giovedì 7 aprile 2016

Petrolio Basilicata, gip: “Malori per fughe di gas, Eni li taceva per evitare il blocco”. - Thomas Mackinson

Petrolio Basilicata, gip: “Malori per fughe di gas, Eni li taceva per evitare il blocco”

"Non riuscivo a respirare, mi girava la testa e avvertivo una sensazione di nausea e smarrimento". E' una delle testimonianze agli atti dell'inchiesta della Procura di Potenza sull'impianto di Viggiano. Secondo l'accusa, però, i funzionari indagati non aprivano neppure le procedure d'infortunio sul lavoro per evitare allarmi. La telefonata: "La moral suasion non ha funzionato, il dipendente ha aperto la pratica".


“Sono stata investita da un forte odore di gas, non riuscivo a respirare, mi girava la testa e avvertivo una sensazione di nausea e smarrimento”. Durante la corsa verso il 118 la signora Franca vomitava e respirava a fatica. Un’altra lavoratrice viene soccorsa, messa sotto flebo e con maschera d’ossigeno, sempre per una fuga di acido solfidrico. Ne avrà per diversi giorni ma per i responsabili del Centro Oli di Viggiano indagati dalla Procura di Potenza erano solo malori occasionali, tanto che nessuna procedura per infortunio veniva aperta. “L’atteggiamento che il management Eni ha dimostrato in dette occasioni – scrive il gip – era orientato a una preordinata e accanita pervicacia nel nascondere la reale entità del problema ambientale e i rischi connessi alla salute dei lavoratori”.
E’ partita anche da qui, dal cuore dello stabilimento Cova di Viggiano e a indagini ancora aperte, la pista che porta ora i magistrati ad acquisire le cartelle cliniche della popolazione in tutta la Basilicata, con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti. L’intento è verificare con dati clinici quanto fossero dannose per la salute le reiezioni nei pozzi dei liquami tossici smaltiti come acque di produzione e le emissioni in eccesso alle prescrizioni di legge che venivano sistematicamente nascoste. In particolare quelle di anidride solforosa (H2S), sostanza tossica ad ampio spettro, che viene prodotta nel processo di estrazione e raffinazione del petrolio tramite combustione.
Un veleno insidioso, annotano i magistrati: concentrazioni modeste vengono avvertite dalla popolazione sotto forma di odore di uova marce e possono causare problemi neurologici, debolezza, svenimenti. Ad alte concentrazioni può essere anche letale ma non viene avvertito, perché le particelle paralizzano il senso dell’olfatto. La H2S entra nel corpo per inalazione, attraverso il cibo e l’acqua contaminati, attraverso la pelle provocando infiammazioni alla cornea, congiuntiviti, tosse. I processi di cicatrizzazione della pelle si rallentano, le dermatiti non passano. Le concentrazioni più alte possono portare alla perdita di coscienza e alla morte.
Ecco il senso di quello che vanno cercando i magistrati: la conferma dell’ipotesi di disastro ambientale con quelle più gravi legate alla compromissione della salute. Alcuni elementi, per la verità, sono stati già acquisiti e hanno messo in luce ancora una volta la spregiudicatezza dell’atteggiamento dei dirigenti dell’impianto Eni. I magistrati di Potenza ricostruiscono quattro episodi in cui altrettanti lavoratori del Centro Oli, nel 2014 e dunque in piena fase di indagine, si sentono male proprio a causa delle fuoriuscite di H2S dallo stabilimento lucano. Anche se la compagnia insiste la “qualità dell’aria ottima” e certificata.
I pm mettono in risalto un dato sconcertante, poi ripreso dal gip nell’ordinanza: in caso di malore del personale che prestava opera negli impianti i dirigenti si spendevano molto perché fossero ben seguiti, ma non per le loro condizioni di salute: “Nell’ambito degli incidenti legati all’inalazione di ammina o H2S”, scrivono i magistrati “si è appurato come l’unico intento degli indagati fosse quello di celare la causa del malore di cui erano stati vittima i lavoratori, evitando addirittura di aprire la procedura per infortunio sul lavoro”. Il ricatto, manco a dirlo, era il lavoro. “La moral suasion non ha funzionato. Il lavoratore ha aperto l’infortunio”, si legge nelle intercettazioni agli atti dell’inchiesta tra i titolari di una ditta di manutenzione e i responsabili del settore “salute e sicurezza” dell’Eni. Poi il referente della ditta, per compiacere i vertici di Eni, non procederà ad aprire la pratica, “consapevole che i vertici non gradiscono veder aumentare le statistiche degli infortuni all’interno dei loro impianti”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/07/petrolio-basilicata-pm-malori-per-fughe-di-gas-eni-li-taceva-per-evitare-il-blocco/2609773/

Io intravedo tutte le motivazioni necessarie per formulare un'accusa di crimini contro l'umanità nei confronti dei responsabili dei disastri ambientali e delle relative conseguenze dagli stessi derivanti, tra le quali l'aumento delle mortalità per tumori.

Dietro i “Banana Pampers” si vede troppo Soros. - Maurizio Blondet



Di rivelazioni e scandali ne avremo per mesi, vista la mole dei dati trafugati.  Intanto, uno degli effetti dei Panama Papers  – e probabilmente degli scopi per cui sono stati diffusi – lo ha  definito benissimo l’ottimo blogger Nuke the Wales:  è parte della “guerra che gli americani attraverso i loro servizi segreti e l’influenza su alcuni organismi sovranazionali chiave (Ocse) hanno fatto contro i così detti “paradisi fiscali”  altrui;  una battaglia altamente morale – come sempre – che libera dai concorrenti i paradisi fiscali che stanno impetuosamente crescendo in Usa.  “Gli stati americani del Delaware, Wyoming e Nevada sono da decenni all’opera come paradisi nel segreto on-shore, si sono specializzati nella creazione di società di comodo per chiunque desidera nascondere i beni d’oltremare.”



Venite qui  a riciclare!
Il Delaware ha attuato leggi che lo rendono la miglior giurisdizione per la formazione di società. Offre la migliore protezione per chi non vuole rivelare la propria identità come beneficiario di una società e promuove elevati livelli di segreto bancario: non rivela i dettagli sui conti societari. Consente inoltre alle aziende di ri-domiciliarsi entro i propri confini, infatti questo stato ospita circa il 50% delle imprese quotate degli USA.
“Lo scorso settembre 2015, Andrew Penney (amministratore delegato di Rothschild Wealth Management & Trust, con sede a Londra, e con filiali a Milano, Zurigo e Hong Kong, gestisce circa 23 miliardi $ per 7.000 clienti) ha tenuto una conferenza in cui spiegava come si può evitare di pagare le tasse e come può aiutare i clienti a spostare le loro fortune negli USA, tenendo tutto nascosto ai rispettivi governi di provenienza”.



Dal blog di Nuke the Wales
L’altro vistoso tentativo dell’operazione, sporcare la reputazione di Vladimir Putin, condotta con immenso zelo dai media non solo anglo-americani, sembra abbia fatto relativamente cilecca. Qui   la valutazione è di Limes, non particolarmente filo-Putin:  “Putin ha due miliardi di dollari a Panama, dicevano i primi lanci d’agenzia. Qualche ora dopo erano “ambienti riconducibili a Putin” ad averli. Poi sono i suoi amici e conoscenti. Non lui o suo figlio, o suo padre o suo cognato. (…) Questa perenne necessità di dimostrare che Putin è il coacervo di ogni vizio e colpa dice molto dell’insicurezza delle nostre ragioni più che delle fragilità (pur notevoli) del suo regime”.

Il Cremlino ha risposto (sui media niente)

Come ha spiegato l’addetto stampa di Putin, Dmitri Peskov, era già da qualche giorno che riceveva da giornalisti esteri “richieste untuosamente gentili, in forma di domande  sul presidente personalmente, oltre a tentativi di contattare la sua famiglia, di parlare dei suoi amici d’infanzia, di affari –  Kovalchuk, Rotenberg [due uomini d’affari già colpiti da sanzioni americane, il primo  detto ‘il banchiere personale di Putin, ndr.] di certe ditte offshore  con gente d’affari che Putin non ha mai visto.  Tutto questo è molto ripetitivo, con variazioni a cui seguiva un’altra ripetizione”.

Lo ICIJ, il gigantesco Consorzio Internazionale di Giornalisti Investigativi che ha messo a punto il colossale trafugamento di dati panamensi, già nel 2013 aveva cercato di coinvolgere la moglie del vice-primo ministro, Igor Shuvalov, insieme con il milionario Gennady Timchenko in una storia  di conti segreti alle Isole Vergini Britanniche. Nel 2015,  lo ICIJ ha ‘rivelato’ che il suddetto Timchenko era caduto sotto sanzioni Usa in quanto cliente della banca HSBC, multata dalle autorità americane.  Adesso, ha aggiunto Peskov,   simultaneamente all’azione dello ICIJ, “una nota agenzia di stama internazionale sta preparando una pubblicazione basata su  certe asserzioni dello Organized Crime and Corruption Reporting Project, che sono rimasticature di rapporti di Putin con uomini d’affari, di  uomini d’affari che ottengono da lui contratti pubblici, di uomini d’affari che si arricchiscono a spese di Putin…”. La nota agenzia ha presentato una lista di domande a cui chiede a Putin di rispondere. 
Domande, Peskov ha esemplificato, del tipo: “E’  vero che il suo patrimonio ammonta a 40 miliardi di dollari? Che possiede queste villone o quei mega-yachts?  Dicono inoltre che Putin mantiene un intimo rapporto con Sergei Roldugin (il violoncellista, che è anche azionista della banca Russia),  rapporto che consisterebbe  in una frode presidenziale. Domande che insinuano che Putin è associato in qualche modo agli affari o a certe aziende –   Continuiamo a ripetere no, no, no. Adesso il Kremlino non risponde più.  Ci son modi legali per difendere la dignità e l’onore del presidente”.

Spunta la Open Society Foundation

Abbiamo visto che Peskov cita lo Organized Crime and Corruption Reporting Project;  altro nome con cui si presenta il superconsorzio di “indipendenti” giornalisti anti-corruzione, ICIJ.  Il quale a sua volta è una emanazione di una ONG denominata  Non-Governmental Organization Center for Public Integrity; una grossa entità “non-profit”,  quella che paga i giornalisti dediti alle opere di moralizzazione, ed è finanziata dalle solite fondazioni di celebri miliardari americani, alcune delle quali note per essere succursali della Cia  e/o  del Partito Democratico: Ford Foundation, Rockefeller Foundation, Carnegie Endowment, e un’altra mezza dozzina di meno note. Ma soprattutto dalla Open Society Foundation   le celebre fondazione  di Georges Soros, e dalla Sunlight Foundation, che è sempre di Soros.



Chi aiuta il Consortium? Anche lo USAID

Infatti, come hanno rilevato i russi  spulciando i loro archivi, questo ICIJ si è illustrato  nel 1996 per una campagna demolitrice contro il giornalista (paleo)conservatore Patrick Buchanan,  fortemente anti-neocon,   che s’era candidato alle elezioni presidenziali, e che Soros odiava  e riuscì infine a costringere al ritiro.  Il Consorzio è stato anche l’arma di punta nella  quasi decennale offensiva di Soros contro 
i fratelli Koch, miliardari ebrei come lui ma non “liberal”; in questa battaglia senza esclusione di colpi (passata alla storia come Luxembourg Papers) i giornalisti morali di Soros sono stati anche condannati per distorsione dei fatti ed altre violazioni del diritto. Similmente, a  gennaio del 2015, quando Soros cominciò la sua speculazione contro il franco svizzero,   i suoi “giornalisti indipendenti” si lanciarono in una inchiesta sul tema: “Come le banche svizzere riciclano il denaro sporco”. Un bell’ausilio all’attacco speculativo, che forzò la Banca Centrale elvetica a sganciare il franco dall’euro, rivalutandolo rovinosamente (scommettiamo che Soros era long sul Franco? )
Una volta intravisto lo zampino di Soros, i  bersagli dei Panama Papers – o Banana Pampers, come già li descrive qualcuno – si spiegano. Per esempio, all’inizio nessun nome americano, e poi – date le domande nate nei media- ah sì, sono 441 , ma nessun politico.  Per la Francia, grande campagna mediatica il maggiordomo di Jean Marie Le Pen, il tesoro del Front National.  Niente invece sulle “600 ditte israeliane e i circa 850 azionisti israeliani elencati come detentori di  conti offshore, fra cui la Banca Leumi e la Banca Hapoalim” (le più grosse di Sion), su cui il fisco israeliano ha aperto un’indagine.

Il modus operandi

I dati vengono selezionati. Lo ha ammesso Le Monde, che fa’ parte del Consorzio (stranamente né il New York Times né il Wall Street Journal sono della partita: strano davvero, una frattura in quel mondo).  In un articolo dal titolo: “Perché le Monde non pubblica integralmente i dati dei Panama Papers” spiega: “2600 gigaottetti di dati personali inclusi nel database non saranno mai pubblicati, perché contengono “dati privatissimi”; come indirizzi, fotocopie di passaporti corrispondenze private, bollette della luce”. E oltretutto, “il fatto di  possedere una società offshore non è in sé illegale”: bontà sua,  l’organo ufficioso del Grand Orient riconosce che la globalizzazione consiste appunto nella “libera circolazione” dei capitali.
Verranno pubblicati invece i dati delle “215 mila strutture offshore”, ossia le 215000  società, “con per ciascuna la data di creazione, di scioglimento, l’identità degli azionisti dichiarati”.
Verranno pubblicate “a maggio dallo ICIJ”.
Attenzione a questa frasetta: Le Monde ammette di non avere in mano i dati  con cui, per esempio, ha accusato il maggiordomo (sic) di Le Pen di avere un conto alla Mossack-Fonseca, per conto del padrone.  Il giornale francese dipende dallo ICIJ, che  li compulsa, seleziona, e li pubblicherà “a maggio”. Quanto all’identità degli azionisti dichiarati, è un dettaglio divertente: gli azionisti dichiarati sono dei prestanome,  come è ovvio  in questo tipo di società.  Dunque la soffiata sul maggiordomo del F N  gli è stata soffiata, e il giornale  l’’ha strombazzata senza aver visto la documentazione. Sicuro che poi  “i dati” che saranno diffusi “a maggio” confermeranno l’accusa?
Cosa valgono le accuse di Le Monde, senza i documenti? La risposta dell’organo del Grand Orient è molto significativa: “Per noi è importante condurre l’inchiesta (…) e interrogare le personalità messe in causa in modo da dar loro l’occasione di spiegarsi”
Capito? E’ esattamente la stessa tattica  descritta da Peskov: i giornalisti stranieri arrivano e melliflui “interrogano” Putin “per dargli l’occasione di spiegarsi: è vero che lei possiede 40 miliardi? Che è suo quel  certo  mega-yacht?”.
Le Monde farà lo stesso. E’ un genere di domande esemplificato da questa: “Da quanto tempo lei ha smesso di picchiare sua moglie?”.  Quando il poveretto nega: “Mai ho picchiato mia moglie!”, i giornali hanno il titolo già fatto: “Il politico X: non ho mai picchiato mia moglie”. L’articolo spiega: sì, effettivamente ha smesso, o così dice.
E la reputazione della vittima è rovinata.  Sono tecniche che noi giornalisti conosciamo bene.
Oltretutto,  visto che lo ICIJ e i suoi associati le usano con tanta dovizia, viene un sospetto: che  non abbiano in mano quasi nulla  di concreto. Il che è logico:  hanno i nomi di persone, che non sono che dei prestanome. E la Mossack-Fonseca   s’è rifiutata di validare i documenti, perché le sono stati sottratti con la frode.
Per esempio, stringi stringi, i soli nomi russi che hanno in mano sono due (dicesi 2): il celebre violoncellista Sergei Roldughin, e il miliardario ebreo Arkadi Rotenberg. Che – dicono – sono “intimi di Putin”,  quindi….Diamo a Putin l’occasione di spiegarsi.  Diamo alla Famiglia Le Pen l’occasione di spiegarsi. Mica li accusiamo (non avendo le prove  in mano), mica siamo scemi.
Il resto viene a poco a poco, accuratamente selezionato dai giornalisti di Soros, mossi dal più puro moralismo. Il polverone  può giovare alla candidata Hillary  Clinton, braccata dall’FBI per certe sue mail dove racconta che ha invaso la Libia per rendere più sicuro Israele, e sta per perdere le elezioni presidenziali.

La minaccia di Obama, ossia ISIS

In queste settimane, la disinformazione Made in Usa ha raggiunto vertici di virtuosismo  eccezionale. Per esempio  sulla Siria: i media – anche la nostra 7 del noto Mentana – hanno esaltato la notizia seguente: i maggiorenti della setta alawita (quella della famiglia Assad) hanno chiesto ad Assad di dimettersi,  per agevolare la transizione. Basta una breve verifica per apprendere che è un falso Made in Usa. Un  altro sciame di “notizie”  dà impressione che Obama   si  sia messo d’accordo con  Putin sulla Siria, che i due  se la intendano perfettamente  sulla tregua in corso e sulla transizione. La verità è l’esatto contrario:  il Pentagono ha ricominciato un nuovo addestramento di gruppi jihadisti, e  li hanno riarmati con missili Usa, pagati dai sauditi e inoltrati dalla Turchia.  Così rinfrancati, i jihadisti hanno violato la tregua e ripreso i combattimenti, abbattendo anche un caccia siriano e usando anche gas iprite contro una base aerea.



le nuove armi americane
La realtà –  nascosta dai media – è che mai le reazioni fra Mosca e Washington sono state ostili come in questi giorni, mai così prossime alla guerra calda. Lo dimostra,fra gli altri, il fatto che al “Vertice sulla Sicurezza Nucleare” organizzato a fine marzo da Obama, il cui scopo sarebbe appunto far avanzare la non-proliferazione  e far calare il rischio atomico,  Putin s’è rifiutato di partecipare e la Russia, la seconda potenza nucleare,  non è stata invitata. In questo contesto, va inteso il cosiddetto “l’allarme” di Obama alla conclusione del vertice sulla “sicurezza”  sul fatto che ISIS, Al Qaeda possano dotarsi di un’arma nucleare, perché “non c’è dubbio che questi pazzi la utilizzerebbero per uccidere quanti più innocenti possibile”.  A chi è chiaro che Obama (coi sauditi) ri-arma ISIS e Al Qaeda, è anche chiaro cosa significa questa previsione: è una minaccia che l’America ha diretto, specificamente, contro gli europei, gli alleati; se non si accodano alla  ostilità contro Mosca, il terrorismo islamico gli farà vedere ben altri attentati, oltre quelli di Parigi e Bruxelles.
Ma i media sono pieni di informazioni verissime sui Banana Pampers.

read:http://www.maurizioblondet.it/banana-pampers-centra-soros-ovviamente/

Ztl sospesa, le motivazioni del Tar: "Illogica, non garantisce l'ambiente" - Roberto Immesi

Ztl sospesa, il Tar di Palermo accoglie il ricorso. Il 9 novembre la sentenza di merito

PALERMO - Non c’è una mobilità alternativa, non si dovevano far partire insieme le Ztl e non c’era bisogno di ricorrere ai pass a pagamento

L’ordinanza con cui il Tar congela fino al 9 novembre la Zona a traffico limitato del comune di Palermo è una stroncatura in piena regola per l’amministrazione Orlando: Giovanni Tulumello, Auroira Lento e Lucia Maria Brancatelli non entrano nel merito, fissato fra ben otto mesi (circostanza singolare), ma nell’accettare la richiesta di sospensiva degli avvocati Dagnino e Scimone danno uno schiaffo al primo cittadino.

I giudici hanno considerato fondati alcuni dei profili di censura presentati dai ricorrenti. In poche parole puntano il dito contro l’attivazione contestuale delle due Ztl, che invece dovevano partire in fasi differenti e solo in seguito al consolidamento del sistema di trasporto urbano; contro l’adozione delle tariffe, visto che lo smog si poteva abbattere con misure più efficaci e a costo zero; contro l’insussistenza di un reale potenziamento della mobilità alternativa in grado di far lasciare la macchina a casa ai palermitani.

Il Tar inoltre scrive che le tariffe e la vastità dell’area “costituiscono un serio indizio della natura di sostanziale imposizione fiscale”: insomma, il pass è una tassa a tutti gli effetti, nonostante l’amministrazione dica il contrario. La tariffa invece, scrivono i giudici, deve essere solo un ulteriore disincentivo all’uso del mezzo privato, ma in presenza di concrete alternative che a Palermo però mancano. Il Tar arriva a definire contraddittorio e illogico il provvedimento di Orlando perché, pur avendo l’obiettivo di lottare contro l’inquinamento, di fatto privilegia l’aspetto economico del problema.

Insomma, l’ordinanza sembra più che altro una sentenza già scritta difficilmente ribaltabile. “In quanto avvocato tributarista - dice Alessandro Dagnino - sono soddisfatto che il Tribunale abbia confermato che il pass, per le modalità con cui è stato istituito, è una vera e propria tassa. Il Tar ha inoltre confermato, per la prima volta in Italia, la sussistenza del principio di gradualità: non si poteva istituire una Ztl così grande tutta in una volta. Bisognava procedere per tappe, altrimenti si trasforma tutto in una tassa. Infine i giudici dicono a chiare lettere che, considerata la natura radicale dei vizi riscontrati, non sarà possibile correggere il provvedimento”.


http://livesicilia.it/2016/04/06/ztl-sospesa-le-motivazioni-del-tar-illogica-non-garantisce-lambiente_735377/

Non si limita l'inquinamento facendo pagare il dazio, l'inquinamento va abbattuto prendendo seri e definitivi provvedimenti. Con lo ztl  i comuni battono cassa, senza ottenere alcun beneficio per l'ambiente.

CANAPA, LA PIANTA DI CUI NON SI BUTTA VIA NIENTE. - Valeria Gatti

Canapa, la pianta di cui non si butta via niente

Proibizionisti o no, la canapa potrebbe rappresentare una grande risorsa, anche per l'ambiente: ecco cosa possiamo fare con una pianta speciale di cui non si butta via niente.


La canapa, fin dall'antichità, è stata usata non solo per le sue proprietà mediche, ma anche a scopo alimentare, nella cosmesi e per la produzione di carta.
Tuttavia, negli ultimi anni, il suo utilizzo sta tornando alla ribalta grazie anche alla sua capacità di crescere velocemente e con poche risorse. Scopriamo tutti gli utilizzi.

Antiproibizionisti a ragione

Canapa sì o canapa no? Al di là dell'uso che ne viene fatto in campo medico, la canapa potrebbe essere un'ottima risorsa per il paese in cui viene coltivata, perchè il suo impiego si irradia in numerosi settori: dall'edilizia, alla cosmetica, passando per l'alimentazione, ma non solo.
Inoltre la canapa è un prodotto bio compatibile ed ecologico, poichè la sua coltivazione non richiede l'uso di pesticidi, erbicidi o fertilizzanti, ma anzi, bonifica e arricchisce la struttura dei terreni in cui viene messa a dimora.
Last but not least, è una pianta che ha una crescita rapida e abbondante, simile a una pianta infestante. Vediamo cosa si ottiene grazie alla canapa.

La carta di canapa

Anni fa, prima dell'avvento del proibizionismo, la canapa veniva ampiamente coltivata e utilizzata per la produzione della carta. Dalla canapa si può ricavare una carta resistente alle lacerazioni, ma anche al calore e alla luce.
Non viene nemmeno intaccata da muffe o insetti, per cui non ha bisogno di essere trattata chimicamente con acidi. Il suo utilizzo e la sua coltivazione per farne materiale cartaceo, eliminerebbe anche il problema dell'abbattimento degli alberi. 

Canapa come alimento

Per quanto riguarda l'alimentazione, la canapa viene oggi commercializzata e utilizzata soprattutto per i semi, la farina e l'olio.
L'olio di semi di canapa (diverso dall'olio di canapa farmaco, preparato galenico che solo i farmacisti possono realizzare) ha buone proprietà: antinfiammatorie, antiossidanti (grazie agli omega-3 e omega-6), abbassa il colesterolo e farebbe bene a chi soffre di gastrite e per le articolazioni (ideale per chi soffre di artrosi o artrite reumatoide).
La farina di canapa è adatta ai celiaci, non contenendo glutine, ed è molto nutriente, ricca com'è di sali minerali, amminoacidi preziosi e fibre.

Cosmetici alla canapa

La Bottega della Canapa o Verdesativa ne sanno qualcosa di vendita di prodotti naturali a base di canapa: si possono trovare saponi artigianali, ma anche prodotti per la bellezza e salute della pelle del viso, del corpo e dei capelli, sia per l'uomo che per la donna, che sfruttano le dosi benefiche, curative e profondamente nutrienti dell'olio di semi di canapa.

La canapa è usata anche per la produzione delle spugne vegetali: scopri come

Tessuti di canapa

Ideale per ricavarne tessuti, la canapa è calda d'inverno e fresca d'estate, anallergica, non assorbe gli odori e ha una vestibilità molto particolare.
In Italia, a causa del proibizionismo, non si può nemmeno coltivare per farne vestiti, per cui viene frequentemente importata dai paesi dell'est, dalla Moldavia per esempio. Bottega della Canapa, Altramoda, Fatti di Canapa, i punti utili on line per scoprire nuovi modi di vestire.
Francesca Tronca Hemp Fashion è la stilista portavoce di un modo di vestire ecologico e pulito.

Materiali edilizi con la canapa

Trattandosi di un ottimo isolante, la canapa è adatta per realizzare pannelli acustico e termo isolanti, traspirabili, salubri e leggere. Calcecanapa.it e Architetturaecosostenibile.it, due punti di riferimento utili.
Oltre ai classici pannelli si possono ralizzare anche fiocchi, feltri, materassini, pannellature, mattoni, vernici, smalti, colle, biocompositi e tessuti per il rinforzo strutturale.

Link utili

Andando al sito Usi della canapa si possono scoprire dove trovare i prodotti e quali punti vendita contattare per le diverse esigenze di impiego.  I prodotti a base di canapa sono ancora abbastanza cari:
  • mezzo litro di olio di canapa costa intorno alle 20 euro;
  • mezzo chilo di pasta alla canapa costa intorno ai 3 euro;
  • una giacca di canapa non costa meno di 100 euro.

I mille usi della canapa


mercoledì 6 aprile 2016

Corruzione in sanità costa 6 mld l'anno, casi in 37% asl.

Una corsia di ospedale

Cantone, scorribanda delinquenti di ogni risma.


La corruzione in Sanita' sottrae fino a 6 miliardi l'anno all'innovazione e alle cure ai pazienti. E in una azienda sanitaria su tre (37%) si sono verificati episodi di corruzione negli ultimi 5 anni, 'non affrontati in maniera appropriata'. Lo affermano i dirigenti delle 151 strutture sanitarie che hanno partecipato all'indagine sulla percezione della corruzione, realizzata da Transparency International Italia, Censis, Ispe-Sanita' e Rissc. 
"La sanità - afferma il presidente dell'Autorità nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone - per l'enorme giro di affari che ha intorno e per il fatto che anche in tempi di crisi è un settore che non può essere sottovalutato, è il terreno di scorribanda da parte di delinquenti di ogni risma".

Ad ogni modo, ha sottolineato Cantone, "abbiamo comunque una sanità che assicura standard elevatissimi, ma va considerato che la corruzione abbassa anche il livello dei servizi". Quanto ai numeri, ha aggiunto, "sarei molto cauto, ma credo che vi sia un problema molto significativo sia di sprechi sia di fatti corruttivi". Per questo, ha avvertito, "siamo intervenuti mettendo in campo un nuovo piano anticorruzione concordato anche con i tecnici del ministero della Salute". Cantone ha quindi rilevato come ormai la corruzione si sia oggi "trasformata e la mazzetta tradizionale - ha detto - è rimasta quasi solo un ricordo". Il trend è comunque "stabile - ha aggiunto - ma la sanità è il settore in cui il problema della corruzione è sempre stato alto, confermandosi ai primi posti per rischi corruttivi".
Liste attesa snodo corruzione su cui agire"Contro la corruzione nella sanità - ha continuato Cantone - abbiamo messo in campo strumenti nuovi, abbiamo fatto delle linee guida ed individuato gli snodi su cui intervenire: primo fra tutti quello delle liste di attesa, ma anche gli ambiti legati alle aziende farmaceutiche e persino, ad esempio, la gestione delle sale mortuarie. "Sarebbe bello - ha detto - che le liste d'attesa potessero essere trasparenti, ma ciò è molto difficile, perché ci sono in gioco i valori della privacy. Dobbiamo però intervenire e fatti come quello di Salerno (dove sono stati effettuati arresti per mazzette sulle liste di attesa) mi inquietano". Per questo nel "nostro piano anticorruzione - ha sottolineato Cantone - abbiamo indicato le liste di attesa proprio come una delle maggiori criticità". Bisogna, ha concluso, "creare nella sanità 'anticorpi anticorruzione', a partire dagli operatori".

Controlli in Asl su rispetto anticorruzione
"Stiamo per firmare un nuovo protocollo con il ministero della Salute, per avviare stretti controlli al fine di verificare se le Asl si sono adeguate alle norme ed i piani anticorruzione; andremo cioè a controllare come i piani anticorruzione vengono applicati". Lo ha annunciato il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, intervenendo in occasione della prima giornata nazionale contro la corruzione in sanità. "Lo faremo con i tecnici del ministero della Salute - ha spiegato Cantone - per capire se le Asl rispettano veramente tali norme o se si tratta solo di un rispetto 'sulla carta'". Inoltre, ha sottolineato, "con l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali Agenas stiamo lavorando per mettere a punto un codice etico forte, che non sia però carta straccia". Il punto, ha concluso, è che "non si può intervenire solo con la repressione e dopo, ma mettendo in campo una serie di strumenti preventivi che cambino la mentalità".

Faraone, 2 mln italiani pagato bustarelle per Sanità
Il settore sanitario "continua ad essere tra i più colpiti dal virus della corruzione: ben 2 milioni di italiani hanno pagato 'bustarelle' per ricevere favori in ambito sanitario e 10 milioni hanno effettuato visite mediche specialistiche in 'nero'". Lo ha affermato il sottosegretario all'Istruzione, Università e Ricerca, Davide Farone, in occasione della prima Giornata nazionale contro la corruzione in sanità. Corruzione e frodi nella sanità, ha sottolineato, "valgono 6 miliardi di euro". La corruzione in Sanità, ha avvertito Faraone, costa dunque ''almeno 6 miliardi di euro, cioè più del 5% della spesa sanitaria pubblica. Queste sono le risorse distolte dai servizi sanitari a causa di corruzione e frodi''. Un quadro aggravato dal fatto, ha aggiunto Faraone in un messaggio inviato in occasione della Giornata nazionale contro la corruzione in sanità, che ''il 54% degli italiani è convinto che la sanità nel nostro Paese sia corrotta''. È un dato, ha ricordato, che ''ci pone al 69/mo posto nel ranking del Global CorruptionBarometer, che classifica 107 Paesi del mondo. L'Italia è preceduta da tutti i Paesi europei più avanzati''.

806 mln danno erariale per frodi e sprechi in Sanità
Per Faraone il fenomeno della corruzione in Sanità ''è consistente e lo dimostrano anche i dati della Guardia di finanza, che da gennaio 2014 a giugno 2015 ha scoperto frodi e sprechi nella spesa pubblica sanitaria che hanno prodotto un danno erariale per 806 milioni di euro, pari al 14% del danno erariale complessivo''. ''Stiamo mettendo in campo, come Governo nazionale - ha sottolineato il sottosegretario - molte azioni per combattere questa piaga. Lo scorso anno il Parlamento ha approvato il disegno di legge anticorruzione. Oltre ad aver ripristinato il reato di falso in bilancio, abbiamo anche dato più poteri all'Anac, l'autorità nazionale anti corruzione''.

martedì 5 aprile 2016

Panama Papers, 10 cose da sapere sulla più grande fuga di notizie di tutti i tempi. - Stefano Vergine



Chi è la fonte dei documenti? E' legale avere una società offshore? Davvero non ci sono cittadini americani nella lista? Perché sono stati publicati solo pochi nomi dei circa 800 italiani coinvolti? Ecco tutto quello che conta per capire il grande scandalo finanziario che fa tremare politici e vip. 


Cosa vuol dire Panama papers?
Panama Papers è il nome dato agli 11,5 milioni di documenti emersi grazie a un’inchiesta giornalistica, la più grande fuga di notizie finanziarie della storia. L'inchiesta è stata svolta a livello internazionale da 378 giornalisti, appartenenti a testate di diversi Paesi, associate nel "The International Consortium of Investigative Journalists" (ICIJ). Per l'Italia, il lavoro è stato svolto in esclusiva da "l'Espresso". L'inchiesta " Panama Papers " riguarda lo studio legale Mossack e Fonseca di Panama, una delle più grandi "fabbriche" al mondo di società offshore. Il nome Panama Papers è stato scelto in riferimento ai "Pentagon Papers", i documenti che hanno messo a nudo le menzogne del segretario alla difesa di Nixon sulla guerra in Vietnam, pubblicati nel 1971 dal New York Times.

Cosa vuol dire offshore?
Offshore, in gergo finanziario, significa "all'estero".
Più nello specifico il termine indica paesi in cui si pagano tasse molto basse, a volte pari quasi a zero, e la proprietà di società e conti correnti è segreta. Questi stati sono spesso utilizzati da chi cerca di rendere irrintracciabile una parte o tutta la propria ricchezza. Per avere un'idea di quali sono i più utilizzati, può essere utile scorrere la lista degli Stati inseriti dal governo italiano nella cosiddetta black list .


Panama Papers: così vip e potenti del mondo hanno nascosto miliardi nei paradisi fiscali
È la più grande fuga di notizie nella storia della finanza. Undici milioni e mezzo di file segreti su oltre 200mila società offshore. Create dallo studio Mossack Fonseca di Panama. Ecco gli affari riservati degli uomini di Putin, della famiglia Cameron, dei vertici comunisti cinesi. Insieme a star come Leo Messi e Jackie Chan


Da dove arrivano questi documenti?
Una fonte anonima, un "whistleblower", è entrato in possesso di migliaia di documenti dello studio Mossack Fonseca: 2,6 terabyte di materiale. La fonte lo ha passato al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung che, di fronte a una montagna di dati, si è rivolto ad ICIJ per condividere la ricerca e scoperchiarne il contenuto. In quanto unico partner italiano di ICIJ, "l'Espresso" ne è entrato in possesso.


Che cos'è Mossack Fonseca?
E' uno studio legale fondato a Panama nel 1977 e specializzato nella creazione di società registrate nei paradisi fiscali. Lo studio, considerato uno dei cinque migliori al mondo nel suo settore, è stato fondato da due avvocati. Uno è Jurgen Mossack, figlio di un nazista delle Waffen SS, che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si trasferì a Panama. L'altro è Ramon Fonseca, panamense, che ha studiato alla London Schools of Economics e ha lavorato nella sede dell'Onu di Ginevra prima di fare ritorno in America Centrale. Lo studio Mossack Fonseca ha 40 uffici nel mondo e circa 500 dipendenti. Fino a qualche tempo fa Ramon Fonseca è stato uno dei consiglieri del presidente panamense Juan Carlos Varela. A inizio marzo lo studio è stato coinvolto nell'inchiesta per corruzione che i magistrati brasiliani stanno conducendo sulla Petrobras, l'azienda petrolifera controllata dal governo di Brasilia. Quando la notizia è emersa,  Ramon Fonseca si è dimesso dalla carica di presidente. Sull'inchiesta Panama Papers, lo studio Mossach Fonseca si è difeso spiegando che non è responsabile di quello che i suoi clienti fanno con le società che lo studio crea per loro.


Panama Papers, una fonte anonima e un anno di lavoro per svelare i segreti offshore
Oltre 300 giornalisti di tutto il mondo per analizzare un'immensa banca dati finanziaria. La stessa su cui ora indagano le autorità fiscali negli Stati Uniti e in Germania, tra società fiduciarie e conti bancari


Che cos'è l’ICIJ?
E' un consorzio internazionale di giornalismo investigativo                                                                      Fondato a Washington nel 1997 dal giornalista americano Chuck Lewis, il network conta oggi 190 giornalisti di 65 Paesi. E' specializzato soprattutto in indagini su corruzione e crimini transnazionali. Il consorzio ha già pubblicato diversi lavori: l'ultimo dei quali, nel 2014, sul Lussemburgo. Intitolata Luxleaks, l'inchiesta svelò per la prima volta gli accordi riservati tra multinazionali e governo del Lussemburgo per ottenere risparmi fiscali. Un sistema che toglie denaro alle economie di diversi Paesi, regalandole invece a quella del Granducato. L’Icij è un'organizzazione non profit che basa il proprio finanziamento sulle donazioni. Alcuni dei finanziatori sono: Adessium Foundation, Open Society Foundations, The Sigrid Rausing Trust, the Fritt Ord Foundation, the Pulitzer Center on Crisis Reporting, The Ford Foundation, The David and Lucile Packard Foundation, Pew Charitable Trusts and Waterloo Foundation.

Chi è coinvolto?
L'inchiesta Panama Papers riguarda più di 214 mila società offshore collegate a persone residenti in oltre 200 Paesi. Il lavoro di indagine ha permesso di rivelare l'esistenza di società offshore riconducibili, direttamente o indirettamente, a 140 fra politici e uomini di Stato nel mondo. Fra questi, ci sono 12 attuali ed ex leader politici . Tra i più noti emersi finora: i primi ministri di Islanda e Pakistan, i presidenti di Ucraina e Azerbaigian, il re del Marocco e dell'Arabia Saudita, il presidente della Federazione russa, il premier del Regno Unito. Sono inoltre emersi i nomi di 550 banche che, attraverso lo studio legale panamense Mossack Fonseca, hanno creato più di 15 mila società offshore. Per l'Italia i nomi sono quelli di Ubi e Unicredit .



Perché ci sono solo quattro nomi italiani?
I Panama Papers contengono i nomi di circa 800 italiani. Quattro sono stati rivelati per la prima volta domenica sul sito de "l'Espresso" , in concomitanza con l'uscita dei primi risultati dell'inchiesta sulle altre testate partner di ICIJ. Gli altri nomi degli italiani verranno pubblicati nei prossimi giorni da "l'Espresso" che dedicherà al caso la sua copertina di venerdì 8 aprile nel numero in edicola. Per evitare casi di omonimia, il giornale ha deciso di pubblicare i nomi degli italiani presenti nei Panama Papers solo dopo averne verificato la loro identità.



Cosa c’entra Panama?
Panama è al centro della vicenda perché nel piccolo Paese dell'America centrale ha il suo quartier generale lo studio legale Mossack Fonseca, epicentro dell'inchiesta. Mossack Fonseca ha creato, per conto dei suoi clienti, società in moltissimi paradisi fiscali. A Panama, appunto, ma anche in altre nazioni dove il segreto bancario è massimo e il regime fiscale bassissimo: Bahamas, British Virgin Islands, Gibilterra, Lussemburgo, Svizzera, Samoa, Seychelles e tanti altri.

E’ legale avere un conto offshore?
Avere un conto corrente o una società offshore non è illegale di per sé. Nel caso dei cittadini italiani, diventa illegale se non lo si comunica alle autorità fiscali: in pratica se non lo si inserisce nella dichiarazione dei redditi. Di questo l'inchiesta giornalistica Panama Papers non si occupa, non avendo accesso ai dati fiscali delle persone in questione. "L'Espresso" si limita a segnalare, dopo opportune verifiche, gli italiani che risultano azionisti, amministratori o beneficiari di società create da Mossack Fonseca e registrate in paradisi fiscali.

E’ vero che non ci sono americani coinvolti e che è un complotto contro Putin finanziato da Soros?
Sui forum e sui social network in molti si sono chiesti perché, nei primi articoli usciti, non siano apparsi nomi di cittadini americani. Per qualcuno la mancanza non è casuale, ma dettata da una precisa regia di matrice statunitense. Tesi argomentata con il fatto che uno dei politici coinvolti dallo scandalo è il grande nemico degli Usa, Vladimir Putin. E che tra i finanziatori di ICIJ c'è la Open Society Foundations di George Soros, finanziere vicino agli Usa e arcinemico di Putin.
I Panama Papers contengono in realtà migliaia di nomi di cittadini americani, ma nessuno di eccellente è finora emerso dalle verifiche. Il lavoro delle varie testate del consorzio, fra cui "l'Espresso", sta continuando, ed è quindi possibile che nomi di cittadini americani appaiano in futuro. Va notato anche che molte società offshore sono registrate proprio negli Usa, negli Stati del Delaware e del Nevada, noti paradisi fiscali. E che l'ICIJ, in altre inchieste come quella intitolata Luxleaks , ha scoperto il coinvolgimento di diverse multinazionali americane.


 read:http://espresso.repubblica.it/inchieste/2016/04/04/news/panama-papers-10-cose-da-sapere-sulla-piu-grande-fuga-di-notizie-di-tutti-i-tempi-1.256879

L’Italia senza fibra che naviga quattro volte più lenta della Corea. - Giacomo Galeazziilario Lombardo


Connessione in rame anni 90 e mezzo Paese non usa Internet. Ma le aziende promettono una velocità irraggiungibile.

L’Italia è una Repubblica fondata sui 56K, in pratica la velocità di Internet negli anni 90. Su 28 Paesi dell’Ue è al 25° posto dell’indice europeo di digitalizzazione (Desi). E se in Corea del Sud, leader mondiale, la velocità media di connessione è di 20,5 megabit, e in Svezia, leader europeo, è di 17,4 mega, noi siamo fermi a 5,4 mega. In Italia il servizio universale garantito per legge è fermo al doppino di rame collegato al modem. Per questo, mentre giovedì è atteso l’ennesimo lancio del piano di governo sulla banda ultralarga, l’Autorità garante nelle comunicazioni chiede un salto tecnologico nella qualità minima dei servizi di accesso a Internet. «In Italia ci sono le condizioni per passare dai 56K ad almeno 2 mega» spiega il presidente dell’Agcom Angelo Cardani. 2 mega vuol dire il minimo necessario per parlare di Adsl, un sistema di connessione che a oggi è preistoria. Intendiamoci, qui stiamo ancora discutendo di «accesso efficace» alla Rete, mentre ci sono Paesi come la Finlandia che dal 2010 garantiscono un megabit gratuito a ogni cittadino, nella convinzione che Internet sia un bene (pubblico) necessario. Per capirsi: 56K è la banda stretta. Con l’Adsl si entra nella banda larga che ancora domina in Italia. Il mondo è proiettato ormai verso la banda ultralarga, cioè una velocità che va da 30 mega in su, più facile da ottenere grazie alla fibra ottica. I ritardi dell’Italia sono sintetizzati in cifre impietose. La copertura di banda ultralarga (superiore a 30 mega) è ferma al 44% contro una media Ue del 71%. Quella a 100 mega è inchiodata al 10,2% contro l’85% richiesto dall’Europa entro il 2020. Gli italiani che hanno abbonamenti sopra i 30 mega sono il 5,4% (il 30% nell’Ue).  

I buchi neri della Rete  

Quando è arrivato a Genova, da Montreal, per il suo dottorato, Sandro Bettin ha trovato una brutta sorpresa: «Non ho potuto sottoscrivere un abbonamento Adsl. A casa mia la rete fissa non esiste». Prima il rimpallo di responsabilità tra Infostrada e Telecom, poi gli hanno spiegato che non c’erano linee disponibili nella centralina di zona. Nella condizione di Sandro si trovano altri cittadini finiti nei buchi neri della Rete. Un paradosso mentre si parla sempre di più dell’esigenze di definire Internet un servizio universale. Al ministero dello Sviluppo economico il dossier connettività è affidato al sottosegretario Antonello Giacomelli. La scorsa settimana ha chiesto al commissario Ue Günther Oettinger che la Rete diventi davvero un diritto per tutti, come strade, acqua, poste. Peccato però che la fotografia dell’Italia dica il contrario e immortali un Paese a due velocità, con due terzi dei Comuni senza banda ultralarga e 19 milioni di cittadini che vivono nelle «aree bianche». Sono zone «a fallimento di mercato» dove i privati non trovano conveniente investire in infrastrutture di rete. Sono 5 mila comuni su 8 mila. Si va dalla periferia di Roma al paesino di montagna. 

Il caso Telecom  

La causa principale dei ritardi risale a una privatizzazione mal gestita che ha regalato la proprietà della rete fissa all’ex monopolista Telecom. Quando il rame sembrava la miglior soluzione, la compagnia investì in rame. Quando si cominciò a parlare di fibra ottica, rimase al rame. Una delle migliori reti in rame del mondo, ma cosa te ne fai quando le performance più efficaci ormai viaggiano su fibra? Telecom, anche per l’impressionante debito accumulato, non ha investito nelle nuove tecnologie. Perché farlo, è l’ovvio ragionamento, se così si svaluta la propria rete? «Ma la sola logica di mercato non garantisce il futuro» spiega Alessio Beltrame, a capo della segreteria tecnica del Mise. Il governo ha buon gioco a scaricare su chi lo ha preceduto le responsabilità sul digital divide mentre non nasconde una certa ostilità nei confronti di Telecom, avendo affidato a Enel il compito di portare la fibra nelle case degli italiani per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda europea 2020. Anche i più ottimisti pensano che l’Italia, con la burocrazia che ha e i permessi che servono, non ce la farà. Renzi ha dato un’accelerata ma gli scenari restano aperti. Al centro c’è la sfida Telecom-Enel e l’incognita su Metroweb, la società pubblica, che ha il suo gioiello nella rete a banda ultralarga di Milano.  

Il piano strategico del governo divide l’Italia in quattro zone (cluster): A e B sono le più remunerative. C e D sono le «aree bianche» dove è necessario l’intervento pubblico. Il governo vuole partire da quest’ultime con 3 miliardi di stanziamento. L’obiettivo è arrivare con la fibra a casa, l’unica che permette di andare anche molto oltre i 100 mega: è la Ftth (Fiber to the home) che garantisce velocità di connessione più alta rispetto alla Fttc (to the cabinet) che porta la fibra fino all’armadio in strada e poi prosegue sul rame. Un sistema misto che Telecom, contattata dalla Stampa, difende: «Se la casa non è lontana, e in genere in Italia è così, su 100 mega di velocità il rame fa perdere al massimo il 5% di velocità. Fare anche l’ultimo quinto di collegamento in fibra è più costoso perché si deve entrare nei condomini». Enel invece, sostenuta dal governo, dice di essere in grado di portare a costi ridotti la fibra in casa, attraverso la posa aerea e la sostituzione di 32 milioni di contatori elettrici. Una rete che verrebbe affittata agli operatori interessati a fornire il servizio, come Vodafone e Wind che hanno già sottoscritto un accordo con Enel. A occuparsi dei bandi di gara nelle «aree bianche» sarà la società pubblica Infratel. Il suo presidente, Salvatore Lombardo, ha chiare le conseguenze per Telecom: «Offrendo la fibra fino a casa, Vodafone e Wind potrebbero prendersi i clienti di Telecom. Se Telecom sta ferma, perde posizioni di mercato. Se invece reagisce e sposa la nuova infrastruttura, la sua rete in rame non servirà più».  

Il recente passaggio di Telecom in mani francesi ha rimesso in pista l’ipotesi di scorporare la rete dell’ex monopolista, che a quel punto non è detto non possa tornare allo Stato magari a un prezzo inferiore. «La rete vale ancora 13 miliardi ed è l’unica garanzia del debito con le banche» spiega Maurizio Matteo Dècina, ex vicepresidente dei piccoli azionisti Telecom, esperto di banda larga. «Lo Stato comprando la rete potrebbe accorparla alle altre, compresa Enel, e creare una società unica delle reti». Dècina sta per uscire con un libro, Digital divide et impera, che svela l’altra forte carenza italiana, dopo quella infrastrutturale: la scarsità di domanda.  

Analfabetismo digitale  

In un Paese dove, secondo il Desi, il 37% della popolazione non usa Internet, parlare solo di reti è come costruire autostrade mentre i cittadini non hanno la patente. «Il governo dovrebbe invertire la prospettiva - dice Dècina - perché è la domanda che crea l’offerta». E dovrebbe farlo a partire dalla pubblica amministrazione, il cui livello di digitalizzazione (e-government), nonostante i proclami, è ancora basso. Un esempio è l’e-procurement, cioè l’acquisto dei beni e servizi via web che sfoltirebbe molti costi ma che ancora non supera il 10%. Il Sistema di identità digitale (Spid, password per l’uso dei servizi pubblici) va ancora a rilento, e rischia di creare ulteriori discriminazioni, come spiega Guido Scorza, docente di Diritto delle nuove tecnologie: «Avremo cittadini che potranno esercitare i propri diritti per via telematica e altri no, a causa del gap tecnologico». Il digital divide si allargherebbe. La diffusione della banda ultralarga deve rispondere a questo, tenendo presente che copertura e utenza effettiva sono due cose ben diverse. Lo insegna il caso della Calabria, al primo posto per cablaggio, in una classifica nazionale capovolta. Le regioni del Sud sono più avanti sulla banda ultralarga perché hanno usato i fondi comunitari 2007-2013. Altra cosa sono le connessioni effettive, quasi nulle: ci vorrebbero sistemi di incentivi e sconti per poveri, studenti, malati, disoccupati. «Infatti pensiamo a voucher e buoni per stimolare la domanda» ammette Beltrame.  

Dal turismo alla telemedicina, il futuro dell’economia passa dalla fibra. Secondo la Commissione Ue e la Banca Mondiale, a un aumento del 10% di penetrazione della banda larga corrisponde un punto e mezzo di Pil. Intanto c’è chi si arrangia. Il piccolo centro di Serramanna, nel cuore della Sardegna, sarebbe potuto diventare un rivoluzionario laboratorio di finanza online. Qui nel 2010 nasce Sardex, un circuito di credito commerciale basato su una moneta digitale locale: una delle prime 20 startup innovative oltre il milione di euro di fatturato, malgrado le croniche difficoltà di accesso a Internet. Dai 56K degli inizi all’Adsl da 7 mega, fino al potenziamento della centralina per intervento del governo. «Ma gli attuali 20 mega non ci bastano per 30 dipendenti sempre connessi», racconta Carlo Mancosu, uno dei cinque fondatori di Sardex.  

È vera fibra?  

In Italia dal 2012 esiste un software di Agcom (Misura Internet), l’unico che certifica la reale qualità della connessione rispetto al servizio acquistato e permette di recedere senza penale. Su 50 mila casi l’80% di misurazioni ha attestato la violazione del contratto. La sfida della fibra servirà anche a far chiarezza sulle offerte commerciali proposte dalle compagnie telefoniche. Tim smart fibra, Wind absolute fibra, Ultrafibra di Fastweb. C’è stato un palese abuso del termine «fibra» nelle campagne pubblicitarie, nonostante la tecnologia sia ibrida e poggi anche sul rame, come un maglione che viene venduto in lana ma per metà è di poliestere. Nelle condizioni di contratto si specifica che l’offerta è la fibra fino al cabinet «Ma guardando la pubblicità in tv sembra che la fibra arrivi ovunque fino a casa» ci spiegano da Altroconsumo che tra i tanti reclami raccolti ha quello di Stefano, cliente Fastweb dal 2011, che dopo aver sottoscritto un aumento della banda da 10 a 100 mega, si è trovato a navigare in wi-fi a metà della velocità. O ancora Chiara F. che lo scorso ottobre ha stipulato un abbonamento Superjet di Fastweb da 20 mega ma non arriva neppure a uno. Appena tre giorni fa, in Francia un decreto ha stabilito che si può definire «fibra» solo quella che arriva fino a casa (Ftth). «Quando anche in Italia la fibra in casa arriverà davvero - sorride Beltrame - mi chiedo quale superlativo inventeranno le aziende visto che li hanno usati tutti». 

http://www.lastampa.it/2016/04/03/italia/cronache/litalia-senza-fibra-che-naviga-quattro-volte-pi-lenta-della-corea-BMlawdJKuIy1BuJcVuF1BL/pagina.html

E mentre in Finlandia credono che la fibra sia un bene pubblico, in Italia chi comanda ha paura che una connessione veloce possa creare vari problemi o intoppi alle loro magagne, sappiamo tutti, infatti, che dominare gli ignoranti è più semplice che abbindolare gli edotti.