martedì 14 gennaio 2014

Sicilia, Arsea ente inutile che mangia soldi senza mai essere entrato in attività. - Giuseppe Pipitone

Sicilia, Arsea ente inutile che mangia soldi senza mai essere entrato in attività


La società della Regione Siciliana, che avrebbe dovuto occuparsi di smistare agli agricoltori isolani i finanziamenti dell’Ue, ha due sedi che costano mezzo milione di euro ogni dodici mesi, due dirigenti e un direttore generale ricompensato con ben 170 mila euro all'anno. Crocetta aveva annunciato lo scioglimento dell'ente diretta televisiva. E invece nella finanziaria regionale, attualmente in discussione sono previsti duecentomila euro di contributo.

“Ho già tagliato tredici società inutili. Alla prossima finanziaria chiuderà anche l’Arsea”. Era il 18 novembre 2012 e l’annuncio arrivava dal presidente della Sicilia durante la trasmissione l’Arena. L’Arsea non è mai stata attivata, tutti la vorrebbero chiudere, ma nessuno alla fine ci riesce. Se in tutto il Paese gli enti inutili si sprecano, mai era successo che un carrozzone mangiasoldi riuscisse ad avere più vite di un gatto.
In Sicilia succede invece che nonostante i molteplici annunci di chiusura, provenienti da governi di diverso colore politico, un ente inutile continui comunque a sopravvivere senza che nessuno batta ciglio. È di questa società della Regione Siciliana che avrebbe dovuto occuparsi di smistare agli agricoltori isolani i finanziamenti dell’Unione Europea. Il condizionale infatti è d’obbligo, dato che dalla sua fondazione, ovvero nel 2006, l’Arsea non è mai entrata in funzione. “È uno scandalo” era il commento dell’assessore all’agricoltura Dario Cartabellotta, che nell’inverno scorso aveva assicurato l’immediata chiusura dell’inutile carrozzone. Della stessa opinione anche il governatore Rosario Crocetta, che aveva annunciato lo scioglimento dell’ente anche in diretta televisiva. E invece nella finanziaria regionale, attualmente in discussione a Palazzo dei Normanni, il fantasma dell’Arsea è ricomparso: duecentomila euro di contributo deciso dal governo Crocetta, lo stesso che fino a pochi mesi fa assicurava gli elettori di aver già staccato la spina all’ente inutile.
“Non abbiamo voluto chiudere la porta in faccia a quel mondo contadino, inclusi i forconi, che ci chiedeva di non chiudere l’ente” si è giustificato il governatore Crocetta, che ha spiegato come il contributo pubblico debba servire “per una possibile start up: la nostra idea è quella di utilizzare risorse interne e poter contare su finanziamenti statali. Se ciò non avverrà, siamo pronti a chiudere l’ente”. Voluta da Salvatore Cuffaro nell’ormai lontano 2006, l’Arsea ha trascorso gli ultimi otto anni in completa inattività, nonostante il contributo regionale medio di circa ottocentomila euro all’anno e le due sedi di Palermo e Catania che costano mezzo milione di euro ogni dodici mesi. In pianta organica due dirigenti , che percepiscono un regolare stipendio, più un direttore generale ricompensato con ben 170 mila euro all’anno.
La situazione non cambia nemmeno quando la poltrona di governatore passa a Raffaele Lombardo. È proprio l’ex presidente il primo a ventilare l’ipotesi di smobilitare l’Arsea. Prima di dimettersi però fa in tempo a nominare un nuovo direttore generale di suo gradimento: Claudio Raciti, consulente delle imprese agricole della famiglia Lombardo e militante del Movimento per l’Autonomia. Con l’arrivo di Crocetta al vertice di Palazzo d’Orleans la musica e i fatti non cambiano: tutti dicono di voler chiudere l’Arsea, nessuno lo farà mai. Ma anzi i fondi pubblici, seppur limitati, continueranno a mantenere in vita quel carrozzone che in otto anni non è mai entrato in attività.

lunedì 13 gennaio 2014

Eric Clapton - Badge (Live Video Version-One More Car)

Eric Clapton - Cocaine (Live Video Version)

Eric Clapton - Bell Bottom Blues (Live Video Version)

Eric Clapton - My Father's Eyes (Live Video Version)

Ovvietà.



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Centrale Enel di Porto Tolle, “il danno economico da risarcire è 3,6 miliardi”. - Thomas Mackinson

Centrale Enel di Porto Tolle, “il danno economico da risarcire è 3,6 miliardi”


Una perizia dell'Ispra depositata nel processo "Enel bis" a Rovigo per la prima volta calcola i costi della mortalità e dei danni ambientali per le emissioni in eccesso prodotte dall'impianto termoelettrico a olio. La quantificazione del danno potrebbe costituire un precedente anche rispetto ad altri casi, da Vado Ligure a Brindisi. "Chi inquina paga", esultano gli ambientalisti, ma per i legali della società si tratta di una stima "abnorme".

Un risarcimento da 3,6 miliardi per danno ambientale e sanitario. Questa la cifra che i periti dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) hanno quantificato, per la prima volta, rispetto all’impatto economico per lo Stato della centrale di Porto Tolle, in provincia di Rovigo: 2,6 miliardi di danni sanitari, essenzialmente per la mortalità in eccesso, più un miliardo per omessa ambientalizzazione. Centrale gestita da Enel, colosso energetico italiano e seconda utility quotata in Europa, a processo per disastro ambientale. A chiedere la perizia, firmata da Leonardo Arru su incarico dell’avvocatura di Stato, i ministeri di Ambiente e Salute, parte civile nel procedimento – denominato ‘Enel bis’ – insieme alle associazioni.
Una notizia che non piace (quasi) a nessuno, tanto che a parlarne è solo la stampa locale. Non piace a Enel che a fine dicembre aveva esultato per una riduzione dell’indebitamento da 42 a 40 miliardi ora virtualmente gravato dal rischio di future, pesantissime, passività. Non piace al governo che tramite il Tesoro (31,2%) è il primo azionista di riferimento e carezzava da tempo l’idea di vendere quote per fare cassa. E ora si trova in mezzo a una surreale disputa tra ministeri in cui lo Stato fa causa a se stesso. Sarà poi pane per le agenzie di rating che da mesi incrociano un balletto di svalutazioni e rivalutazioni su titolo e prospettive della seconda società italiana per capitalizzazione di Borsa
La perizia è di fine novembre 2013 ma è rimasta confinata nell’ambito del procedimento che si tiene al tribunale di Rovigo per disastro ambientale che è prossimo alla conclusione (la sentenza è prevista per marzo 2014). Eppure potrebbe – secondo il legale di parte civile Matteo Ceruti – diventare un precedente per una serie di situazioni pendenti ad altissimo impatto ambientale oggetto d’indagine o di processi di riconversione: dalla Tirreno Power (ex Enel oggi gruppo De Benedetti) di Vado Ligure (Savona), per la quale la locale procura indaga per gli stessi capi di imputazione, passando per le centrali di Brindisi (Enel), Monfalcone in provincia di Gorizia (A2a), Torre Valdaliga Nord a Civitavecchia (Enel).
Non a caso associazioni ambientaliste che si sono costituite nel processo, come Greenpeace, ritengono la perizia un significativo passo avanti non solo per l’entità dell’importo risarcitorio richiesto ma perché mette in chiaro il principio per cui ‘chi inquina paga’. Il conto arriva sul Delta del Po per cause di ordine storico, industriale e perfino politico. La centrale costruita negli anni Ottanta a pieno regime emetteva più anidride solforosa (SO2 ) di qualunque altro impianto fisso in Italia. Ancora nel 2002 si stima sprigionasse da sola il 10% di tutte le emissioni di SO2 imputabili a qualsiasi altra fonte sul territorio nazionale. Per i reati ambientali connessi al funzionamento della centrale, la responsabilità dei direttori dell’impianto e degli amministratori delegati di Enel spa dell’epoca, Paolo Scaroni e Franco Tatò, è stata definitivamente accertata in Cassazione nel 2011 ma i reati erano ormai prescritti: restavano le conseguenze patrimoniali che la corte d’appello di Venezia sta quantificando. 
Ulteriori indagini e perizie hanno poi permesso di accertare il nesso causale tra le emissioni e le conseguenze di ordine ambientale e sanitario sulla popolazione, in particolare sui bambini. Così è partito il processo “Enel bis” che vede oggi imputati una decina di dirigenti Enel che si sono avvicendati tra il 1998 e il 2009. Secondo la procura di Rovigo, che procede per disastro doloso, avrebbero trascurato l’installazione di impianti che avrebbero consentito di tutelare la salute dei residenti e del territorio provocando un significativo aumento dei ricoveri ospedalieri per malattie respiratorie della popolazione infantile. A comparire davanti al collegio saranno anche l’attuale amministratore delegato Fulvio Conti e i suoi predecessori. E’ in questo procedimento che il ministero dell’Ambiente, parte civile insieme a quello della Salute, tramite l’avvocatura dello Stato distrettuale di Venezia, ha chiesto di valutare anche i danni economici per lo Stato. Danni per l’appunto quantificati in 3,6 miliardi. Ecco il documento.
“Un anno di vita perso vale 40mila euro” - Gli enti locali a corto di soldi stanno uscendo dal processo penale in cambio di noccioline: 130mila euro a testa per cinque Comuni emiliani, più 500mila euro per il Parco regionale del Delta del Po. In tutto 1,1 milioni di euro. Di ancor meno si accontentano gli enti locali veneti (fuorché la Provincia di Rovigo e i Comune di Rosolina e Porto Tolle che sono rimasti come parti civili). Risarcimenti a fronte dei quali le parti si impegnano, tra l’altro, a rinunciare a eventuali pretese o azioni giudiziarie future connesse al funzionamento della centrale sino al 2009. E a questo punto tocca vedere se lo Stato, invece, venderà cara la pelle.
La perizia si rifà ai metodi di calcolo individuati in sede europea in materia di quantificazione del danno sanitario nel programma Cafe  (The Clean Air for Europe Programme) partito nel 2001 e adottato nel 2005. “Valore di anno di vita perso” (Voly) nel quale ogni anno “perduto” per morte prematura è quotato circa 40mila euro e valore statistico di vita (Vls), che quota ogni morte prematura per inquinamento dell’aria circa 2 milioni. Il primo, usato da Ispra, produce stime del costo più basse, poiché ogni morte prematura da inquinamento da polveri sottili corrisponde a circa 10 anni di vita persi. 
“Una valutazione cautelativa”: come viene calcolato il danno Il tecnico che ha firmato la perizia ha portato in aula i calcoli fatti per il periodo 1998-2009, riguardo alla diffusione di biossido di Zolfo (SO2) sulla base delle emissioni dichiarate da Enel al registro internazionale delle emissioni. La stima monetaria è stata fatta utilizzando la metodologia elaborata dall’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) e – avverte il perito – “con un orientamento cautelativo” (leggi nel box). Non quantifica, tra l’altro, taluni tipi di impatti come i danni all’ecosistema da acidificazione e deposito di ozono o quelli agli edifici e al patrimonio culturale. Ma si avvicina molto al danno presunto, anche perché alternativa non c’è visto che “non si può stabilire generalmente il danno ritenendolo linearmente proporzionale ai carichi di inquinamento”. Si può, invece, circoscrivere l’addendum di emissioni in eccesso che qualificano e quantificano il peggioramento del profilo emissivo, e moltiplicarlo per unità di costo-vita, laddove esistano indici di mortalità correlabili. Ebbene secondo il perito del ministero dal ’98 al 2009 ci sarebbero 2,6 miliardi di euro di danni connessi al rilascio di 418mila tonnellate di SO2 in eccesso rispetto a quelli rilasciati qualora la centrale avesse operato in un ipotetico regime a gas metano, come imponeva di fare la legge regionale veneta del 1997 istitutiva del Parco del Delta del Po. Ciascuna tonnellata viene moltiplicata per diversi coefficienti individuati in sede europea.
La difesa di Enel: “Cifra abnorme e analisi infondata” – Enel, dalla sua, ha già contestato queste cifre come “abnormi”, ritenendo del tutto “infondata” l’analisi dell’Ispra. In particolare, secondo la difesa del colosso energetico, il consulente ha preso a riferimento unicamente le emissioni della centrale senza dare alcuna importanza ai rilevamenti delle cadute a terra di altri inquinanti. Inoltre, secondo i legali Enel, ha considerato come emissioni in eccesso tutte quelle superiori a quelle previste dal decreto ministeriale del 1990 che prevedeva, invece, specifiche deroghe normative per Porto Tolle che la centrale ha rispettato. Ma chi le ha messe quelle deroghe? La politica che sulla vicenda non ha mai mollato la presa. Non solo facendo generose concessioni normative sui limiti di emissioni, ma arrivando a tentare di condizionare l’attività di indagine della procura. 
Il trucco per sforare le prescrizioni era già nel  decreto ministeriale 12 luglio del 1990, fondamentale in materiale di emissioni e attuativo del Pdr 203/1988: stabiliva i valori e limiti degli impianti esistenti in conformità con quelli europei. Il decreto ha permesso però ad Enel di adeguarsi con interventi scaglionati nel tempo entro il 2002. Porto Tolle, la centrale più inquinante e più costosa da riconvertire, è stata tenuta per ultima senza introdurre tecnologie di prevenzione - in particolare desolforatori e denitrificatori – che Enel adottava altrove. Alla fine, ricostruisce la perizia, “la centrale di Polesine Camerini risulta l’unica di proprietà di Enel non ambientalizzata”.  Il 23 dicembre 2002 il decreto legge n. 281 concede l’ennesina deroga. Il pretesto, allora, era la fragilità del quadro elettrico nazionale. E l’anno dopo ancora una deroga, col decreto legge 25/2003, alle prescrizioni fissate ormai nel 1990, 13 anni prima.
Deroga e dilazioni: 20 anni di politica sotto il traliccioLa politica e le emissioni, la politica e il colosso nazionale dell’energia. Un rapporto sempre stretto che si fa strettissimo quando serve. La centrale di Porto Tolle doveva essere “ambientalizzata”, cioè ricondotta a tetti di emissione imposti dall’Europa e vigenti per il resto del Paese, fin dal 1990. E invece fino a oggi ha mantenuto impianti di combustione a olio con tecnologia da anni Sessanta. Come è stato possibile? Con l’aiuto della politica che ha sempre trovato, a livello centrale e locale, le giuste deroghe e scappatoie per evitare a Enel un intervento di adeguamento oneroso.  Il primo processo penale, quello che ha visto riconoscere la responsabilità degli amministratori dell’epoca per i reati ambientali, ha accertato poi che nonostante le deroghe per l’ambientalizzazione Porto Tolle è stata tenuta scientemente per ultima con ulteriore danno per l’ambiente. Da qui le condanne. Avanti dieci anni, si parla di riconversione ma non a metano, bensì a carbone. Costerebbe a Enel 2,7 miliardi ma il punto è che non porterebbe mirabili riduzioni degli inquinanti, anzi. Il progetto tiene banco per anni con le associazioni ambientaliste, operatori turistici e pescatori che si mettono di traverso e riescono, nel 2011, a far annullare dal Consiglio di Stato il decreto di Valutazione di impatto ambientale (Via). I giudici accolgono i rilievi sollevati e riconoscono che non è stata fatta una valutazione alternativa rispetto all’ipotesi del carbone. In particolare sul gas metano, visto che a 10 km dalla centrale c’è il più grande terminale gasifero offshore al mondo (il rigassificatore di Porto Viro, di proprietà dell’emiro del Quatar), realizzato proprio nella prospettiva di alimentare la centrale di Polesine Camerini. Ma i due impianti non saranno mai collegati perché il metano costa più del carbone. Poi il colpo di scena: nell’estate del 2011 prima il parlamento e poi Regione Veneto modificano le leggi, statali e regionali, rendendo non più necessarie valutazioni alternative. Una coincidenza temporale? Forse. Fatto sta che così facendo si consente di porre nel nulla la sentenza del Consiglio di Stato e di agevolare la nuova Via per il progetto a carbone, attualmente in corso presso il Ministero dell’ambiente. Parallelamente la politica trova modo di mettere lo zampino direttamente sulle inchieste. 
 Gli interventi a gamba tesa sui magistrati che indagano 
Luciano Violante (Pd)
Se la politica tenta a frenare i magistrati della Procura di Rovigo. “Diciamo che è un dato di fatto che tutti quelli che hanno la lavorato a questa vicenda hanno avuto qualche problema”, ricorda l’avvocato di parte civile Ceruti. Il riferimento, neanche troppo velato. Il riferimento, neanche troppo velato, è all’avvocato dello Stato Giampaolo Schiesaro, fatto oggetto di pressanti consigli, da parte di un agente dei servizi caduto in disgrazia, di “allentare la presa” sul processo Enel. Ma anche alla richiesta di azione disciplinare nei confronti del pm Manuela Fasolato avanzata dal Pd Luciano Violante e dal ministro Pdl Angelino Alfano. Il filo delle future larghe intese, improvvisamente, si stringeva intorno al collo di chi rischiava di intaccare interessi che non vanno toccati. La storia è nota. E’ il 2010 e il pm sta lavorando a diversi filoni d’inchiesta sulla centrale ipotizzando legami tra le emissioni e l’aumento dell’incidenza di malattie nei territori circostanti l’impianto. Sulla centrale pende l’iter della Valutazione d’impatto ambientale per il progetto di riconversione che vale, sulla carta, 4mila posti di lavoro e 2 miliardi e mezzo di investimento. Il pm comunica però agli enti interessati, ministero dell’Ambiente e Commissione di Via, le risultanze di alcune perizie che mettono i dubbio la veridicità dei dati del progetto depositato da Enel: un via libera senza una loro verifica avrebbe potuto aggravare il quadro dei reati e comportare ulteriori conseguenze per ambiente e popolazione. Apriti cielo. Cortina Incontra, il 5 gennaio 2010, Violante nella inedita veste di presidente della associazione Italia decide, si espone in prima persona chiedendo un’ispezione. Sarebbero solo parole in libertà, se non fosse per un dettaglio: Enel è tra i soci fondatori di Italia decide. Ma la coincidenza non impedisce al ministro Alfano di prendere in esame le doglianze di Violante e di inviare a Rovigo il capo degli ispettori Arcibaldo Miller (poi coinvolto nell’indagine della cosiddetta P3) con contestazioni varie e fantasiose (come quella di aver lavorato, su autorizzazione dei superiori, al processo Enel mentre era impegnata come commissario nel concorso per gli esami nazionali in magistratura). Fasolato, nel frattempo trasferita alla Procura generale presso la Corte d’Appello di Brescia, ha chiesto ed ottenuto dal CSM di essere applicata a questo processo davanti al Tribunale di Rovigo, ed ancor oggi è ancora lì che non molla. E la centrale dei veleni pure.