domenica 11 agosto 2019

“In Parlamento dovrai guardarmi in faccia e poi votarmi contro”. - Salvatore Cannavò

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Il giorno dopo - Ecco il racconto di una fine prematura. Conte si prepara a un discorso parlamentare che non risparmierà nulla.

“In Parlamento tu ci dovrai essere, non come hai fatto sulla Russia, mi dovrai passare davanti, guardare in faccia e votare contro”. Quando dice in faccia a Matteo Salvini queste parole, con il suo solito stile pacato, Giuseppe Conte sa che la sfida al leader leghista è lanciata. Che possa trasferirsi in una contesa elettorale è cosa che il presidente del Consiglio non dice a nessuno. Nessuno sa se potrà essere lui il candidato premier del M5S né se sia realizzabile l’idea di una lista civica a suo nome da far correre accanto a una lista 5 Stelle.
Quello che appare chiaro nella ricostruzione dei due incontri che il premier ha avuto con Salvini è l’irresponsabilità spensierata del secondo e il tentativo del primo di farlo ragionare e di evitare in tutti i modi l’epilogo che ora appare segnato.
“Matteo, pensaci bene, non hai consiglieri?”
Gli incontri sono stati due. Il primo, il giorno del voto sulla mozione Tav, avviene di pomeriggio, a Palazzo Chigi. Salvini non parla di rimpasti anche se si lamenta dei vari ministri e Conte lo incalza subito: “Ti avevo già detto dopo le Europee che volendo saremmo potuti andare al voto anche il giorno dopo. Tra l’altro avevi il pretesto degli attacchi ricevuti dal M5S in campagna elettorale. Ma tu hai detto no, perché oggi vuoi le elezioni?”.
Le giustificazioni di Salvini sembrano fragili: parla di “casini interni” del bisogno di una “campagna elettorale per compattare la Lega, sai c’è anche chi vuol farmi fuori, ora non si può più rinviare”.
Conte invita il suo vicepremier a “pensarci bene”. E comunque mette le mani avanti: “Sappi che comunque si va in Parlamento, io sono una persona corretta, non vado in aula a cercare altre maggioranze” e poi, non dismettendo gli abiti del professore, gli fa anche una piccola lezione di diritto parlamentare. “La via maestra è tornare dove ho ricevuto la fiducia, cominciando dal Senato. In passato le crisi si facevano nei corridoi di Palazzo o nelle riunioni riservate delle segreterie dei partiti, io voglio fare tutto alla luce del sole”. E qui lancia la freccia in pieno volto dell’alleato-avversario: “Tu ci dovrai essere, al contrario del dibattito sulla Russia e dovrai spiegare, guardandomi negli occhi, il motivo per cui ritiri la fiducia. Dovrai andare a votare passandomi davanti, guardandomi in faccia e poi votandomi contro”.
Salvini, in un sussurro, dice “va bene” e se ne va. A quel punto Conte inizia a riflettere sul quel che è successo alla ricerca di una spiegazione logica. Salvini ha parlato di problemi interni alla Lega, forse con Giancarlo Giorgetti, forse, soprattutto, con i governatori leghisti, tutti molto preoccupati per l’impossibilità di approvare una legge hard sulle Autonomie.
“C’è chi mi vuole fare fuori, devo farlo”
Ma ha fatto riferimento anche alle proteste dei propri parlamentari contrari al taglio dei seggi che sarà approvato in via definitiva il 9 settembre. E sembra che si accorga solo ora che quella legge costituzionale si porta dietro l’obbligo di ridisegnare i collegi elettorali e anche la necessità di una nuova legge elettorale. In modo tale che prima di sei mesi sarebbe impossibile andare al voto. Tempo che dilata anche lo spazio in cui Salvini rischia di essere esposto a possibili inchieste: quella su Savoini e il Metropol russo, del resto, è ancora lì che pende.
Ma, riflette Conte, nell’ultimo periodo si è visto anche un certo attivismo di quel partito degli affari che lo ha eletto come nuovo idolo: l’intervista dell’ex ad dell’Eni Paolo Scaroni sul Foglio, la prontezza con cui Confindustria si è recata ai vertici sociali del Viminale, l’insistenza a completare le grandi opere inutili, tutti segnali di interessi in cerca di una solida sponda e di insofferenza per gli ostacoli frapposti dal M5S. Infine, tra i motivi che potrebbero aver consigliato la fretta elettorale, anche la sensazione che una campagna elettorale infinita potesse iniziare a stancare. Meglio raccogliere i frutti . “Capitalizzare il consenso” come lo stesso Salvini ha detto al premier.
“Andiamo alle elezioni, facciamo in fretta”
Poi c’è il secondo incontro, giovedì 8 agosto, dopo che Conte torna dal faccia a faccia con Sergio Mattarella. Salvini a questo punto non ha dubbi: “Andiamo alle elezioni, basta, facciamo in fretta”.
Conte risponde ancora con la sua consueta calma: “Scusami, pensi davvero che si vada a votare domani? La finestra elettorale di settembre te la sei giocata, ora i tempi tecnici dicono che si arriva a fine ottobre e, se ti va bene, riuscirai a formare un governo non prima di dicembre. Cioè addio legge di bilancio in tempo per fine anno, cioè esercizio provvisorio”.

Poi l’accusa: “Sei un ingenuo o uno sprovveduto anche perché mica decidi tu la data delle elezioni”. Conte ne approfitta per difendere orgogliosamente l’operato suo e del governo: “Questo non è il governo dei no, lunedì scorso con la fiducia al decreto Sicurezza ne hai avuto la conferma: non ci provare a screditare il lavoro mio e dei miei ministri”.
Il premier cerca di rendere evidente anche il quadro europeo, la figura che farà l’Italia e il nodo del Commissario ancora non indicato per i veti di Salvini: “Guarda che così ti giochi anche quel nome. Se fai cadere il governo avrò le mani libere e finalmente potrò indicare un nome che vada bene all’Italia e non solo alla Lega”.
Conte pensa di poter riuscire ancora a strappare il dicastero della Concorrenza, anche se, per adattare la nomina a un profilo indicato dalla Lega, stava orientandosi a richiedere il Commercio: “Ho un buon rapporto con Ursula Von der Leyen e, dopo il dibattito parlamentare, proporrò un nome di alto profilo e di competenza per cercare di avere la Concorrenza”.
Ma a Salvini sembra non importare, fa spallucce. Si limita a giustificarsi con il premier: “Non pensare che per me non sia difficile, sono due notti che non dormo, non lo so se faccio bene, ma devo farlo”.
“Pensaci molto bene” prova ancora a convincerlo Conte: “La speculazione di agosto è quella più insidiosa, ma non hai economisti che ti consiglino bene? Fatti ragguagliare sulle conseguenze, sull’esercizio provvisorio, sul rischio dell’aumento dell’Iva. E poi, come farai a discutere con la Commissione europea, senza di me, l’ennesima procedura d infrazione? Senza interlocutori quelli ti massacrano e ci va di mezzo l’Italia. Pensaci davvero, stai rischiando di portare il Paese al disastro”.
Salvini uscendo da palazzo Chigi sembra perplesso, fa finta di prendere tempo: “D’accordo, faccio ancora qualche telefonata”. Ma pochi minuti dopo viene diramata la nota della Lega che chiede le elezioni e in serata il vicepremier lancia le sparate sul governo dei no e del non fare e sui parlamentari che devono tornare di corsa dalle vacanze, a lavorare come “fanno milioni di italiani”.
“Lui se ne sta in spiaggia, noi qui lavoriamo”
Conte a quel punto perde il suo aplomb e inizia a preparare il discorso che farà la sera: “Proprio lui che se ne sta in spiaggia da giorni tratta gli altri come degli ‘scioperati’? Io non sto in spiaggia, sto qui a lavorare”. Il discorso che farà in Parlamento inizia a delinearsi. Lo metterà a punto nel week-end, quando cercherà di staccare un po’. Dovrebbe pronunciarlo nella settimana successiva a Ferragosto, nonostante gli evidenti tentativi di Salvini di accelerare i tempi.
Quanto al futuro, per ora Conte non fa trapelare nulla. È preoccupato anche lui, come il Quirinale, del fatto che Salvini possa gestire la campagna elettorale da ministro dell’Interno. Del resto, il leghista, anche durante la campagna europea non ha dato prova di affidabilità, con i viaggi elettorali su voli di Stato col pretesto di incontri nelle prefetture. Conte pensa che occorrerà sorvegliare anche questo aspetto.
Quanto al proprio futuro politico le cose sono ancora molto incerte. Il premier è rimasto colpito dalle manifestazioni di solidarietà e affetto ricevute via social dopo il suo discorso dell’altra sera e si è anche accorto che sulla bacheca di Salvini, invece, fioccano gli insulti. Non ha ancora idee su cosa fare del proprio futuro politico. È grato ai 5 Stelle, ma non è un uomo del Movimento, ci tiene a ribadire la propria terzietà.
Se potrà capeggiare, da candidato premier, una lista del M5S oppure, come si dice da più parti, essere il leader di una lista civica, è questione che al momento non viene considerata. Conte ripete ai suoi di essere una figura terza, istituzionale, non adatta a campagne elettorali di parte. E di adorare il lavoro di avvocato.

Ma, spesso, la forza delle cose, e dei consensi, finisce col prevalere sulle migliori intenzioni. Si vedrà. La sfida con Salvini è già nelle cose. Quella non potrà essere evitata.

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L'amico del cazzaro. - Marco Travaglio FQ 11 agosto

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Vuoi vedere che il Cazzaro Verde, da tutti dipinto come un genio della politica, l’ha pestata grossa? Tre giorni dopo la genialata di buttar giù il governo in pieno agosto senza dimettersi da vicepremier e da ministro né far dimettere i suoi, appare già un tantino incartato.
Da buon orecchiante improvvisatore, ha scoperto dalle ultime ripetizioni estive di Conte che l’Italia è una Repubblica parlamentare, le cui regole e procedure non consentono le elezioni prima di fine ottobre (se va bene). Dunque il suo eventuale governo monocolore (“corro da solo”, anzi “vediamo”) con “pieni poteri” non potrebbe nascere prima di fine novembre-inizio dicembre. Non avrebbe il tempo di varare e far approvare la legge di Bilancio. E partirebbe con una figuraccia mai vista, da Guinness dei primati: l’esercizio provvisorio col contorno di spread, speculazioni, infrazioni Ue ecc. In più il barometro dei social, che a noi fa un baffo ma per lui è legge, segnala fulmini e tempeste: insulti, critiche, pentimenti e sberleffi per il suo tradimento incoerente e incomprensibile.

Più tempo passa, più la sua fuga per la vittoria potrebbe incontrare intoppi. I trionfi, nella politica italiana, arrivano inattesi: quando sono troppo annunciati, si rivelano spesso cocenti delusioni. Ne sanno qualcosa Renzi e i 5Stelle, dati l’uno per sconfitto e gli altri come stravincitori alle Europee del 2014, salvo poi aprire le urne e trovarsi a parti invertite.
Che il fattore-tempo sia cruciale per le prossime elezioni, lo capiscono tutti. Lo capisce Salvini, che già dà segni di nervosismo perchè non si vota domani. Lo capisce Di Maio, che chiede il taglio dei parlamentari prima delle urne. Lo capisce Grillo, che chiede altri “cambiamenti” prima del voto, per rubare il tempo a Salvini. Lo capisce Grasso, che propone a centrosinistra e M5S di uscire dall’aula quando la Lega voterà contro Conte, così mancheranno i numeri perché il governo sia sfiduciato e Mattarella potrà lasciarlo al suo posto per fare poche cose (taglio dei parlamentari, legge elettorale e legge di Bilancio) prima delle urne a primavera e spostare le lancette dell’orologio salviniano. Lo capisce persino Renzi che, pur animato da interessi di bottega, lancia segnali per il governo M5S-Pd che impallinò nel 2018.
L’unico che non lo capisce è Zingaretti, che ieri ha letto Repubblica (“Votare subito. Ma c’è chi dice no”), poi ha dichiarato: “Votare il taglio dei parlamentari è un trucchetto per non andare al voto”. Esattamente quel che dice Salvini. Il quale, come del resto B. per vent’anni, non ha nulla da temere: se ha un problema, glielo risolve il Pd.

Salvini.

sabato 10 agosto 2019

Salvini vuole i "pieni poteri" prima di lui solo Hitler li chiese.




Decreto dei pieni poteri.
Il Decreto dei pieni poteri, conosciuto anche come Legge dei pieni poteri (in lingua tedesca, Ermächtigungsgesetz), è il termine con cui venne indicato il provvedimento approvato dal parlamento tedesco (Reichstag) il 24 marzo 1933. Questo decreto rappresentò il secondo passo – il primo fu il Decreto dell'incendio del Reichstag – compiuto dal Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (e controfirmato dal Presidente Paul von Hindenburg) per dichiarare lo stato di emergenza e nei fatti instaurare una dittatura utilizzando gli strumenti legali messi a disposizione dalla Repubblica di Weimar.
Quando il neocancelliere Adolf Hitler presentò il Decreto dei pieni poteri al Parlamento, egli non possedeva la maggioranza assoluta dei voti (non aveva quindi, neanche la possibilità di formare un governo) e, per assicurarsi l'approvazione del piano, Hitler fece arrestare o comunque impedì con la forza di partecipare alla seduta tutti i deputati comunisti e alcuni socialdemocratici, minacciò fisicamente ministri ed esponenti del Centro Cattolico e fece disporre le SA, squadre paramilitari del Partito nazionalsocialista, attorno e all'interno del Reichstag durante la votazione. Secondo alcuni storici, il consenso dato dal Partito del Centro all'approvazione della legge dei pieni poteri fu concesso in cambio della promessa di Hitler di stipulare un concordato con la Santa Sede; tuttavia, dai documenti dell'archivio vaticano non risulta che la Santa Sede fosse stata preventivamente informata sulle trattative intercorse tra Hitler e i parlamentari del Centro, ma sembra invece che questi abbiano agito autonomamente senza il mandato del Vaticano. Inoltre, dal rapporto inviato dal nunzio Cesare Orsenigo in Vaticano il 24 marzo non risulta che durante tali trattative si fosse fatto cenno a un possibile concordato tra Santa Sede e Governo tedesco[1] Il primo atto preso nell'ambito del decreto dei pieni poteri fu l'ordine di scioglimento del Partito Socialdemocratico di Germania, che aveva votato contro il decreto stesso.[2]
Bundesarchiv Bild 102-14439, Rede Adolf Hitlers zum Ermächtigungsgesetz.jpg
«Legge a rimedio dell'afflizione sofferta dal Popolo e dal Reich.
Il Reichstag ha approvato la seguente legge, che è promulgata col consenso del Reichsrat, essendo stati rispettati i requisiti per l'emanazione di una modifica costituzionale:
  1. In aggiunta alla procedura di cui alla Costituzione, le leggi del Reich possono altresì essere emanate dal Governo del Reich. Sono incluse le leggi di cui agli Articoli 85, secondo comma, ed 87 della Costituzione.[4]
  2. Le leggi emanate dal Governo del Reich possono derogare alla Costituzione del Reich, purché non arrechino pregiudizio alle istituzioni del Reichstag e del Reichsrat. I diritti del Presidente rimangono inalterati.
  3. Le leggi emanate dal Governo del Reich sono promulgate dal Cancelliere del Reich e pubblicate sulla Gazzetta del Reich. Hanno effetto dal giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che sia stabilita una diversa data. Gli articoli da 68 a 77 della Costituzione non si applicano alle leggi emanate dal Governo del Reich.[5]
  4. I trattati stipulati dal Reich con Stati stranieri, che si riferiscano alla legge del Reich, per la durata della presente legge non richiedono il consenso degli organi coinvolti nella legislazione. Il Governo del Reich adotta le leggi necessarie alla implementazione di tali accordi.
  5. Questa legge entra in vigore il giorno della sua pubblicazione. È abrogata a decorrere del 1 aprile 1937; inoltre è abrogata se l’attuale Governo del Reich viene sostituito da un altro.»

La Bestia. - Tommaso Merlo

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Salvini ha fatto una bestialità. Ha scatenato una crisi nel modo e nel momento peggiore possibile mettendo il paese intero nei guai. Davvero un pericoloso irresponsabile. Ma lui è il dittatore della Lega. Quello che gli salta in testa è legge. La Lega è un partito dittatoriale. In questo anno di governo, molti esponenti leghisti hanno ammesso più volte di non sapere nemmeno loro quello che passa nella testa di Salvini. E incalzati dai giornalisti, per mesi hanno ripetuto “decide Salvini”. Zero dibattito interno, tutto affidato ad un dittatore solo ed imprevedibile. Un improvvisatore in balia del proprio misero ego. La Lega è un partito dittatoriale che vorrebbe applicare all’Italia lo stesso modello. Sul balcone Salvini coi “pieni poteri”, intorno a lui una manciata di “signor sì” e sotto il popolo bue pronto a correre alle adunate per alzare il braccio al cielo.

Solo così si spiega la tempistica e le modalità folli di questa crisi, con l’accentramento di tutti poteri nelle mani di Salvini, un personaggio mediocre che ha perso il controllo di se stesso. Salvini scalpitava da dopo le europee per conquistare il potere assoluto mentre Meloni e compagnia nera lo incalzavano da mesi per far saltare il governo ed instaurare un regime tutto suo. L’obiettivo principale di ogni dittatore. Il potere. Altro che interessi dei cittadini, altro che cambiamento. La Lega si è spacciata come partito del “cambiamento” quando in realtà è un partito ultraconservatore, sia nelle idee ma anche nel voler conservare le porcherie del passato. La Lega è l’ultima maschera del vecchio regime. Riforme come quella della giustizia o sul conflitto d’interessi la Lega non lo ha mai volute fare. L’obiettivo vero della Lega è quello di sostituire i vecchi partiti nei rapporti con le lobby e le caste. Ma Salvini ha tentennato a lungo, si rendeva conto della vergognosa presa per culo verso milioni di cittadini che sostenevano lui e il governo gialloverde. Poi il colpo di testa.
Nel momento e nel modo peggiore possibile. Poi il paese nel caos. Una roba mai vista che è potuta succedere perché Salvini è solo al comando, perché la Lega è lui e non c’è nulla che può fermarlo. È questo il punto che dovrebbero capire perlomeno gli elettori leghisti last minute. Quelli che negli ultimi due anni hanno gonfiato la bolla salviniana all’inverosimile, quelli che non sanno neanche dove sia Pontida e che non hanno mai desiderato spaccare l’Italia infamando il sud e tanto meno finire in balia di un dittatore. Almeno loro, sono ancora in tempo per rendersi conto dei rischi che corriamo. Se la storia appare lontana, basta osservare l’Italia in queste ore. Piombata in una rovinosa crisi per il colpo testa di uno su sessanta milioni di cittadini. Una bestialità che nella storia italiana ha già fatto danni incalcolabili e che va assolutamente scongiurata.

http://www.lonesto.it/?p=52010

"Il voto ora è un indispensabile strumento di igiene politica". - Antonio Padellaro


Nella stranota figura del dito che indica la luna, oggi serve davvero a poco occuparsi delle convulsioni finali del contratto gialloverde, con le inevitabili elezioni anticipate. Soprattutto quando la luna è il faccione di Matteo Salvini, che sembra destinato molto presto a prendersi lui tutto il governo, e il Paese, alla guida di una minacciosa maggioranza sovranista di destra-destra. Un futuro da brividi per chi scrive (e forse anche per chi legge) ma, seguendo lo schema di Rino Formica (intervista al manifesto) è “la soluzione democratica”, unica alternativa all’uso della forza e addirittura alla “guerra civile”. Più ottimisti del vecchio saggio socialista, noi riteniamo che evocare la guerra civile sia soltanto un cupo espediente retorico per richiamare la più alta istituzione del Paese, che siede al Quirinale, all’esercizio delle sue prerogative costituzionali.
Compito a cui Sergio Mattarella non intende certo sottrarsi, e neppure il premier Giuseppe Conte decisissimo a denunciare davanti al Parlamento, e con la massima trasparenza, il cinismo del vicepremier “da spiaggia”, che affamato di potere butta giù i governi come fossero i suoi personali castelli di sabbia. 
Dunque, prossimamente, a Palazzo Madama e a Montecitorio andrà in scena il prologo di una campagna elettorale decisiva per comprendere se la democrazia che ci attende sarà la democratura autoritaria di ispirazione putiniana (e imbottita di rubli). O se riusciremo a difendere e conservare i pilastri di quella democrazia costituzionale nata, quella volta sì, da una guerra civile chiamata Resistenza.
Anche oggi, per l’Italia repubblicana e in un clima fortunatamente di pace, tertium non datur: o di qua o di là. Per cui, ormai agli sgoccioli e sancita la fine del Salvimaio, questo diario considera il ricorso al voto un indispensabile strumento di igiene politica per almeno tre motivi.
Primo: se nell’arco di un anno un partito raddoppia i consensi - con il 34% delle elezioni europee, veleggiante verso il 38 e forse anche il 40% - e se a cavalcare questa gigantesca onda è un personaggio accolto nelle piazze (e sugli arenili) come il nuovo uomo della Provvidenza, molto difficilmente quest’uomo (che non è certo un De Gasperi) rinuncerà a considerare Palazzo Chigi come il suo naturale domicilio. Tanto più se costui viene riconosciuto come l’unico e sommo leader della destra più destra mai vista in Italia dalla caduta del fascismo (quella formata da Fratelli d’Italia, dagli ascari di Forza Italia modello Toti, e forse anche da un fu Silvio Berlusconi oggi miniaturizzato). Coalizione che secondo gli ultimi sondaggi sfiorerebbe il 50%: praticamente la maggioranza assoluta nelle nuove Camere.
Come si fa a non tenerne conto?
Secondo: l’igiene elettorale non può che fare bene al M5S, sfibrato, debilitato, vampirizzato dalla convivenza governativa con il Dracula del Carroccio. Attraverso il ritorno a una sana opposizione i Cinque Stelle potranno procedere nei tempi giusti al necessario rinnovamento interno, degli uomini, delle strutture e dei programmi. Se destinata a finire sotto il tallone del salvinismo (parola che fa rima con altri raggelanti ismi) la democrazia italiana avrà la necessità di affidarsi a una minoranza combattiva che in Parlamento e nelle piazze sappia tenere alto il vessillo della legalità. E più di qualcuno, vedrete, rimpiangerà quella classe dirigente giovane, forse inesperta, ma bombardata senza tregua dai cosiddetti grandi giornali e nei talk show, ma che a confronto con il sistema Savoini&Casapound sembrerà la scuola di Atene.
Terzo: del gruppo dirigente di questo Pd, indeciso a tutto tranne che a farsi vicendevolmente le scarpe, fa perfino rabbia parlare. Soprattutto se, come accaduto sulle mozioni Tav, Zingaretti e soci non esitano a spianare la strada a Salvini, ritagliandosi in un ipotetico, futuro bipolarismo la triste funzione di opposizione di comodo.
Fortunatamente, da questa parte, oltre agli apparati con le loro ridicole rendite di posizione esiste un fertile e vasto mondo che continua ad avere come saldo riferimento i valori della Costituzione, e della chiesa di Papa Francesco.
Basta girare per l’Italia delle università, delle mille iniziative culturali, delle librerie, della solidarietà per rendersi conto che l’alternativa al Papeete Beach vive e lotta per tornare a guidare il paese quando, prima o poi, l’onda della destra s’infrangerà sugli scogli. La partita non è affatto persa. Coraggio.

Niente pastrocchi. - Marco Travaglio FQ 10 agosto

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Nella crisi più pazza del mondo, capita anche questo: che il cazzaro primigenio, Renzi, auspichi la cosa più sensata mai detta da un pidino da mesi. E cioè che, contro la destraccia salvinista, l’unico governo possibile è fra 5Stelle e Pd. Purtroppo la proposta ha tre difetti.
1) Arriva con 14 mesi di ritardo e non sarebbe più - come a maggio 2018 - l’unione fra il primo e il secondo partito delle Politiche, ma tra i due sconfitti alle Europee contro chi le ha vinte.
2) Viene da Renzi, che ormai ha la credibilità di Pamela Prati e tifa per il taglio dei parlamentari perché, al prossimo giro, non ne avrà più neanche uno.
3) Sarebbe un regalo a Salvini, che già inizia a pagare caro il suo tradimento di sfasciatutto irresponsabile (è subissato di insulti sui suoi social, specie dopo la ferma risposta di Conte, suo unico vero competitor) e non vede l’ora di farlo dimenticare addossandolo ai 5Stelle e strillando al ribaltone.
Certo, la metà e più dell’Italia che guarda con orrore e terrore alla prospettiva di avere presto un monocolore Salvini che si crede il Duce e parla come lui (senza neppure esserlo) a colpi di “Voglio pieni poteri”, “Ordine e disciplina”, “La giustizia la riformo io” accetterebbe di tutto, pur di allontanare l’amaro calice. Anche un ribaltone. Che sarebbe costituzionalmente ineccepibile (avrebbe la fiducia del Parlamento) e moralmente giustificabile (a brigante, brigante e mezzo). Ma politicamente a dir poco discutibile, mettendo insieme il secondo e il terzo partito per far fuori il primo. Con tutti i rischi che comportano, le elezioni restano la via maestra. Se a ottobre o a primavera, lo deciderà il Parlamento, dove Conte ha saggiamente portato la crisi in piena trasparenza.
Lì il premier esporrà le riforme in cantiere che Salvini ha bloccato col suo colpo di mano e chiederà la fiducia. La Lega gliela negherà. Il M5S gliela confermerà e nessuno può impedire ad altri di fare altrettanto. Se il Pd gli votasse la fiducia, il governo Conte resterebbe in piedi, senza i ministri leghisti (sostituibili con gli attuali vice o con personalità esterne). Per fare poche cose prima delle elezioni a primavera: la legge di Bilancio, scongiurando le conseguenze inevitabili di un voto a fine ottobre (esercizio provvisorio, spread ecc.); l’ok al taglio dei parlamentari; e la conseguente revisione della legge elettorale.
Chissà che i pochi mesi trascorsi a collaborare, senza nuovi governi né ribaltoni, non inneschino la scintilla che noi auspichiamo da anni fra un centrosinistra totalmente rinnovato e ripulito e un M5S più maturo e meno improvvisato sotto la guida di Conte. Per salvarci da Salvini non prima né contro le elezioni. Ma dopo.

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