicurezza di chi vive al di sotto della soglia di povertà, in caso di perdita del lavoro il reddito minimo scatta quando è scaduta l’indennità di disoccupazione (che in Italia è l’ultima tutela disponibile) e il disoccupato non ha ancora trovato un nuovo impiego. Ma nell’Ue ne beneficia anche chi non riesce a riemergere dallo stato di bisogno nonostante abbia un lavoro. Negli ultimi anni la tendenza generalizzata, secondo il rapporto The role of minimum income for social inclusion in the European Union 2007-2010 stilato dal Direttorato generale per le politiche interne del Parlamento Ue, è stata quella di razionalizzare i vari sistemi, cercando di legare più che in passato il sostegno a misure per rafforzare il mercato del lavoro in modo da creare occupazione e ridurre il numero dei beneficiari. Ma il reddito minimo continua ad assolvere alla sua funzione: quella di ultimo baluardo garantito dagli Stati contro l’indigenza.
DANIMARCA - Il modello scandinavo. Informato ai principi dell’universalismo, il sistema danese è tra i più avanzati del continente ed è basato su un pilastro principale: il Kontanthjælp, l’assistenza sociale. Il sussidio è tra i più ricchi: la base per un singolo over 25 è di 1.325 euro (escluso l’aiuto per l’affitto, che viene elargito a parte), che arrivano a 1.760 per chi ha figli. I beneficiari che non hanno inabilità al lavoro sono obbligati a cercare attivamente un’occupazione e ad accettare offerte appropriate al loro curriculum, pena la sospensione del diritto. A differenza della maggior parte degli altri paesi, il sussidio è tassabile. E se ci si assenta dal lavoro senza giustificati motivi, viene ridotto in base alle ore di assenza. Fino al febbraio 2012, poi, esisteva lo Starthjælp, letteralmente “l’indennità di avviamento ad una vita autonoma”, il cui contributo minimo era di 853 euro: il beneficio è stato abolito in un tentativo di riorganizzazione e razionalizzazione del sistema.
GERMANIA – Il modello centroeuropeo. In Germania lo schema di reddito minimo è basato su 3 pilastri: l’Hilfe zum Lebensunterhalt, letteralmente un “aiuto per il sostentamento“, un assegno sociale per i pensionati in condizioni di bisogno (Grundsicherung im Alter) e un sostegno ai disoccupati con ridotte capacità lavorative (Erwerbsminderung). Dal 1° gennaio 2013 il contributo di primo livello (il più alto) è di 382 euro per un singolo senza reddito. Sussidi per l’affitto e il riscaldamento vengono elargiti a parte, come le indennità integrative per i disabili, i genitori soli e le donne in gravidanza. Lo Stato pensa anche alla prole: 289 euro per ogni figlio tra i 14 e i 18 anni, 255 euro tra i 6 e i 14 anni, 224 euro da 0 a 5 anni. La durata è illimitata, con accertamenti ogni 6 mesi sui requisiti dei beneficiari, a patto che chi è abile al lavoro segua programmi di reinserimento e accetti offerte congrue alla sua formazione. Ne hanno diritto i cittadini tedeschi, gli stranieri provenienti da paesi Ue che hanno firmato il Social Security agreement e i rifugiati politici.
REGNO UNITO – Il modello anglosassone. Oltremanica il reddito minimo è garantito da un complesso sistema di sussidi basati sulla “prova dei mezzi”, la misura del reddito dei richiedenti. L’Income Support è uno schema che fornisce aiuto a chi non ha un lavoro full time (16 ore o più a settimana per il richiedente, 24 per il partner) e vive al di sotto della soglia di povertà. Il sostegno ha durata illimitata finché sussistono le condizioni per averlo e varia in base ad età, struttura della famiglia, eventuali disabilità, risorse che i beneficiari hanno a disposizione: chi ha in banca più di 16mila sterline non può accedervi e depositi superiori alle 6mila riducono l’importo del sostegno. Le cifre: i single tra i 16 e i 24 anni percepiscono 56,80 pound a settimana, gli over 24 arrivano a 71,70 (per un totale di circa 300 sterline al mese, pari a 330 euro, contro le 370 del 2007). Un aiuto dello stesso importo garantisce la Jobseeker Allowance, riservata agli iscritti nelle liste di disoccupazione: “Per riceverlo il candidato deve recarsi ogni due settimane in un Jobcenter e dimostrare che sta attivamente cercando lavoro”. Lo Stato aiuta chi ha bisogno anche a pagare l’affitto e garantisce alle famiglie assegni per il mantenimento dei figli.
FRANCIA – Esperimento di reddito modulare. A due diversi tipi di sostegno rivolti ai disoccupati, si è aggiunto nel 1988 il Revenu Minimun d’Insertion, sostituito nel giugno 2009 dal Revenu de Solidarité Active. Ne ha diritto chi risiede nel paese da più di 5 anni, ha più di 25 anni, chi è più giovane ma ha un figlio a carico o 2 anni di lavoro sul curriculum. Un singolo percepisce 460 euro mensili (in aumento dai 441 del 2007), una coppia con 2 figli 966 euro. E il sussidio, che dura 3 mesi e può essere rinnovato, aumenta con l’aumentare della prole. Perché il sostegno non si trasformi in un disincentivo al lavoro, il beneficiario deve dimostrare di cercare attivamente un’occupazione, partecipare a programmi di formazione e l’importo del beneficio è modulare: man mano che cresce il reddito da lavoro, diminuisce il sussidio, ma in questo modo il reddito disponibile aumenta.
BUONE PRATICHE
Belgio. Quello belga è un sistema rigido, ma generoso: 725 euro il contributo mensile per un singolo. Con l’inizio della crisi Bruxelles ha, inoltre, aumentato le tutele, adottando nel luglio 2008 per gli anni 2009-2011 l’Anti-Poverty Plan, un’ulteriore serie di misure per garantire il diritto alla salute, al lavoro, alla casa, all’energia, ai servizi pubblici. Inoltre il Belgio è tra i paesi che, con Germania e Danimarca, consentono di rifiutare un lavoro perché non congruo al proprio livello professionale senza vedersi sospeso il sussidio (idea affine a quella proposta in Italia da M5S e Sel): un meccanismo studiato per contrastare quella fascia di lavori a bassa qualificazione che prolifera in conseguenza dell’obbligo di accettare un impiego per non perdere il sostegno.
 
Irlanda. Anche quello irlandese figura tra i sistemi più generosi: 849 euro il contributo massimo per un singolo. E grazie al Back to Work Allowance nell’isola un disoccupato che intraprende un’attività lavorativa continua ad usufruire dei sussidi per diversi mesi dopo l’avvio del lavoro. Anche se si riprendono gli studi si può richiedere un sostegno al reddito grazie al Back to study Allowance. 

Olanda.
 I Paesi Bassi, invece, oltre ad avere un sistema di manica larga con singoli (617 euro il contributo mensile massimo) e famiglie (1.234 euro, sia che si tratti di coppie sposate che di coppie di fatto, con figli e senza) hanno messo a punto il Wik, una misura specifica per gli artisti, studiata per garantire una base economica a chi si dedica alla creazione artistica.
 
RISULTATI. Secondo uno studio commissionato dalla Commissione Europea basato sui report nazionali dello Eu Network of National Independent Experts on Social Inclusion, sono rari i casi in cui il reddito minimo “riduce sensibilmente i livelli aggregati di povertà”: “i paesi che meglio riescono ad elevare le condizioni dei loro cittadini più deboli verso la soglia di povertà sono Irlanda, Svezia, Paesi Bassi e Danimarca”. Svolge, invece, un ruolo importante “nel ridurre l’intensità della povertà”. 
 
ESPERIMENTI NEL MONDO: IL REDDITO DI CITTADINANZA IN ALASKA E BRASILE. A differenza del reddito minimo, il reddito di cittadinanza, in inglese basic income, è una forma universalistica di sostegno del reddito garantita dallo Stato a tutti i cittadini maggiorenni a prescindere dai loro averi e dalla loro disponibilità a lavorare. Secondo la Global Basic Income Foundation, l’unico paese al mondo in cui esiste un reddito di cittadinanza è l’Alaska. Dal 1982 l’Alaska Permanent Fund, nel quale confluisce almeno il 25% dei proventi dei giacimenti di petrolio e gas dello Stato, garantisce un dividendo a tutti i cittadini residenti da almeno un anno. L’importo varia in base a proventi annui del settore minerario: nel 2011 è stato di 1.174 dollari, nel 2008 aveva toccato i 2.100. E si tratta di un sostegno individuale, quindi una famiglia composta da 5 persone riceverà 5 sussidi. Il Brasile, invece, si è dotato di un basic income, la Bolsa Familia, con la legge n. 10.835/2004 promulgata dal presidente Lula l’8 gennaio 2004. In base ai dati della Banca Mondiale, in questi anni la percentuale di persone che vivevano sotto la soglia della povertà (fissata nelle parti più ricche del mondo emergente a 4 dollari al giorno) è scesa dal 42.84%, del 2003 al 27.60% del 2011. E, secondo il Ministero per lo Sviluppo Sociale, il budget per il programma sarà portato dai 10,7 miliardi di dollari del 2012 a 12,7 nel 2013.

Legge elettorale, Napolitano convoca maggioranza e governo per la riforma.

Giorgio Napolitano


Il presidente della Repubblica ha ribadito l'importanza di intervenire il prima possibile sulla riforma del testo. All'incontro al Quirinale hanno partecipato oltre ai ministri anche i capigruppo. Lega: "Inaudito". Grillo: "Chiederemo impeachment". Dal Quirinale fanno sapere: "Verranno ascoltati anche i gruppi di opposizione".

“Fate presto”. Sono le parole che Napolitano ha pronunciato davanti ai ministri e ai capigruppo della maggioranza al Senato per “spingerli alla riforma della legge elettorale“. Convocati per un vertice d’urgenza  intorno alle 11 al Quirinale sono stati i ministri Dario Franceschini e Gaetano Quagliariello, insieme ai capigruppo Luigi Zanda del Pd, Renato Schifani del Pdl e Gianluca Susta di Scelta Civica e la presidente della commissione Affari Costituzionali, Anna Finocchiaro. Una scelta che non è per niente piaciuta all’opposizione. “Inaudito”, ha tuonato la Lega. Mentre Beppe Grillo dal palco di Trento ha promesso: “Chiederemo l’impeachment”. Tanto che in serata fonti del Quirinale fanno sapere che Napolitano “si riserva di ascoltare i vari gruppi di opposizione, nelle modalità più opportune”.
Il Capo dello Stato, nell’incontro con gli esponenti della maggioranza,  ha ribadito la necessità di intervenire nel merito della legge elettorale il prima possibile. “Non è ammissibile che il Parlamento naufraghi ancora nelle contrapposizioni e nell’inconcludenza”. La riforma della legge elettorale deve essere fatta, secondo Napolitano, prima del “limite estremo” del 3 dicembre, quando la Consulta si riunirà per valutare l’incostituzionalità del Porcellum. Per allora, è persuaso anche il premier Enrico Letta, almeno una delle Camere dovrà aver votato una nuova legge. E’ in gioco, osserva il capo dello Stato, “la dignità del Parlamento”.
Ma la mossa del presidente della Repubblica ha scatenato la reazione di Lega e Movimento 5 stelle. “Inaudito e inaccettabile“, ha detto Roberto Calderoli, “con il voto di ieri, la Lega ha dimostrato con il 100% delle presenze dei suoi senatori di essere l’unica forza a volere veramente le riforme, ivi compresa quella elettorale ma altrettanto ritengo assolutamente non previsto dalla Costituzione il vertice di maggioranza che di fatto ha convocato oggi il presidente Napolitano al Quirinale. Però non spetta certo al Capo dello Stato convocare vertici di maggioranza soprattutto in relazione a una materia squisitamente parlamentare come la materia elettorale. Il Senato lavorerà per cambiare la legge elettorale per volontà politica e non per indebite pressioni o sotto ricatto del 3 dicembre tenuto conto anche del pronunciamento della Corte europea del marzo del 2012 che ha respinto i ricorsi avversi l’attuale legge elettorale”. Duro anche Beppe Grillo, che ha accusato Napolitano di avere incontrato “Pdl e Pd-l, senza convocare il Movimento 5 Stelle, quindi escludendo 9 milioni di persone”. E mettendo in guardia dal rischio di passare “dal porcellum al napolitanellum”, ha spiegato che il M5S “ha già incaricato i propri avvocati di preparare l’impeachment per il capo dello Stato”. 
In serata dal Quirinale è trapelata la notizia che “Napolitano si riserva di ascoltare i vari gruppi di opposizione, nelle modalità più opportune”. Il pressing del Colle dura da giorni. Con lui il governo. Tanto che il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello lo aveva detto chiaro e tondo, nell’Aula del Senato: di fronte alla “Caporetto” di un nuovo “fallimento” in Parlamento, “credo che il governo, con tutte le cautele, debba intervenire”. Si starebbe infatti pensando, trapela da fonti della maggioranza, non certo a un decreto, quanto a un ddl di iniziativa governativa. E nei prossimi giorni sarebbero previsti degli incontri nell’esecutivo per fare il punto, visto che la prossima settimana viene considerata “decisiva” sul fronte della legge elettorale.

Lampedusa: ma chi se ne frega dei naufraghi?! - Jacopo Fo

Una scelta incivile da parte dei poteri dello Stato che mi appariva un delirio burocratico senza motivo. Una cattiveria stupida. Ora, grazie a una dichiarazione confidenziale, rilasciata da un funzionario che desidera restare anonimo, sono riuscito a scoprire perché lo Stato sceglie di lasciare questi disperati in condizioni bestiali. Si tratta di una questione di ordine pubblico che discende da un ragionamento che ha dell’incredibile: siccome i rifugiati vivono in condizioni orribili si temono reazioni violente, e siccome le tende sono dotate di paletti tubolari di sostegno, si teme che gli extracomunitari organizzino un contingente di falange macedone grazie all’uso dei suddetti paletti come lance.
Ora soprassediamo sul fatto che le moderne tende non hanno più paletti di sostegno ma sottili asticciole flessibili, vorrei che si meditasse per un nano secondo sull’enormità dell’idiotismo contenuto in questo ragionamento. Sapendo che le condizioni di vita inumane possono scatenare violenze non mi preoccupo di rendere migliori le condizioni di vita dei migranti e scongiurare così il pericolo di reazioni violente (dando tende, quantomeno) ma mi preoccupo invece di diminuire la possibilità dei profughi di formare unità combattenti dotate di armi improprie medioevali…Come se nel centro non ci fossero comunque pietre, pali, gambe di tavoli e molto altro con cui volendo si potrebbe scatenare una battaglia tecnologicamente primitiva.
Detto questo vorrei osservare il fatto che i media sono veramente un’organizzazione per seppellire le notizie essenziali. Dopo le lacrime artificiali in occasione del massacro che si è consumato nel Mediterraneo, se ne sono fottuti di quel che è successo e sta succedendo agli scampati. Irrilevante è apparsa la follia di negare un’ospitalità decente, non interessante l’assurdo del rifiuto di accettare tende persino dal Papa…Dietro a questo comportamento non ci sono solo un cinismo e una mancanza di generosità vomitevoli. C’è anche la non comprensione del fatto che questa logica sado-burocratica è tra le prime ragioni della crisi economica italiana e è alla radice del potere della casta che possiede la bacchetta magica per salvare gli “amici” dalla piovra burocratica ed è il burosadismo l’elemento che più spaventa gli investitori stranieri, che ben sanno che la burocrazia rende la libertà di impresa nel nostro paese condizionata dalla corruzione.
Ma i media italiani sono in buona compagnia: nelle richieste dei sindacati la lotta alla burocrazia sta all’ultimo posto, così come nei programmi di Pd, Sel e M5 Stelle. Nell’incazzatura della gente invece la burocrazia sta ai primi posti. Ma poi nei cortei questa questione scivola in fondo alla hit parade. Comunque un segnale positivo c’è. Per due anni in cima alle rivendicazioni dei progressisti c’era la patrimoniale, mitico provvedimento capace di risolvere tutti i problemi. Obiettivo che condivido, che può rastrellare denaro per interventi urgenti, ma che non va a incidere sulla competitività italiana, gli investimenti stranieri e l’occupazione. Nelle ultime due settimane è esplosa la visibilità di un altro obiettivo: il taglio degli sprechi. E già è un passo avanti perché significa aver compreso che lo spreco e l’inefficienza sono intimamente legati alla corruzione. Una torta che vale 60 miliardi di euro all’anno. Cioè una quantità di denaro enormemente superiore da quella che si potrebbe ottenere con la più violenta delle patrimoniali e il doppio di quel che ci servirebbe per sanare i conti e dare ai disperati un salario d’emergenza.
Vedrete che prima o poi l’idea che la burocrazia sia una mostruosa tassa nascosta e che toglierla farebbe volare l’economia, si farà strada. Forse nel 2017. (In Francia e in Germania, e in molti altri paesi civili, i permessi di tutti i tipi, compresi quelli edilizi, vengono dati in 30 giorni. O ti dicono di sì o ti dicono di no…Poi se vai di un millimetro fuori da quel che hai diritto, ti spianano con la ruspa e ti mettono in galera! E non ci sono indulti, amnistie, cavilli, che tengano. Prova a immaginare una cosa così in Italia. Prova solo a immaginarla.)
Ps. Apprendo ora che un mio conoscente, che aveva costruito con dedizione un’azienda innovativa nel settore delle case ecologiche, è fallito miseramente nonostante l’alta qualità dei suoi manufatti, perché non gli sono stati pagati dallo Stato lavori per 3 milioni di euro realizzati a L’Aquila. Avrebbe potuto ottenere l’anticipo del credito dalle banche ma è caduto in un vortice di cavilli burocratici e controcavilli. Poi è stato investito da un cavallo burocratico che l’ha schiacciato definitivamente. Onore agli imprenditori caduti per mano della Mafia Burocratica.
E adesso una buona notizia. Aria nuova a Messina. Renato Accorinti, nuovo sindaco espresso dalla società civile, racconta in una conferenza stampa i primi 100 giorni della nuova amministrazione. Grandioso quel che dice e il suo spirito. Finalmente si vede che un’altra politica è possibile. La ripresa è un po’ carente ma quel che dice vale la pena. Una pillola di ottimismo. Ricordo che la vittoria elettorale di Messina nasce da un associazionismo anomalo per la sua concretezza. Nel 2007 a Messina capirono le possibilità offerte dal conto energia, organizzarono un consorzio di associazioni e cooperative sociali di Messina e di Reggio Calabria, si fecero affidare tetti pubblici e costruirono un grande impianto fotovoltaico diffuso che oggi dà mensilmente denaro per le attività solidali. Perché la gran parte delle associazioni e cooperative sociali che avrebbero potuto imitare la loro azione non lo hanno fatto? C’è uno scatto di mentalità tra questi compagni e la maggioranza del movimento progressista italiano, ancora fermo a forme di azione politica e sociale poco efficaci. 

Diffondiamo la verità.



La Repubblica accusa lo staff legale del gruppo consiliare M5S LAZIO di un presunto conflitto d'interesse. BALLE!Vogliono solo nascondere questa nostra denuncia gravissima: http://goo.gl/Q2TVQt

"Il 18 ottobre l’edizione romana di Repubblica ha pubblicato un articolo in cui si accusa lo staff legale del gruppo consiliare M5S LAZIO di un presunto conflitto d’interesse perché, secondo il consigliere Vincenzi e l’autore del testo, i nostri avvocati sarebbero dipendenti del consiglio regionale e non potrebbero presentare esposti contro l’istituzione per cui lavorano.

In un mondo normale il giornalista si informerebbe prima di scrivere e vedrebbe che i contratti sono firmati con il gruppo consiliare e non con il consiglio regionale del Lazio e capirebbe che parlare di conflitto d’interesse non ha senso. 

Tutto questo perché il nostro staff legale ha presentato un paio di esposti alla Corte dei Conti ed al Tar in cui si denunciano le violazioni sistematiche di norme di legge sulle molteplici assunzioni di dirigenti, consulenti esterni e collaboratori della giunta Zingaretti. 

Questi attacchi ci lusingano perché sintomo del nostro aver centrato il bersaglio. Avanti così!" M5S Lazio

Diffondete la verità!

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