sabato 10 agosto 2019

"Il voto ora è un indispensabile strumento di igiene politica". - Antonio Padellaro


Nella stranota figura del dito che indica la luna, oggi serve davvero a poco occuparsi delle convulsioni finali del contratto gialloverde, con le inevitabili elezioni anticipate. Soprattutto quando la luna è il faccione di Matteo Salvini, che sembra destinato molto presto a prendersi lui tutto il governo, e il Paese, alla guida di una minacciosa maggioranza sovranista di destra-destra. Un futuro da brividi per chi scrive (e forse anche per chi legge) ma, seguendo lo schema di Rino Formica (intervista al manifesto) è “la soluzione democratica”, unica alternativa all’uso della forza e addirittura alla “guerra civile”. Più ottimisti del vecchio saggio socialista, noi riteniamo che evocare la guerra civile sia soltanto un cupo espediente retorico per richiamare la più alta istituzione del Paese, che siede al Quirinale, all’esercizio delle sue prerogative costituzionali.
Compito a cui Sergio Mattarella non intende certo sottrarsi, e neppure il premier Giuseppe Conte decisissimo a denunciare davanti al Parlamento, e con la massima trasparenza, il cinismo del vicepremier “da spiaggia”, che affamato di potere butta giù i governi come fossero i suoi personali castelli di sabbia. 
Dunque, prossimamente, a Palazzo Madama e a Montecitorio andrà in scena il prologo di una campagna elettorale decisiva per comprendere se la democrazia che ci attende sarà la democratura autoritaria di ispirazione putiniana (e imbottita di rubli). O se riusciremo a difendere e conservare i pilastri di quella democrazia costituzionale nata, quella volta sì, da una guerra civile chiamata Resistenza.
Anche oggi, per l’Italia repubblicana e in un clima fortunatamente di pace, tertium non datur: o di qua o di là. Per cui, ormai agli sgoccioli e sancita la fine del Salvimaio, questo diario considera il ricorso al voto un indispensabile strumento di igiene politica per almeno tre motivi.
Primo: se nell’arco di un anno un partito raddoppia i consensi - con il 34% delle elezioni europee, veleggiante verso il 38 e forse anche il 40% - e se a cavalcare questa gigantesca onda è un personaggio accolto nelle piazze (e sugli arenili) come il nuovo uomo della Provvidenza, molto difficilmente quest’uomo (che non è certo un De Gasperi) rinuncerà a considerare Palazzo Chigi come il suo naturale domicilio. Tanto più se costui viene riconosciuto come l’unico e sommo leader della destra più destra mai vista in Italia dalla caduta del fascismo (quella formata da Fratelli d’Italia, dagli ascari di Forza Italia modello Toti, e forse anche da un fu Silvio Berlusconi oggi miniaturizzato). Coalizione che secondo gli ultimi sondaggi sfiorerebbe il 50%: praticamente la maggioranza assoluta nelle nuove Camere.
Come si fa a non tenerne conto?
Secondo: l’igiene elettorale non può che fare bene al M5S, sfibrato, debilitato, vampirizzato dalla convivenza governativa con il Dracula del Carroccio. Attraverso il ritorno a una sana opposizione i Cinque Stelle potranno procedere nei tempi giusti al necessario rinnovamento interno, degli uomini, delle strutture e dei programmi. Se destinata a finire sotto il tallone del salvinismo (parola che fa rima con altri raggelanti ismi) la democrazia italiana avrà la necessità di affidarsi a una minoranza combattiva che in Parlamento e nelle piazze sappia tenere alto il vessillo della legalità. E più di qualcuno, vedrete, rimpiangerà quella classe dirigente giovane, forse inesperta, ma bombardata senza tregua dai cosiddetti grandi giornali e nei talk show, ma che a confronto con il sistema Savoini&Casapound sembrerà la scuola di Atene.
Terzo: del gruppo dirigente di questo Pd, indeciso a tutto tranne che a farsi vicendevolmente le scarpe, fa perfino rabbia parlare. Soprattutto se, come accaduto sulle mozioni Tav, Zingaretti e soci non esitano a spianare la strada a Salvini, ritagliandosi in un ipotetico, futuro bipolarismo la triste funzione di opposizione di comodo.
Fortunatamente, da questa parte, oltre agli apparati con le loro ridicole rendite di posizione esiste un fertile e vasto mondo che continua ad avere come saldo riferimento i valori della Costituzione, e della chiesa di Papa Francesco.
Basta girare per l’Italia delle università, delle mille iniziative culturali, delle librerie, della solidarietà per rendersi conto che l’alternativa al Papeete Beach vive e lotta per tornare a guidare il paese quando, prima o poi, l’onda della destra s’infrangerà sugli scogli. La partita non è affatto persa. Coraggio.

Niente pastrocchi. - Marco Travaglio FQ 10 agosto

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Nella crisi più pazza del mondo, capita anche questo: che il cazzaro primigenio, Renzi, auspichi la cosa più sensata mai detta da un pidino da mesi. E cioè che, contro la destraccia salvinista, l’unico governo possibile è fra 5Stelle e Pd. Purtroppo la proposta ha tre difetti.
1) Arriva con 14 mesi di ritardo e non sarebbe più - come a maggio 2018 - l’unione fra il primo e il secondo partito delle Politiche, ma tra i due sconfitti alle Europee contro chi le ha vinte.
2) Viene da Renzi, che ormai ha la credibilità di Pamela Prati e tifa per il taglio dei parlamentari perché, al prossimo giro, non ne avrà più neanche uno.
3) Sarebbe un regalo a Salvini, che già inizia a pagare caro il suo tradimento di sfasciatutto irresponsabile (è subissato di insulti sui suoi social, specie dopo la ferma risposta di Conte, suo unico vero competitor) e non vede l’ora di farlo dimenticare addossandolo ai 5Stelle e strillando al ribaltone.
Certo, la metà e più dell’Italia che guarda con orrore e terrore alla prospettiva di avere presto un monocolore Salvini che si crede il Duce e parla come lui (senza neppure esserlo) a colpi di “Voglio pieni poteri”, “Ordine e disciplina”, “La giustizia la riformo io” accetterebbe di tutto, pur di allontanare l’amaro calice. Anche un ribaltone. Che sarebbe costituzionalmente ineccepibile (avrebbe la fiducia del Parlamento) e moralmente giustificabile (a brigante, brigante e mezzo). Ma politicamente a dir poco discutibile, mettendo insieme il secondo e il terzo partito per far fuori il primo. Con tutti i rischi che comportano, le elezioni restano la via maestra. Se a ottobre o a primavera, lo deciderà il Parlamento, dove Conte ha saggiamente portato la crisi in piena trasparenza.
Lì il premier esporrà le riforme in cantiere che Salvini ha bloccato col suo colpo di mano e chiederà la fiducia. La Lega gliela negherà. Il M5S gliela confermerà e nessuno può impedire ad altri di fare altrettanto. Se il Pd gli votasse la fiducia, il governo Conte resterebbe in piedi, senza i ministri leghisti (sostituibili con gli attuali vice o con personalità esterne). Per fare poche cose prima delle elezioni a primavera: la legge di Bilancio, scongiurando le conseguenze inevitabili di un voto a fine ottobre (esercizio provvisorio, spread ecc.); l’ok al taglio dei parlamentari; e la conseguente revisione della legge elettorale.
Chissà che i pochi mesi trascorsi a collaborare, senza nuovi governi né ribaltoni, non inneschino la scintilla che noi auspichiamo da anni fra un centrosinistra totalmente rinnovato e ripulito e un M5S più maturo e meno improvvisato sotto la guida di Conte. Per salvarci da Salvini non prima né contro le elezioni. Ma dopo.

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Di Maio “richiama” i big. Ma ora al bivio c’è il Pd. - Luca De Carolis

Di Maio “richiama” i big. Ma ora al bivio c’è il Pd

Il capo dei 5Stelle raduna Casaleggio, Di Battista e altri maggiorenti e promette “collegialità”. Si punta sul taglio dei parlamentari. Ma le offerte dei dem agitano: “Rischiamo”

Il capo non può più stare solo lassù, non può più decidere da solo o con la sua cerchia ristretta, perché è al bivio che vale tutto. Da una parte c’è la guerra all’orizzonte, la campagna elettorale che mai avrebbe voluto, e dall’altra il Pd, perfino Matteo Renzi e i suoi, che bussano alle sue porte promettendo aiuto per il taglio dei parlamentari e soffiando una parola che può essere dannazione, accordo. Ma da qui in avanti Luigi Di Maio la rotta dovrà deciderla con gli altri, perché è in ballo la sopravvivenza del Movimento, e perché lui non è quello del 33 per cento. Per questo mentre viene giù tutto il tuttora vicepremier raduna a Roma in una casa sul Lungotevere gran parte di quelli che pesano nel Movimento: Davide Casaleggio, i ministri e pretoriani Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, i capigruppo alle Camere Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva, i molto inquieti Nicola Morra e Paola Taverna, quel Max Bugani appena dimessosi da suo vice-caposegretario e ovviamente Alessandro Di Battista, l’ex deputato con cui era furioso ma a cui dovrà chiedere di recuperare entusiasmo e voti.
VOTO SU ROUSSEAU.
Si pensa di far votare gli iscritti sul web sulla ricandidatura degli eletti uscenti
Di fronte a loro ammette (alcuni) errori e soprattutto promette “collegialità”. Ovvero che le decisioni importanti passeranno da lì, da un caminetto con le varie anime del M5S. Per questo Di Maio chiede a tutti di parlare chiaro, di dire come la pensano. Partendo da quella che è la prima urgenza del Movimento, rendere legge il taglio dei parlamentari prima del voto sulla mozione di sfiducia per il premier Giuseppe Conte. Una bandiera che si potrebbe sventolare, ma anche e soprattutto la via per far slittare il voto anticipato, perché tagliare 345 eletti imporrebbe di ridisegnare i collegi elettorali, e sarebbero necessari mesi per farlo. E in quel lasso di tempo chissà cosa potrebbe accadere in Parlamento.
Però il prezzo per i 5Stelle rischia di essere l’anima, perché per realizzare un’impresa quasi impossibile nei numeri e soprattutto nei tempi dovrebbero accordarsi con il Pd delle mille anime e delle mille trappole, che già chiede di più, un patto per un’altra maggioranza di governo. “Ma una cosa del genere potrebbe ucciderci” riassume un big del M5S. Perché lo sanno, i 5Stelle, che i messaggi e le telefonate dei dem (nonostante il niet del segretario Nicola Zingaretti) sono una porta con vista sull’inferno, la via che renderebbe facilissimo a Matteo Salvini gridare all’inciucio.
Per questo il leghista già ammicca: “Sento che ci sono toni simili tra Pd e M5S, ma un governo Renzi-Di Maio sarebbe inaccettabile per la democrazia”. Infatti il Movimento replica con sillabe violente: “Caro Salvini stai vaneggiando, inventatene un’altra per giustificare quello che hai fatto giullare”. E non a caso nella riunione romana, con toni e modi diversi, la maggioranza dei big rifiuta le offerte che lo staff del M5S nega ma che sono evidenti, rumorose. Almeno ora, perché dopo il voto chissà. Ma nell’attesa il taglio degli eletti con il quarto, definitivo passaggio a Montecitorio va rincorso in ogni modo. Lo dicono tutti, all’incontro di ieri. E la linea prevalente è: portiamolo a casa, poi si vedrà. Ovvero, un passo alla volta. Però Roberto Fico, il presidente della Camera, si sente di continuo con Di Maio. E gli ha confermato quanto sia difficile approvare la legge. Perché è vero, un terzo dei deputati basta per convocare d’urgenza l’Aula, e il M5S li ha. Però è necessario che la capigruppo della Camera, convocata per martedì, cambi il calendario a maggioranza. Nel caso lo faccia, bisognerebbe passare in commissione, almeno per mezza giornata, e servirebbero almeno due giorni di lavoro in Aula per approvare il testo. Maledettamente complicato in pieno agosto, per di più prima della votazione in Senato su Conte, che potrebbe svolgersi attorno al 20.
A meno che l’accordo con il Pd non sia granitico. E che Fico utilizzi a fondo i suoi poteri di presidente. Nell’attesa, Di Maio e il gotha del M5S ragionano sui nodi che verranno. A cominciare da come rimettere in gioco una classe di governo su cui grava l’esaurirsi dei due mandati. E la decisione pare già presa. Si voterà sulla piattaforma web Rousseau, dove verrà chiesto agli iscritti se ricandidare i parlamentari uscenti, spingendo sulla leva dei soli 14 mesi di legislatura, caduta per colpa di Salvini. Poi c’è il tema nodale, quello del candidato premier. Non potrà esserlo Di Maio, non più. E neppure Di Battista, trascinatore che si sentirebbe ingabbiato.
Quindi la speranza di molti, di quasi tutti è convincere Conte. Ripartire da lui, che pure lo ha giurato: “Non ho mai votato i 5Stelle”. Ma la politica corre. E può cambiare, tutto.

venerdì 9 agosto 2019

Giuseppe Conte

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1. Non spetta al Ministro Salvini convocare le camere del parlamento;

2. Non spetta al Ministro Salvini decidere i tempi di una crisi politica cui intervengono ben altri attori istituzionali;

3. Al Ministro Salvini nella veste di Senatore e Leader della Lega spetterá invece spiegare al paese e giustificare agli elettori che hanno creduto nella prospettiva del cambiamento le ragioni che lo inducono ad INTERROMPERE anticipatamente e bruscamente le azioni di GOVERNO;

4. In Parlamento e quindi a tutti gli italiani dovremo dire la verità e non potremo nasconderci dietro dichiarazioni retoriche e slogan mediatici;

5. Non permetterò più che si alimenti la narrativa di un GOVERNO CHE NON OPERA . QUESTO GOVERNO NON ERA IN SPIAGGIA! Era nelle sedi istituzionali a lavorare dalla mattina alla sera.

6. Non accetterò più, quindi, che vengano sminuiti la dedizione e la passione con cui gli altri MINISTRI hanno affrontato l’impegno di governo insieme a me;

7. È certo non posso accettare che sia svilito il COSPICUO LAVORO fin qui svolto dai PARLAMENTARI nelle rispettive commissioni e nelle aule.

8. Salvini mi ha anticipato l’intenzione di andare a votare per capitalizzare il consenso di cui gode. Farò in modo che questa crisi da lui innescata sia la più trasparente della vita repubblicana.


GIUSEPPE CONTE
Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana


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Senza un perché. - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 9 Agosto

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Riuniti davanti a un treno di mojito, Salvini e i suoi social-geni simpaticamente ribattezzati “Bestia” compulsano lo scusario leghista alla ricerca di un motivo valido e comprensibile per spiegare al popolo la crisi del governo più popolare del decennio. Per giunta, a Ferragosto.

Salvini: “Dico che si vota perchè qualcosa si è rotto”.

Bestia: “Occhio, qualcuno sui social potrebbe risponderti: ‘Sì, le nostre palle’”.

S.: “Dico che è venuta meno la fiducia del Parlamento”.

B.: “Ma se lunedì l’abbiamo avuta persino su quella boiata del Sicurezza-bis”.

S.: “Ah già, allora dico che i 5Stelle dicono troppi no”.

B.: “Ma se dicono solo sì!”.

S.: “Ho trovato: i 5Stelle sono No Tav!”.

B.: “Bella scoperta, lo sono da sempre. Lo sapevi anche un anno fa quando hai firmato il Contratto col no alla Tav. A parte che pure noi eravamo No Tav. E poi la Tav, grazie agli amici del Pd, è passata”.

S.: “Ok, senti qua: via il governo perché c’è Toninelli”.

B.: “Matteo, buttiamo giù il governo ad agosto e alziamo lo spread per Toninelli? Dai, non se la beve nessuno”.

S.: “Già, meglio dire che sennò a settembre ci tocca tagliare 345 parlamentari”.

B.: “Ma è nel Contratto! E poi con che faccia difendiamo le poltrone della casta?”.

S.: “Uffa. Attacco lo stop alla prescrizione?”.

B.: “A parte che sta nel Contratto pure quello e l’abbiamo votato, lascia perdere: la prescrizione ha appena miracolato Bossi e mezzo miracolato Belsito. Sennò poi la gente si ricorda dei 49 milioni che abbiamo fatto sparire”.

S.: “Perfetto, allora dico che sono il politico più popolare e quindi devo fare il premier. Suona bene, c’è scritto pure sul logo della Lega e sul mio braccialettino”.

B.: “Non per contraddirti, ma nei sondaggi Conte sta sopra di te”.

S.: “Ah già, maledetta zecca. Allora dico che le Europee le ho vinte io, quindi si vota”.

B.: “Sì, Matteo, ma le hai vinte due mesi e mezzo fa e subito dopo hai giurato che il governo andava avanti, senza nemmeno un rimpastino. Ci vorrebbe qualcosa di più efficace, che scaldi il cuore del grande popolo sovranista”.

S.: “Ho trovato: si vota perchè fa caldo!”.

B.: “Matteo, metti giù il mojito: qui rischiamo di non spiegarci bene, così poi la gente crede che non siamo capaci di governare e pensiamo solo alla cadrega. Ci vuole una scusa inconfutabile”.

S.: “Eureka! Mi è apparsa la Madonna di Medjugorje e mi ha chiesto di far cadere il governo per il sacro cuore di Gesù!”.

B.: “Matteo, senza offesa: ti è apparsa a che ora?”.

E Conte sparò su Salvini: “Tu in spiaggia, io lavoro”. - Luca De Carolis e Fabrizio d’Esposito

E Conte sparò su Salvini: “Tu in spiaggia, io lavoro”

Verso il voto - Il premier, benedetto da Mattarella, rifiuta il diktat del Carroccio e non si dimette. 
Sarà alle Camere probabilmente il 20 agosto, poi le consultazioni.


Il premier lo guarderà di nuovo negli occhi, ma in aula. Lo costringerà a votargli contro in Senato, a macchiarsi della caduta del suo governo. “Oggi Matteo Salvini mi ha detto che vuole la crisi per capitalizzare il consenso, ma ora dovrà spiegare al Paese questa brusca interruzione” accusa il presidente del Consiglio Giuseppe Conte da Palazzo Chigi poco prima delle 23. In completo blu, Conte certifica che la crisi approderà in Parlamento. Lo dovranno sfiduciare lì. Ma il quando non potrà deciderlo Salvini. “Non è il ministro dell’Interno a convocare le Camera, non spetta a lui” morde il premier. Perché ormai è la guerra. Dichiarata, dopo l’incontro tra il premier e il leader leghista di ieri pomeriggio a Palazzo Chigi, un duello finale. E la premessa è la svolta del mattino al Quirinale: il colloquio tra il capo dello Stato e Conte e la mossa di questi per contrastare l’offensiva salviniana. Ossia: non cedere al diktat del vicepremier, che vorrebbe dimissioni di Conte e urne anticipate, bensì andare avanti con la parlamentarizzazione della crisi. Tradotto, riapriamo le Camere e la Lega mi voti la sfiducia. È il senso della sfida nel palazzo del governo.
Novanta minuti di faccia a faccia. Riassunti dallo scambio più significativo e drammatico tra i due. Con Salvini che insiste, pretende: “Ti devi dimettere, così non possiamo più andare avanti”. E Conte che fa muro: “No, andiamo in Parlamento e sfiduciatemi”. Evidente la strategia del premier, concordata con il presidente Sergio Mattarella: far assumere al ministro dell’Interno la responsabilità della fine. “L’ho detto a Salvini, questa crisi sarà la più trasparente della storia repubblicana, tornerò davanti ai parlamentari che rappresentano tutti i cittadini” chiarisce in serata da Palazzo Chigi Conte. La rotta che Conte aveva già indicato in aula al Senato lo scorso 24 luglio, dove andò a riferire sul Rubligate al posto proprio di Salvini: “Da questo consesso ho ricevuto la fiducia che mi ha investito dell’incarico di presidente del Consiglio, e a questo concesso tornerò ove dovessero maturare le condizioni per una cessazione anticipata dal mio incarico”. Non a caso il ministro dell’Interno s’infuriò, e replicò in diretta su Facebook contro “i giochetti di Palazzo”. Aveva fiutato la strategia e il messaggio. Ossia che gli avrebbero lasciato in mano il cerino. Non a caso, solo a sera inoltrata la Lega fa il primo atto concreto da mercoledì: una nota per confermare la parlamentarizzazione di questa crisi d’agosto. Per la prima volta il Carroccio mette nero su bianco la volontà di stroncare il contratto di governo dell’estate di un anno fa. E lo fa all’indomani del voto sul Tav, preceduto dalla fiducia al decreto sicurezza bis che non poche lacerazioni ha prodotto nel M5S.
Lo scontro tra premier e vicepremier è il sequel di quello dell’altro giorno, dopo le divisioni della maggioranza sulle mozioni del Tav. Un colloquio in cui Salvini non ha chiesto rimpasti di sorta, ma è andato dritto al punto: il voto a ottobre. Ieri, infine, il redde rationem. E adesso la partita che si apre è soprattutto sulle procedure e sui tempi. Conte sfiderà la Lega a Palazzo Madama, la prima Camera a dargli la fiducia quando è stato nominato premier e che ora dovrà sfiduciarlo. Ma è prematuro, fanno sapere dal Colle, avanzare ipotesi su quale governo gestirà la fase elettorale. Non solo: la vera questione che agita il Quirinale è la sessione autunnale di bilancio. Presumibilmente la sfiducia andrà in aula non prima del 20 agosto, di martedì, non si sa ancora se come voto su una mozione oppure connessa alle comunicazioni del premier. Conte dovrà deciderlo con i presidenti delle due Camere.
Due, massimo tre giorni di dibattito, poi le consultazioni, quindi lo scioglimento del Parlamento intorno al 25 agosto. A quel punto i 65 giorni per indire il voto, tra l’ultima settimana di ottobre, domenica 27, e la prima di novembre. E qui s’innestano le gravi preoccupazioni del capo dello Stato: il nuovo governo non entrerà in carica prima di dicembre. Chi farà la manovra, allora?
Ma questo è solo uno degli aspetti della guerra che Conte, benedetto dal Colle e sostenuto dal M5S, muoverà alla Lega. Per la serie: sarà Salvini ad assumersi la responsabilità dell’esercizio provvisorio del bilancio? Sarà Salvini a dire no al taglio dei parlamentari che i grillini proporranno in Parlamento? Il leader leghista dovrà combattere da solo contro tutti. Con un’ulteriore consapevolezza maturata al Quirinale: Mattarella farà di tutto per non avere Salvini come ministro dell’Interno che gestisce tutta la fase elettorale.

giovedì 8 agosto 2019

Morituri te salutant. - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano dell'8 Agosto

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Rileggere Montanelli è sempre un ottimo esercizio, perché è morto 18 anni fa, ma è più vivo e attuale più che mai. Il 28 agosto 1994, cioè 25 anni fa, scriveva questo sul primo governo B.: “Nelle ultime due settimane i consensi al governo e al suo capo sono passati dal 48 a quasi il 54%… È stata proprio questa politica balneare con le sue scene da telenovela minuziosamente descritte in tutti i loro particolari e diffuse in tutta Italia (e speriamo solo in Italia) da televisioni pubbliche e private in gara di zelo, a provocare questa impennata di popolarità. Se le cose stanno così… dobbiamo cospargerci il capo di cenere e chiedergli scusa. I problemi non li ha ancora affrontati né risolti. Ma è chiaro che gl’italiani sono sempre più convinti che lui è il solo uomo capace di farlo, e comunque quello in cui più e meglio si riconoscono”. Perché non amano i “personaggi color fumodilondra”, tipo De Gasperi o Einaudi: “Vorreste mettere il gioioso e giocoso Cavaliere, con le sue risate, le sue barzellette, il suo ottimismo, la sua cordialità, le sue barche, le sue ville. Vorreste mettere. Forse l’Italia non è lui. Ma certamente lui è l’Italia come gl’italiani vorrebbero che fosse. Il sondaggio non può avere altro significato”. Conclusione beffarda e paradossale: non resta che adeguarsi, arrendersi, mettersi a vento. “Senza bisogno di sopprimerci come minacciano di fare certi suoi alleati e ministri, finiremo automaticamente confinati in una specie di Arcadia del buoncostume politico, quello che usava quando Berta filava (ora va alla Standa di Berlusconi e compra il pret-à-porter). Non siamo pericolosi. La nostra audience si assottiglia di giorno in giorno nella stessa misura in cui s’infoltisce quella del Cavaliere. Ave, Silvio, morituri te salutant”.

Ditemi voi se non è la fotografia dell’Italia di oggi: basta sostituire B. con quell’altro cazzaro. Maestro d’ironia e paradosso, Montanelli provocava: infatti continuò a combattere il Caimano per altri sette anni, fino alla morte. E lo fece, conoscendolo nel profondo, con le uniche armi in grado di fargli davvero male: lo sberleffo, il sarcasmo e il disprezzo. Lo prendeva sul serio solo quando scherzava e lo trattava da pagliaccio quando faceva sul serio. Evitando la demonizzazione ossessiva e parolaia “h 24” che per vent’anni dannò la sinistra, peraltro beccata mille volte a inciuciare col presunto nemico. La stessa ossessione che riciccia oggi per Salvini, combattuto con gli stessi toni sdegnati, gli stessi autogol (il tifo per la Ue, le Ong, Macron, lo spread, le procedure d’infrazione) e gli stessi snobismi col ditino alzato. Sia che faccia scemenze innocue (sui social o al Papeete Beach).

Sia che si macchi di condotte gravi (lo scandalo Arata-Siri, il caso Rubli, le bugie per nasconderli, il rifiuto di riferire in Parlamento e in Antimafia, le sparate razziste, le intimidazioni a giornalisti e contestatori, le leggi vergogna riuscite e tentate). In questa penuria di teste pensanti, Montanelli resta la bussola migliore per orientarsi nella jungla della politica e della società. Che paiono tutte nuove, e invece sono vecchie come il cucco. L’Italietta arrapata dall’afrore del ducetto di turno sta per compiere cent’anni. E non ha mai imparato la lezione. Salvini non è il nuovo Mussolini, semmai il nuovo Ridolini; il 1922 fu una tragedia e il 2019 è una farsa. Ma lo spettacolo delle opposizioni in Parlamento ricorda quello di liberali, socialisti e popolari all’avvento del fascismo. A cui spianarono la strada fingendo o credendo di combatterlo. Ieri Pd e FI potevano rifilare il primo vero smacco a Salvini, mandando in frantumi la coalizione giallo-verde con una semplice uscita dall’aula, che avrebbe fatto passare le mozioni M5S-LeU. Invece si sono coalizzati con lui. Poi, ridicoli, han ricominciato a invocare le elezioni: quando era assodato che, anziché la crisi, sarebbero scattate le ferie. Con “nemici” come questi, il Cazzaro può campare di rendita chissà quanto. La cosiddetta informazione dovrebbe smetterla di definire Pd&FI “opposizioni” e di stalkerare i 5Stelle perché facciano ciò che conviene a loro, ma non a noi: aprire una crisi che consentirebbe a Salvini di attuare il suo piano senza pagare pegno. Cioè farsi la campagna elettorale contro i grillini traditori (ieri è lui che ha tradito, votando col Pd), votare a ottobre e occupare Palazzo Chigi.
Gli unici ostacoli alla sua presa del potere non stanno all’opposizione o nei giornaloni. Ma a Palazzo Chigi (Conte, che anche oggi gli darà qualche cazzotto con mano guantata), al Quirinale (Mattarella, che fa l’arbitro imparziale e tanto basta a indispettirlo), in Vaticano (il Papa che non riceve il catto-pagano e che denuncia l’uso politico della religione ridotta a superstizione) e qua e là per l’Italia (i No Tav e gli altri movimenti ambientalisti, il popolo degli striscioni, la Raggi che difende la Capitale dalla protervia fascio-salvinista ecc.). Potrebbero esserlo anche i 5Stelle, se capissero che Salvini evoca continuamente la crisi (per qualche poltrona in più col rimpasto? O per votare davvero? E quando?), ma non vuol essere lui ad aprirla: teme nuovi sviluppi degli scandali leghisti e non sa quanto perderebbe rovesciando il premier e il governo più popolari degli ultimi 10 anni. Paure che un M5S ai minimi storici, con ben poco da perdere, dovrebbe usare per passare da ricattato a ricattatore. Mettendo sul tavolo cinque leggi-bandiera previste dal Contratto, sfidando Salvini a proporne altrettante (con le coperture finanziarie) e poi votandole a coppie: una del M5S e una della Lega insieme, onde evitare che quello incassi i voti degli alleati e poi neghi loro i propri. Così, se il Cazzaro vuole comandare da solo, sarà lui a rompere. L’alternativa è la beffa montanelliana: “Ave Matteo, morituri te salutant”.


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