martedì 15 dicembre 2015

Leopolda tra disastri e attacchi al Fatto: Renzi non ne indovina una. - Andrea Scanzi

Povero Renzi. Era difficile immaginare un disastro più fragoroso di quello che ha caratterizzato la sesta Leopolda
Al Pacioccone Mannaro non ne è andata bene una. Il caso “salvabanche”, drammaticamente sottovalutato e sempre più inquietante, ora dopo ora, anche per gli enormi conflitti di interesse che lo caratterizzano. 
La decisione di scappare da un incontro all’Università, terrorizzato dalle contestazioni. L’imposizione di una Leopolda blindatissima, con i risparmiatori truffati tenuti a debita distanza come lebbrosi per non sporcare la festa (?), e tutto questo dopo il flop dell’operazione gazebo “Pd coraggio” di una settimana prima.
La Leopolda doveva essere il rilancio della propaganda renziana, tra supercazzole jovanottiane e “visioni” ottimistiche da Smemoranda, ma tutti sono scappati dall’adunanza. Anzitutto i campioni, quelli che dovevano raccontare le “imprese”: una defezione dopo l’altra, dalla Pellegrini alla Cristoforetti. Renzi voleva collezionare selfie con i suoi idoli, ma non ha potuto fare altro che scattarsi qualche foto con i Faraone e Carbone.
La madrina della Leopolda è sempre stata la Boschi, che è però arrivata all’appuntamento crivellata dalle critiche e depotenziata dall’enorme scandalo Etruria. Più di 5mila risparmiatori aretini – la sua città – sono stati rovinati dalla banca di cui il papà (multato 144mila euro per mancati controlli e svariate omissioni) era vicepresidente, il ministro piccola azionista e il fratello Emanuele curava il settore delle posizioni a sofferenza e a incaglio: “un settore”, racconta Davide Vecchi sul Fatto, “che ha bruciato 185 milioni solo di fondi concessi a ex amministratori e sindaci della banca e mai restituiti”.
Ad Arezzo, fino a pochi mesi fa la città più renziana d’Italia, i Boschi non si fanno più vedere. La Boschi, del resto, è anche responsabile dell’harakiri-Bracciali di giugno, un ameno ragazzotto imposto al partito come candidato sindaco che – in un delirio di onnipotenza renziana – doveva vincere facile e “governare 10 anni”. Come no. Infatti ha perso al secondo turno e ancora ad Arezzo tutti ridono. Anche Bracciali è scomparso, ma a dire il vero era scomparso anche quando c’era. E’ di Arezzo pure Marco Donati, uno che su Twitter si firma “marcodonats” (sì, con la “s”), deputato Pd più renziano di Renzi che il 22 novembre – il giorno del decreto salvabanche – scriveva entusiasta su Facebook: “Il provvedimento (..) rappresenta un segnale positivo per il territorio e in particolare per il personale, i correntisti e la clientela degli istituti di credito tra i quali quello aretino”. Un genio vero, che esemplifica una volta di più quel mix di incompetenza, pressappochismo e arroganza che caratterizza quasi sempre questa “nuova classe dirigente”renziana, composta perlopiù dal peggio della generazione nata nei Settanta e inizio Ottanta.
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In questo disastro totale, Renzi è riuscito a peggiorare tutto con la trovata del “vota il titolo peggiore”. Un’idea così scema, sgradevole e controproducente che persino Claudio Velardi, notoriamente renzianissimo, ha riassunto così: “Matteuccio quel gioco è fesso e un po’ di regime”. Una frase che, peraltro, reggerebbe forse anche se si togliesse la parte “quel gioco”.
Lo stesso Ferruccio De Bortoli ha scritto: “Già che c’è, la prossima volta ce lo dica lui che titoli dobbiamo fare”. Ma la risposta si sa già: Renzi ama l’ottimismo, quindi adora titoli come “Voglio tutto” (Panorama), “Renzi ha le palle” (Il Giornale), “Quello strano fluido della Leopolda così il sindaco diventa fidanzato d’Italia” (Repubblica). A Renzi piace il giornalismo stile Pravda, e in questo può stare tranquillo: per un Saviano che ogni tanto si arrabbia, l’intellighenzia de sinistra resta bella zitta e prona. Moretti, ci sei? Benigni, ci sei?
Quello di Renzi alla Leopolda è un vero e proprio Editto Leopoldino, con il Fatto Quotidiano – chiamato “fango quotidiano” da quei quattro o cinque leoni da tastiera col poster in camera della Picierno – al primo posto. E qui, va detto, i renziani dimostrano se non altro una dote vera: hanno un pessimo gusto per gli idoli, ma sui nemici hanno gusti sopraffini. Al di là della conferma che Renzi è un personaggio oltremodo caricaturale, con un’idea di libertà di stampa paragonabile a quella che ha Hannibal Lecter dei vegani, la trovata – patetica e puerile – del “dagli all’untore Fatto Quotidiano” è l’ennesimo autogol. Per questa serie di motivi.
1) Permette a Grillo, e ai M5S, di rivalutare quasi la rubrica “Giornalista del giorno”, che in confronto pare una carezza affettuosa alla stampa italiana.
2) Regala una pubblicità smisurata a quelle stesse testate, e a quegli stessi giornalisti, che Renzi vorrebbe silenziare e che – tramite Sensi – evita come la peste in tivù.
3) Dona a quegli stessi giornalisti odiati un discreto godimento, perché quando si sta sulle palle a certa gente vuol dire che si è sulla strada giusta. Anzi giustissima.
4) Rafforza il paragone “renzismo = berlusconismo”, alimentando con ciò anche il fronte antirenziano, proprio come Berlusconi rinsaldava le fila dei suoi nemici quando insultava i Luttazzi, i Santoro e i Biagi. Fa cioè un ulteriore favore al “nemico”.
5) Mostra il vero volto di Renzi e renzismo: all’apparenza garbato, di fatto allegramente illiberale.
In ultima istanza, l’attacco di Renzi alla stampa sgradita non è solo irricevibile, ma è pure un suicidio politico. E anche questo non stupisce: Renzi è tanto arrogante quanto politicamente fragilissimo. E questo lo rende persino più pericoloso. Non è neanche un uomo solo al comando, ma un bimbominkia lanciato a bomba contro il disastro. Suo e del paese che – senza che nessuno gliel’abbia chiesto – governa, facendo disinvoltamente quel che gli gira e piace. Nella compiacenza pressoché generale dei media.

Renzi dimissioni! Chi non le chiede acconsente. - Paolo Flores d'Arcais




Non era “Scherzi a parte”. 
Era proprio “la Leopolda”, il marchio di fabbrica, il brand, la maison, insomma il format urbi et orbi con cui Renzi ogni anno magnifica se stesso in una sbrodola corriva di italico conformismo, cortigiani baci della pantofola e Te Deum alla finanza. 
Poiché però quest’anno il giornalismo unico e prono, che tanto piace al premier, oltre alla tradizionale eccezione di “Il Fatto Quotidiano” ha registrato su più testate spazi prioritari dedicati a quella pinzillacchera dei risparmiatori truffati e rovinati (uno già indotto al suicidio), anziché la staffetta d’ordinanza di osanna e peana, Renzi ha ritenuto improcrastinabile colpirne uno per educarne cento con la gogna del simpatico gioco “i dieci titoli più inappropriati”: per i vincitori non mancheranno ricchi premi e cotillon, future poltrone, stiano pure sereni.
Ora, quando Renzi è in famiglia per la tombolata o in intimità con i/le sodali del suo giglio magico per il mercante in fiera o monopoli, padronissimo di sostituirvi giochi che alla combriccola paiano più sganascianti. Ma nella vita pubblica, l’osceno spettacolo di Firenze si chiama aggressione alla libertà di stampa, sputi e schiaffi contro l’articolo 21 della Costituzione, e un premier che in tali pratiche si ingaglioffisca deve andarsene subito. Sulla libertà di stampa, come sugli altri diritti fondamentali della Costituzione, non è lecito scherzare. Perché per minimizzare la gravità di quanto operato dal premier contro la libertà di stampa si è costretti a istituire paragoni con la Turchia di Erdogan, dove i giornalisti finiscono in galera, e la Russia di Putin, dove finiscono anche ammazzati, e allora effettivamente sì, si può sostenere che in fondo quella di Renzi è una marachella, birichinata, birbanteria, ragazzata.

Solo che Renzi non è un ragazzino in fregola di bullismo, è il capo del governo, e lo standard con cui misurarlo non possono essere Erdogan e Putin. È immaginabile un Obama, una Merkel, un Hollande, un Cameron che si sbellicano a far insolentire dagli elettori un giornale che li critica? E per scendere molto più in basso, cosa sarebbe successo se fosse stato Berlusconi a sollazzarsi con il giochino dei “titoli inappropriati”? O addirittura: come finirebbero le chance della carriera politica di Marine Le Pen, se si permettesse?
E allora, perché si continua a tollerare Renzi al governo, e la Boschi, e Alfano, e compagnia cantando? Davvero hanno passato il segno. 
Ecco perché è necessario, ineludibile, improcrastinabile, che chi ha voce pubblica dica: BASTA! Renzi a casa! Renzi si deve dimettere!

Noi, che in fatto di ascolto pubblico contiamo pressoché nulla, lo facciamo immediatamente, e invitiamo tutti i lettori a dire “basta!” insieme a noi. 

Ma è indispensabile che chi gode di ascolto vero e dunque conta nell’opinione pubblica (devo fare i nomi? Li sanno tutti), le dimissioni di Renzi le chieda con tutta la forza e il peso massimo della sua voce, facendo da catalizzatore a centinaia di migliaia, a milioni di cittadini, altrimenti le sue critiche rimarranno un elegante esercizio con cui salvarsi l’anima.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/renzi-dimissioni-chi-non-le-chiede-acconsente/

Scoperte tre nuove molecole per i casi più difficili di artrite reumatoide.

(Ap)

Studiate dai ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del Policlinico Gemelli insieme a colleghi del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Ridotti gli effetti collaterali. Sono già oggetto di brevetto e diventeranno un farmaco.


Una ricerca interamente italiana ha scoperto tre nuove classi di molecole efficaci contro i casi più critici di artrite reumatoide: è stata portata avanti dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma in collaborazione con colleghi dell’Istituto di Chimica del Riconoscimento Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Icrm-Cnr) di Roma. Le tre molecole, già coperte da brevetto, diventeranno dei farmaci grazie all’azienda farmaceutica italiana Galsor Srl.Le terapie in uso per l’artriteL’Artrite Reumatoide è una patologia infiammatoria progressiva, di origine autoimmune, che interessa principalmente le articolazioni e coinvolge tutti gli organi e apparati. Circa il 40% dei pazienti condivide, come comune fattore genetico predisponente, una variante associata a una forma più grave di malattia e che risponde meno ai farmaci attualmente in uso che sono di due tipi: quelli capaci di rallentare l’infiammazione e quelli biologici che bloccano i mediatori più importanti dell’infiammazione. Tali trattamenti, bloccando in maniera non-specifica la risposta infiammatoria, provocano frequenti effetti collaterali. Inoltre i farmaci biologici attualmente disponibili hanno un elevato costo per il SSN. È proprio questa categoria di pazienti che ricaverebbe beneficio dalle nuove molecole messe a punto dal team dell’Università Cattolica-Policlinico Gemelli-Cnr.
Nuove speranze per i pazienti, ma serve tempo.
«Per selezionare i principi attivi di potenziali nuovi farmaci, abbiamo usato la tecnica dello screening virtuale, selezionando da una libreria virtuale, contenente centinaia di migliaia di composti, le molecole la cui forma tridimensionale si adatta bene al bersaglio farmacologico specifico, come in un puzzle», spiega la dottoressa Maria Cristina De Rosa, dell’Icrm-Cnr. «Il farmaco sarà vantaggioso per una parte consistente e facilmente identificabile dei pazienti, aumentando l’efficacia e riducendo gli effetti collaterali e i costi dell’approccio attuale», sottolinea il professor Gianfranco Ferraccioli, Ordinario di Reumatologia all’Università Cattolica e Direttore del Polo Urologia, Nefrologia e Specialità Mediche del Policlinico “A. Gemelli”.
Per realizzazione e sperimentazione del farmaco serviranno alcuni anni: «È difficile in questa fase stabilire con esattezza il tempo necessario – dichiara l’Ad di Galsor Srl Sandro Soriano - ma abbiamo programmato le varie fasi di sviluppo in circa nove anni. A ogni modo, faremo di tutto per accorciare questi tempi quanto possibile».

http://www.corriere.it/salute/reumatologia/15_dicembre_11/scoperte-tre-nuove-molecole-casi-piu-difficili-artrite-reumatoide-3a0628ea-9fee-11e5-9e42-3aa7b5e47d96.shtml

Anche Pininfarina venduta agli stranieri: la società passa agli indiani di Mahindra. Il titolo sprofonda in Borsa (-68%).

PININFARINA


Lo storico marchio del design Pininfarina passa agli indiani di Mahindra & Mahindra per quasi 25 milioni di euro complessivi. Pincar, holding di controllo di Pininfarina, ha stipulato un accordo con il gruppo indiano per cui al closing il 76,063% del capitale passerà agli indiani per 1,10 euro per azione. Le azioni saranno liberate dal pegno delle banche al momento del closing. Successivamente gli investitori di Mahindra lanceranno una offerta pubblica totalitaria sulle azioni ordinarie Pininfarina, allo stesso prezzo della compravendita delle azioni detenute da Pincar. L'accordo prevede anche un aumento di capitale da 20 milioni in Pininfarina entro la fine del 2016.
AGGIORNAMENTO DELLE 17.44 Chiusura in deciso calo per Pininfarina che ha perso in un'ora di negoziazione il 68,8% del proprio valore precipitando dai 4,2 euro di venerdì scorso agli attuali 1,31 euro. A pesare è il prezzo dell'offerta di Mahindra a 1,1 euro, verso cui il titolo si andrà ad allineare nei prossimi giorni.
Successivamente al closing, si legge in una nota, le parti hanno concordato di confermare Paolo Pininfarina nel suo attuale incarico di presidente del consiglio di amministrazione. Contestualmente all'accordo di investimento, sono stati conclusi gli accordi di ristrutturazione dei debiti di Pininfarina e Pincar.
Inoltre, il consiglio d'amministrazione di Pininfarina ha approvato un nuovo piano industriale e finanziario. "Il piano finanziario del gruppo Pininfarina - spiega il comunicato - offre la possibilità ad alcune banche di un pieno e definitivo pagamento a saldo e stralcio a un valore scontato, mentre ad altre banche l'opportunità di dilazionare il loro credito attraverso un nuovo piano di ammortamento dall'anno 2015 fino al 2025 e i loro crediti assicurati da una garanzia corporate emessa dall'investitore. L'indebitamento finanziario delle banche creditrici sarà ripagato dal 2017, essendo il 2015 e 2016 due anni di grazia. Il tasso di interesse rimarrà invariato allo 0,25% su base annua. Il piano finanziario prevede un solo covenant finanziario, da verificarsi a partire dal 31 ,arzo 2018, consistente in un valore minimo di patrimonio netto consolidato di 30 milioni di euro. Il piano finanziario prevede un incremento del capitale sociale di almeno 20 milioni di euro e i proventi della liquidazione dei crediti finanziari delle banche che opteranno per il pagamento a saldo e stralcio".
Pininfarina e Mahindra & Mahindra sottoscriveranno un contratto di licenza di marchio, efficace dal closing dell'operazione - previsto nel primo semestre del 2016 - concernente l'utilizzo dei marchi di proprietà delle società del gruppo Pininfarina per i prodotti automotive del gruppo Mahindra. L'operazione, si precisa in chiusura di comunicato, è stata approvata da tutti i soci e società della famiglia Pininfarina, dalla catena di controllo di Pincar e dal consiglio di amministrazione e collegio sindacale di Pininfarina.

lunedì 14 dicembre 2015

Delitto di Garlasco, Cassazione conferma la condanna a 16 anni. Alberto Stasi si è consegnato in carcere.

Delitto di Garlasco, Cassazione conferma la condanna a 16 anni. Alberto Stasi si è consegnato in carcere


La madre di Chiara: "Giustizia è stata fatta". Il legale dell'ex fidanzato ha definito la decisione della V Sezione Penale "una pena che non sta né in cielo né in terra". Respinta la richiesta di 30 anni di carcere con l'aggravante della crudeltà.

La Cassazione ha confermato in via definitiva la condanna a 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi, mettendo la parola fine a una vicenda giudiziaria che dura ormai da otto anni. 
Alberto Stasi si è consegnato in carcere poco dopo la decisione della V Sezione Penale che ha respinto sia il ricorso di Alberto Stasi che quello della procura generale di Milano che chiedeva per Stasi una condanna a 30 anni, includendo l’aggravante della crudeltà dell’omicidio. Durante le indagini preliminari Stasi non è mai stato posto in custodia cautelare, motivo per cui ora dovrà scontare per intero la pena.
“Sono emozionata” ha commentato Rita Poggi, la madre di Chiara, “dopo le parole del procuratore eravamo un po’ pessimisti, ma giustizia è stata fatta“. Anche se, ha aggiunto la signora Poggi, “non bisogna mai dimenticare che questa è una tragedia che ha colpito due famiglie”. “Otto anni per avere una sentenza definitiva sono tanti”, ha sottolineato la madre di Chiara, “ma in tutto questo tempo non abbiamo mai pensato di mollare e di rinunciare a chiedere la verità“. “Forse questo sarà un Natale diverso, dopo questa sentenza proviamo sollievo” ha concluso.
La richiesta del procuratore generale Oscar Cedrangolo di annullamento della sentenza, arrivata venerdì, aveva spiazzato tutti, facendo riemergere la paura di un nuovo capitolo in un processo senza fine. Il legale di Stasi, Fabio Garda, che ora dovrà comunicare al suo assistito la decisione della Corte Suprema, ha definito la condanna “una cosa allucinante”. “Quanto detto ieri dal pg è la realtà dei fatti”, ha aggiunto l’avvocato, “è una pena che non sta né in cielo né in terra, come ha detto il pg, se uno ha fatto una cosa del genere deve avere l’ergastolo”. “Come si fa a mettere in carcere una persona quando c’è una sentenza che è completamente illogica”, ha concluso.
Dopo 8 anni, la vicenda giudiziaria che sembrava infinita è finita: un anno fa dopo due assoluzioni in primo e secondo grado, la condanna a 16 anni, arrivata dopo 7 anni di processo. Il 24 novembre il sostituto procuratore genarale, Laura Barbaini, aveva chiesto 30 anni includendo l’aggravante della crudeltà, esclusa nella sentenza degli ermellini, che avevano applicato lo sconto per il rito abbreviato, pari a un terzo della pena. Stasi era stato anche condannato a versare 350 mila euro di risarcimento a ciascuno dei genitori di Chiara e 300 mila euro al fratello Marco, in totale un milione di euro.
Era il 13 agosto 2007 quando Alberto Stasi, studente della Bocconi, chiamò il 118 per denunciare la morte della fidanzata Chiara Poggi, 26 anni, massacrata nella villetta di Garlasco, dove la ragazza viveva con la famiglia. “Un’ambulanza in via Giovanni Pascoli a Garlasco”, “credo abbiano ucciso una persona. Ma forse è viva… non lo so”, disse all’operatore. Quando i soccorsi arrivarono il cadavere era riverso sulle scale della cantina con il cranio fracassato.
Due giorni dopo il funerale, il 20 agosto, Alberto Stasi riceve un avviso di garanzia: il reato contestato è quello di omicidio volontario. Poi la perquisizione della casa, i sequestri delle sue tre auto e due biciclette, il cambio degli avvocati e il ritrovamento di tracce del Dna compatibile con quello di Chiara che portano alla firma del fermo per omicidio volontario da parte del pm Rosa Muscio, non convalidato dal gip, Giulia Pravon, in mancanza di prove.
Infine gli appelli, che sembravano non finire più. L’assoluzione in primo e secondo grado: nel 2009 per “mancanza di prove”, confermata nel 2011, annullata nel 2013 e rovesciata il 17 dicembre 2014 con la condanna a 16 anni, confermata, infine oggi.

Etruria, banca spolpata tra fidi ai consiglieri e yacht "fantasma" - Alberto Statera



"Come è umano lei!" 
Se non ci fosse già la mestizia per un morto suicida, verrebbe da usare le parole di Giandomenico Fracchia ne "La belva umana" per giudicare "le misure di tipo umanitario" annunciate dal ministro Pier Carlo Padoan a favore dei risparmiatori più poveri, il parco buoi che con le obbligazioni "subordinate" di quattro banche ha perso tutto.

Ruggisce la Chimera di Arezzo verso i 13 ricchi ex amministratori e 5 ex sindaci di Banca Etruria che invece probabilmente non restituiranno mai i 185 milioni che si sono auto-concessi con 198 posizioni di fido finiti in " sofferenza" e in "incaglio", settore che in banca curava Emanuele Boschi, fratello del super-ministro Maria Elena. 
Né, visti i precedenti, restituiranno i 14 milioni riscossi di gettoni negli ultimi cinque anni. Figurarsi poi i 20 primi "sofferenti" per oltre 200 milioni. A cominciare da Francesco Bellavista Caltagirone dell'Acqua Antica Pia Marcia, "un dono fatto all'Urbe dagli dei"(Plinio il Vecchio) esposta con le sue controllate per 80 milioni o la Sacci (40 milioni) della famiglia Federici, passata adesso all' Unicem, o la Finanziaria Italia Spa del Gruppo Landi di Eutelia (16), o ancora la Realizzazioni e Bonifiche del Gruppo Uno A Erre (10,6) , l'Immobiliare Cardinal Grimaldi, titolare di un mutuo di 11,8 milioni a 40 anni, una durata che non esiste sul mercato, e l' Acquamare srl (17,1) sempre del gruppo Bellavista Caltagirone.

Tra le storie più deliranti tra quelle nelle quali ci si imbatte percorrendo i sentieri delle quattro banche fallite, la più sconclusionata è quella del panfilo più lussuoso al mondo che doveva essere costruito dalla Privilege Yard Spa a Civitavecchia, lungo 127 metri e già opzionato – si diceva - da Brad Pitt e Angelina Jolie. Dal 2007, quando fu costituito il pool di banche capeggiato dall'Etruria, esiste solo il rendering della nave di carta e la società è fallita con un buco di 200 milioni. L'inventore del bidone si chiama Mario La Via, che si definisce "finanziere internazionale", e che esibiva come suoi soci l'ex segretario generale dell'Onu Perez de Cuellar, il sultano del Brunei e Robert Miller, azionista di Louis Vuitton e CNN. L'inaugurazione del cantiere fu benedetta dal cardinale Tarcisio Bertone. 
Nel consiglio figuravano Mauro Masi, ex direttore generale della Rai, Giorgio Assumma, ex presidente della Siae, e il tributarista Tommaso Di Tanno. Per non farsi mancare niente, tra gli sponsor c'era anche Giancarlo Elia Valori, l'unico massone espulso a suo tempo dalla P2 di Licio Gelli. D'altro canto, la Banca Etruria è da lustri teatro dello scontro e anche degli incontri d'interessi tra finanza massonica e finanza cattolica. Quasi tutte storie che vengono dalla notte dei tempi.
La Banca dell'oro, come era chiamata per il ruolo nel mercato dei lingotti, nasce nel 1882 in via della Fiorandola come Banca Mutua Popolare Aretina. Ma è cent'anni dopo, nel 1982, che comincia l'espansione con l'acquisto della Popolare Cagli, della Popolare di Gualdo Tadino e della Popolare dell'Alto Lazio, feudo di Giulio Andreotti che era sull'orlo del default. E comincia il trentennio del padre-padrone Elio Faralli, classe 1922, massone, che rinunciò alla presidenza con una buonuscita di 1,3 milioni e un assegno annuale di 120 mila euro perché a 87 anni non facesse concorrenza alla sua ex banca. Scomparso nel 2013 e sostituito dal cattolico Giuseppe Fornasari, ex deputato democristiano, Faralli sponsorizzò tutte le prime venti operazioni in sofferenza di cui abbiamo dato conto, salvo 20 milioni deliberati ancora per la nave di carta durante la presidenza Fornasari. Risale poi al 2006 l'acquisto di Banca Federico Del Vecchio. Doveva essere la boutique bancaria che portava in Etruria i patrimoni delle ricche famiglie fiorentine, ma si è rivelata un buco senza fondo. Un giorno Faralli si rinchiuse da solo in una stanza col presidente della Del Vecchio e ne uscì con un contratto di acquisto per 113 milioni, contro una stima di 50, mentre mesi fa veniva offerta in vendita a 25 milioni.
"La Banca Etruria non si tocca," andava proclamando il sindaco di Arezzo Giuseppe Fanfani, nipote del leader storico della Democrazia Cristiana Amintore e figlio del leader locale Ameglio, alla vigilia di lasciare l'incarico per trasferirsi nella poltrona di membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura. Un sindaco aretino, chiunque egli fosse, era costretto a difendere "per contratto" l'icona bancaria cittadina, 186 sportelli e 1.800 dipendenti, con un modello fondato su un groviglio di interessi intrecciati tra loro. Lo stesso modello ad Arezzo, come nelle Marche, a Chieti e Ferrara, con banchieri improvvisati, politici locali, imprenditori, azionisti, grandi famiglie feudatarie, truffatori, a spese dei piccoli correntisti spinti ad acquistare prodotti a rischio per loro incomprensibili. Ma il mito della banca semplice, radicata sul territorio, per clienti semplici, dove tutti si fidano, si è infranto definitivamente un mercoledì del febbraio scorso, quando ad Arezzo di fronte ai capi- area convocati per avere comunicazione dei tragici dati di bilancio irrompono due commissari nominati dalla Banca d'Italia, Riccardo Sora e Antonio Pironti. Il presidente vuole annullare la riunione , ma i commissari dicono: "No, la riunione la facciamo noi." E di fronte ai dirigenti esordiscono così: "Qualcuno in Consiglio d'amministrazione insiste nel non voler capire bene la situazione". E dalla sala si alza un commento:"Meglio i commissari che il geometra", che non è altri che il presidente commissariato Lorenzo Rosi, affiancato dal vice Pier Luigi Boschi. Ma la Banca d'Italia finalmente muscolare non fa miglior figura. Passano due o tre giorni e si scopre che il commissario di Bankitalia Sora è indagato a Rimini, dove era stato commissario della locale Cassa di risparmio per l'acquisto di azioni proprie "a un prezzo illecitamente maggiorato".
Adesso, con il pellegrinaggio di ieri ad Arezzo di Matteo Salvini ed altri raccogliticci salvatori della patria, le polemiche tutt'altro che ingiustificate sulla Banca d'Italia, che era finora un tabernacolo inviolabile, si spostano dritte dritte sul governo Renzi. Il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo evoca i 238 miliardi di aiuti alle banche messi dalla Germania, che poi ha promosso i vincoli per impedire interventi analoghi agli altri paesi, contro il nostro miliardo. E lamenta gli inadeguati poteri d'intervento e sanzionatori. Ma non spiega perché il commissariamento non fu fatto dopo la terribile ispezione del 2010 o dopo quelle altrettanto tragiche del 2013 e 2014. Quanto al governo, ci ha messo non più di venti minuti per approvare il Salva-banche. Ma, attenzione. Così com'è, c'è chi teme che rischi di provocare altri monumentali guai.

Ex amministratori e sindaci si sono auto concessi prestiti per 185 milioni oltre a gettoni di presenza da 14 milioni in 5 anni I primi 20 prestiti in sofferenza ammontano a 200 milioni. Tra i beneficiari la famiglia Federici e Bellavista Caltagirone
LA PROTESTA
Un azionista della Banca dell'Etruria all'assemblea organizzata dai consumatori.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/12/11/etruria-banca-spolpata-tra-fidi-ai-consiglieri-e-yacht-fantasma08.html





Maria Elena Boschi e Banca Etruria: il “tesoretto” del padre. 

ROMA –  Poltrone in 14 diverse società per Pier Luigi Boschi, padre del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. 
Una di queste poltrone era, ormai è cosa nota, all’interno di Banca Etruria, una delle quattro banche salvate dal crac da un intervento del governo Renzi (in cui la Boschi siede). La “radiografia” alle posizioni ricoperte da Pier Luigi Boschi la fa Paolo Bracalini  sul Giornale, che parla di “un piccolo groviglio di interessi famigliari” tra i Boschi e la Banca Etruria, in cui lavorava anche il fratello della ministra, Emanuele, dirigente del settore incagli (i prestiti in sofferenza). 
Scrive Bracalini: “Vicepresidente della banca e azionista della banca stessa, una prassi normalissima se l’interessato non fosse anche il padre di un ministro e la banca in questione non fosse andata in rovina, mandando in fumo gli investimenti dei piccoli risparmiatori dopo il decreto del governo Renzi, dove siede la figlia. (…) Pier Luigi Boschi, il padre del ministro per i Rapporti con il Parlamento, così come gli altri parenti «entro il secondo grado» di Maria Elena Boschi, non hanno acconsentito nel 2014 alla pubblicazione della propria posizione patrimoniale, come previsto (senza obbligo per i famigliari) dalle norme sulla trasparenza dei membri del governo. Per fare un po’ di chiarezza sulla sua posizione, dunque, bisogna scartabellare le relazioni ufficiali della banca e i prospetti della Consob. Da una relazione all’assemblea dei soci del maggio 2014 veniamo a sapere che nel 2013 Boschi senior, ancora solo consigliere di amministrazione e membro del comitato esecutivo dell’Etruria (verrà promosso vicepresidente l’anno dopo) prende uno stipendio di 71.466 euro niente rispetto ai 638mila euro del direttore generale della banca, Luca Bronchi – e risulta proprietario di 9.563 azioni della banca. (…) 

Cosa sia successo a quelle azioni dal 2014 in poi, tra il clamoroso boom del titolo in Borsa dopo il decreto sulle popolari e il commissariamento, non emerge né dalla banca, né dalla Consob né tantomeno da casa Boschi che su questa vicenda ha preferito tenere il massimo riserbo. Quel che invece si ritrova nelle tabelle della Commissione è un prospetto che alimenta altri interrogativi. Si tratta di una serie di informazioni che una banca, in caso di emissione di obbligazioni, è tenuta a comunicare alla Consob, e riguarda tra l’altro anche gli incarichi degli amministratori dell’istituto in altre società esterne alla banca. La lista delle «poltrone» occupate da papà Boschi contempla quattordici voci diverse: tre presidenze di cda (società agricole e coop), due vicepresidenze e poi incarichi da consigliere in altre sette società, dal Consorzio Vino Chianti alla Società Immobiliare Casa Bianca fino a Progetto Toscana Srl. La domanda la pone l‘economista Riccardo Puglisi, responsabile economico di Italia Unica: «Dalla Banca d’Italia sarebbe opportuno conoscere l’ammontare di fidi che l’Etruria ha concesso a queste società in cui Pier Luigi Boschi ha cariche amministrative». Anche perché secondo gli ispettori di Bankitalia, «13 amministratori e 5 sindaci hanno interessi in n. 198 posizioni di fido, per un importo totale accordato, al 30-09-2014, di circa 185 milioni di euro». Tradotto significa che in media ogni amministratore ha interessi in più di dieci finanziamenti concessi dalla banca. Papà Boschi, con i suoi quattordici cda, rientra in questa media?”

http://www.blitzquotidiano.it/politica-italiana/maria-elena-boschi-e-banca-etruria-il-tesoretto-del-padre-2339874/

Usa: polizia uccide un altro nero, rischio tensioni a Los Angeles.

(Foto d'archivio) © AP

"Era armato". Video mostra uomo colpito quando già accasciato.


 Si rischia un'altra ondata di proteste e che gli animi tornino ad accendersi questa volta a Los Angeles, dopo che un uomo afroamericano di 28 anni e' stato ucciso dalla polizia, intervenuta - si apprende dalle autoriatà - dopo la segnalazione della sua presenza nei pressi di una stazione di servizio mentre brandiva un'arma esplodendo anche colpi in aria.
    L'episodio e' stato registrato in un video e nelle immagini si vedono due agenti dell'ufficio dello sceriffo della contea di Los Angeles che sparano ripetutamente e non si fermano nemmeno quando il giovane, probabilmente colpito, si accascia, volta le spalle e tenta di allontanarsi.
    La sparatoria ha avuto luogo intorno alle 11 del mattino di sabato nella cittadina di Lynwood, circa 25 chilometri a sud di Los Angeles. Le forze dell'ordine hanno riferito di essere giunte sul posto in risposta a segnalazioni di un uomo armato e sono state infatti diffuse tre telefonate effettuale al numero di emergenza da parte di testimoni che segnalavano un uomo che sparava in aria. Le forze dell'ordine hanno inoltre fatto sapere che gli agenti hanno esploso 33 colpi contro il giovane afroamericano, identificato come Nicholas Robertson, dopo che questo si era rifiutato di abbandonare la pistola dirigendosi verso la vicina stazione di servizio.
    I familiari di Robertson definiscono la sparatoria ingiustificata, mentre la rabbia comincia gia' a serpeggiare tra la comunita' locale, per la vasta maggioranza afroamericana e ispanica. Diverse persone si sono riunite nei pressi del luogo dove ha avuto luogo la sparatoria per protestare contro la polizia, riferisce il New Yourk Times. Makiah Green di 23 anni e Tyree Boyd-Pates di 26 sono giunti appositamente da una cittadina vicina: "La sua vita e' importante proprio quanto la mia, a prescindere dalla sua occupazione o dalla posizione sociale - ha detto Boyd-Pates -. La sua vita conta".
    Come in vari luoghi del Paese, anche nella zona di Los Angeles nei mesi scorsi la tensione e' stata alta dopo una serie di episodi simili. A marzo, agenti del dipartimento di polizia di Los Angeles hanno colpito e ucciso un senzatetto, aprendo il fuoco - hanno riferito - dopo che aveva opposto resistenza all'arresto. Anche quell'episodio era stato registrato da una telecamera. (ANSA).
   

Metti una pistola in mano ad un esaltato ed il risultato è disastroso. Bisognerebbe fare un esame psicologico preventivo a chi entra in polizia.