mercoledì 8 luglio 2020

L’ostacolo è il “Clero” burocratico. - Antonio Padellaro

Il vero male dell'Italia non è la politica ma la burocrazia ...

La burocrazia è la maggiore azienda del Paese, impiega un italiano che lavora su cinque. Una massa di dipendenti in media vecchi (51 anni), mal pagati e professionalmente dequalificati (il 60 per cento senza laurea). Io sono il potere, le confessioni di un capo di gabinetto raccolte da Giuseppe Salvaggiulo è un libro illuminante sul perché si può semplificare la burocrazia quanto si vuole (come cerca di fare il governo Conte), ma se non si semplificano i burocrati è fatica sprecata. È una piramide di potere al cui vertice siedono appunto i capi di gabinetto (“i politici passano noi restiamo”). Un clero dominante i cui santuari sono Tar, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Avvocatura dello Stato, Anac. Che, infatti, davanti al progetto illustrato dal premier per rendere più rapide ed efficienti le procedure di assegnazione delle opere e degli appalti, hanno fatto trapelare il loro dissenso, paventando illegalità, corruzione, sperpero del pubblico denaro. 
Ragioni più o meno fondate che non cancellano la sensazione di un meccanismo di autodifesa corporativa: se i chierici non servono più la messa, a cosa servono? Certo, come spiega l’autore, si tratta di un potere iniziatico che attraverso il pieno controllo della fabbrica delle leggi muove i fili delle decisioni politiche che la politica subisce, pur vantandone il merito. Proviamo a immaginare questo gigantesco agglomerato di poltrone che discende per li rami in tutte le istituzioni della Repubblica, dalla Capitale fino al più sperduto comune. Uno sterminato esercito di vassalli, valvassori e valvassini impegnato quotidianamente ad esercitare sui cittadini una sovranità che spesso si manifesta come potere d’interdizione (le leggi si applicano ai nemici e s’interpretano per gli amici, diceva Giovanni Giolitti). È pensabile che i sacerdoti di questa liturgia, rinuncino da un giorno all’altro alla discrezionalità di quel timbro che può dividere i salvati dai sommersi? “Noi non siamo rottamabili”, sostiene il suggeritore di Salvaggiulo. “Chi ha provato a fare a meno di noi è durato poco. E si è fatto male”. 
Giuseppe Conte prenda nota.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/07/08/lostacolo-e-il-clero-burocratico/5860897/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-07-08

Ferri ci riprova: scrive a Fico Vuole lo scudo della Camera. - Ilaria Proietti

Ferri ci riprova: scrive a Fico Vuole lo scudo della Camera

Ferri, finito nei guai con Luca Palamara&Co. per via degli incontri all’hotel Champagne dove ci si dava da fare per le nomine al vertice della Procura di Roma, vuole lo scudo preventivo dai suoi colleghi deputati, forse tentando di guadagnare tempo. Infatti ha chiesto al presidente della Camera Roberto Fico di sollevare il conflitto di attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale nei confronti del procuratore generale presso la Corte di Cassazione e del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Perugia, sostenendo di essere stato intercettato illegittimamente e cioè senza l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza. Per via del suo brigare come dominus di una delle correnti della magistratura ma pure come cerniera con la politica (a quella tavolata rappresentata anche da Luca Lotti), rischia una sanzione disciplinare dal Csm.
Che teme possa costargli la carriera, almeno quella in toga. O quanto meno insozzargliela definitivamente, lui che è riuscito a rimanere sempre puro come un giglio. Nonostante il suo nome sia comparso negli anni ripetutamente, senza però mai essere indagato: da Calciopoli, al Trani-gate, dall’inchiesta P3, al caso Saguto e da ultimo come cerimoniere degli incontri tra Silvio Berlusconi e il giudice Amedeo Franco, relatore della sentenza Mediaset, con tanto di colloqui registrati e oggi resi pubblici nel tentativo di riabilitazione del Cav. Sempre graziato dal suo Csm, ora tenta il colpaccio anche alla Camera: della sua richiesta dovrà occuparsi prima la Giunta per le autorizzazioni e le immunità di Montecitorio che dovrà predisporre una relazione per l’Ufficio di presidenza guidato da Fico. Che dopo ulteriore istruttoria, se riterrà la questione degna di attenzione, farà decidere l’aula.
Ma cosa chiede Ferri? Il deputato di Italia Viva si era già rivolto personalmente, ma senza successo alla Consulta, a difesa delle sue prerogative di parlamentare. Lamentando che gli inquirenti sapessero già, grazie al trojan installato sul telefono di Palamara, che al famigerato convivio del 9 maggio 2019 organizzato sulle nomine al Csm, avrebbe partecipato pure lui. E che dunque quella sera avrebbero dovuto staccare la cimice oppure chiedere l’autorizzazione preventiva alla Camera.
Ora che la Corte Costituzionale ha dichiarato il suo ricorso inammissibile, la speranza è di trovare protezione politica dai suoi colleghi parlamentari. E che la Camera faccia la voce grossa a tutela delle prerogative dell’Istituzione tutta, minacciate dal “torto” che ha dovuto subire un suo rappresentante.
Una mossa del cavallo attraverso la quale Ferri vuole garantirsi l’inutilizzabilità delle captazioni che sono alla base del procedimento disciplinare che lo riguardano. E uscirne di nuovo incolume salvando l’onore e il posto di magistrato. Ché quello di parlamentare non glielo tocca nessuno.

Grazie, Maestro!



Ennio Morricone - Metti una Sera a Cena (In Concerto - Venezia 10.11.07)

Dietro il mes, la voglia di teleguidare l’Italia. - Lucio Baccaro*

Prendi a pugni il mal di testa - PeopleForPlanet

Si moltiplicano gli appelli nazionali e internazionali affinché l’Italia sottoscriva un prestito del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) di supporto alla crisi pandemica. L’ultimo, con un’intervista al Corsera del 4 luglio, è di Valdis Dombrovskis, vice presidente della Commissione.
Chiariamo subito che il Mes è vincolato al rispetto di una rigorosa condizionalità (art. 136(3) del trattato europeo). Occorre inoltre considerare gli effetti del regolamento comunitario 472/2013, che prevede che un paese che accede a un finanziamento Mes è sottoposto a “sorveglianza rafforzata”, e che nel corso di essa il Consiglio possa decidere, a maggioranza qualificata, che siano necessarie misure più drastiche, compreso un programma di aggiustamento macroeconomico (articolo 3(7) del regolamento). Il 7 maggio scorso una lettera dei commissari Dombrovskis e Gentiloni ha sospeso l’applicazione di alcune parti del regolamento, tra cui l’art. 3(7). Tuttavia, il regolamento non è stato emendato. Non sorprende dunque che alcuni stati membri, tra cui l’Italia, abbiano il timore che accendendo un prestito Mes possano ritrovarsi la troika in casa.
Dando per scontata la buona fede dei commissari, potrebbe verificarsi la cosa seguente: l’Italia entra nel Mes pandemico, e incassa i 36 miliardi. Non ci sono condizionalità immediate, salvo l’uso dei fondi per rispondere alla crisi sanitaria. Nel corso di una missione post-programma, o nell’ambito della procedura del semestre europeo, la Commissione scopre che le condizioni italiane si sono aggravate ed è necessario un intervento ben più consistente per far fronte alla crisi finanziaria imminente o in atto. Non costringe l’Italia a entrare in un programma di aggiustamento macroeconomico, come previsto dall’articolo 14(4) del regolamento, dato che la lettera Dombrovskis-Gentiloni ha disattivato questo comma, ma consiglia caldamente l’ingresso in un programma Mes di dimensioni maggiori. In tali circostanze la pressione politica diverrebbe molto forte, si moltiplicherebbero gli appelli “a fare presto”, e sarebbe molto difficile per il governo italiano, vecchio o nuovo che sia, ignorare l’invito.
È noto che la situazione finanziaria italiana si deteriorerà sensibilmente nel corso del 2020. Il debito pubblico è destinato ad aumentare del 20% del Pil secondo le previsioni più favorevoli. I fondi del Recovery Fund in corso di negoziazione, che l’Istituto Bruegel stima ottimisticamente in 86 miliardi di contributi, saranno molto inferiori al deficit pubblico, stimato da Eurostat all’11% del Pil, 180 miliardi solo nel 2020. Soprattutto, negli ultimi 25 anni il tasso di crescita italiano è stato quasi sempre al di sotto del tasso di interesse.
In queste condizioni, il debito pubblico italiano è sostenibile solo se i tassi di interesse rimangono molto bassi, ovvero fin quando continua il programma di acquisto di debito della Bce. Questo però ha grossi problemi di congruenza con la lettera e lo spirito dei trattati europei, come evidenziato dalla recente sentenza della corte costituzionale tedesca.
Nel futuro più o meno prossimo la politica monetaria della Bce dovrà normalizzarsi. All’inizio della crisi la Presidente Lagarde dichiarò che il compito della Bce non è quello di chiudere gli spread, e aveva ragione di dirlo. Inoltre, le regole fiscali europee (patto di stabilità e crescita, Fiscal Compact), per ora sospese, verranno reintrodotte.
È probabile, dunque, che l’Italia necessiti di un aggiustamento strutturale nel futuro prossimo. Molti attori nazionali e internazionali hanno interesse a far sì che tale aggiustamento, potenzialmente devastante, sia inquadrato nelle regole esistenti in modo da minimizzare i rischi per la zona euro. Tali regole prevedono: negoziazione di un Memorandum of Understanding con relativa condizionalità; accesso a un programma Mes di dimensioni ben più consistenti di quello pandemico; intervento successivo della Bce con il programma di acquisti OMT.
Dunque, mi sembra che dietro all’invito pressante ad accettare i fondi del Mes ci sia il tentativo di incanalare la crisi italiana entro binari consolidati prima che essa si manifesti in tutta la sua gravità, approfittando della presenza di un governo amico (per lo meno in una sua componente). Tuttavia, come tutti i piani che si proiettano in un futuro incerto, molte cose possono deviare dal corso previsto. Per esempio, l’opinione pubblica italiana è fortemente ostile a nuovi programmi di austerità, come evidenziato da due survey experiments del Max Planck Institute. Inoltre, se le cose dovessero davvero andare come descritto sopra, la tenuta delle forze “responsabili” nel panorama politico italiano non è affatto scontata.
*Direttore del Max Planck Institute di Colonia.

martedì 7 luglio 2020

Giorgio Covid. - Marco Travaglio

pastorale bergamasca - giorgio gori, da studente 'de sinistra' a ...

Si pensava che, dopo il notevole contributo offerto ad alcune delle peggiori catastrofi nazionali dell’ultimo trentennio – dal berlusconismo, al renzismo, al Covid19 – il sindaco di Bergamo Giorgio Gori si sarebbe preso una lunga vacanza dalle esternazioni. Almeno da quelle in cui, da cotanta cattedra, insegna agli altri cosa dovrebbero e non dovrebbero fare. Invece niente: si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio. Infatti lui continua a pontificare come se niente fosse. Ora, per dire, dopo aver contribuito al fianco dell’Innominabile a trascinare il Pd al minimo storico del 18% nel 2018, s’è messo in testa che il partito debba cambiare segretario. Cioè far fuori Zinga che, fingendosi morto, è riuscito nella mission impossible di riportarlo oltre il 20%, malgrado le scissioni di Italia Viva e Azione (detta anche Calenda). O forse proprio per quelle.
Che Gori sia rimasto berlusconiano, cioè renziano, lo dimostra il prudentissimo pigolio con cui commentò l’uscita più forse invereconda (tra le mille) dell’Innominabile durante il lockdown, quando il suo spirito guida, grande sponsor della riapertura a fine aprile, cioè di Confindustria, non trovò di meglio che chiederla a nome dei bergamaschi morti nella strage da Covid. Lui, anziché mangiarselo vivo come volevano i parenti delle vittime, balbettò che l’uscita era “poco felice, stonata e fuori luogo”, assicurando subito dopo che l’amico Matteo “voleva sottolineare l’attaccamento al lavoro della gente di Bergamo” e nel “pieno rispetto del dolore di queste province”. Resta da capire perché mai, anziché entrare in Italia Morta, si ostini a restare nel Pd e a strillare perché, anziché con B. e Salvini, governa coi 5Stelle. O meglio, si capisce benissimo: Iv un leader ce l’ha, ma gli mancano gli elettori; il Pd invece gli elettori li ha e, per il leader, lui pensa a se stesso, fra quattro anni quando gli scade il mandato da sindaco, o anche prima. L’età pensionabile, per i politici, è pressoché eterna. E lui ha appena 60 anni, ma ne dimostra molti meno. È come Umberto Agnelli nel ritratto di Fortebraccio: “Sembra un bambino cresciuto soltanto dal collo ai piedi, la faccia gli è rimasta quella degli omogeneizzati”. Un giovane-vecchio con idee decrepite, che abbraccia sempre fuori tempo massimo: ora, per dire, è blairiano e clintoniano, quando Clinton e Blair nei rispettivi paesi non mettono più il naso fuori di casa. Ergo il sindaco al Plasmon piace molto a Confindustria, che a Bergamo regna e governa in condominio con la Curia: infatti l’anno scorso chi comanda nella città alta e in quella bassa fece sì che la Lega candidasse una scartina per non disturbare la sua rielezione.
L’altro giorno il vicesegretario Orlando nota che il Pd è a 5 punti dalla Lega e, senza le due scissioni, sarebbe pari. Apriti cielo. Siccome i sondaggi dimostrano che fece malissimo l’nnominabile nel 2018 a opporsi al governo col M5S, Gori replica al posto degli scissionisti: “Pensa il Psi: se nel ’21 non avesse subito la scissione di Livorno, a quest’ora dove stava”. Una scemenza assoluta: la dannazione scissionista della sinistra italiana la conoscono tutti i progressisti, dunque non Gori, la cui fama lo precede. Negli anni 80 è uno studente craxiano. Il che gli spalanca le porte di Bergamo Tv e poi della Fininvest (che le ingloba): nel 1989, a 29 anni, è capo dei palinsesti di tutte e tre le reti del Biscione, mobilitate l’anno seguente nella campagna pro legge Mammì. Nel ’91, a 31 anni, è direttore di Canale5, dove rimane fino al 2001, salvo due anni a Italia1. Sotto la sua guida, l’ammiraglia berlusconiana si batte come un sol uomo nel ’93 contro la regolamentazione degli spot (“Vietato Vietare”). Nel ’94 è il megafono della discesa in campo di B.: dagli spottini pro Forza Italia di Mike, Vianello, Zanicchi&C. ai programmi-manganello Sgarbi quotidiani e Fatti e Misfatti di Liguori, specializzati nel killeraggio dei nemici del capo (Montanelli in primis). Nel ’95 il Canale5 goriano spara a zero contro i referendum per mettere un freno agli spot e un tetto antitrust al gruppo (come ordina la Consulta).
Nel 2001 il marito di Cristina Parodi si mette in proprio e fonda Magnolia, produttrice di format televisivi e fornitrice di Rai, Mediaset, La7 e Sky. Che lascia ai soci nel 2011 per darsi alla politica nel Pd al seguito dell’unico pidino che piace a B.: l’Innominabile. È Gori il regista delle prime Leopolde (da solo o in tandem con Martina Mondadori, membro del Cda della casa editrice di famiglia rubata con B. a De Benedetti), dove l’amico Matteo promette di rottamare la vecchia Italia prima di diventarne il principale santo patrono. Nel 2014 viene ricompensato con la candidatura a sindaco della sua Bergamo, che però gli va stretta. Infatti nel 2018 corre per la presidenza della Lombardia e riesce non solo a perdere (contro il centrodestra ci sta), ma pure a farsi quasi doppiare da Attilio Fontana (29% a 49%). E torna a più miti consigli nella città natia. Lì intercetta l’ultima disgrazia: il Covid, dandogli una mano a galoppare col famoso appello (a cena con la moglie) “Bergamo non ti fermare!”, anzi tutti in pizzeria, nei negozi e nei musei (“da riaprire”), contro “un clima di preoccupazione che è andato molto aldilà del necessario”. È il 26 febbraio, tre settimane prima delle colonne di mezzi militari in marcia con centinaia di bare. E stare un po’ zitto?

Concessioni balneari, votano tutti la lobby dei balneari: lo Stato prende solo briciole. - Patrizia De Rubertis e Giacomo Salvini

Concessioni balneari, votano tutti la lobby dei balneari: lo Stato prende solo briciole

Tre anni fa ci ha messo lo zampino il maltempo eccezionale, nel 2019 è arrivato l’aiutino dell’ex ministro del Turismo, il leghista Gian Marco Centinaio. Quest’anno, causa Covid-19, è stato ancora più facile annacquare “spiaggiopoli”. Con una veloce trattativa tra il senatore forzista Maurizio Gasparri e il ministro Dario Franceschini (Pd) è stato inserito nel calderone del dl Rilancio un emendamento di Deborah Bergamini (FI) – con voto bipartisan in Commissione Bilancio – che proroga le concessioni demaniali marittime, cioè le spiagge, fino al 2033. La storia è sempre la stessa: per tutelare una realtà di piccole imprese – sono 30 mila per lo più a conduzione familiare – l’Italia non riesce a mettere all’asta le concessioni, come vuole l’Europa. Il nemico della lobby degli stabilimenti balneari è la direttiva Bolkestein del 2006. Aggirata nel 2010 dal governo Berlusconi, è stata prorogata di altri 15 anni dalla legge di Bilancio 2019. Ed ora l’emendamento l’ha riformulata per evitare che si creassero dei contenziosi a sfavore dei balneari: troppi Comuni non hanno aggiornato le delibere. Così, quella che dovrebbe essere una gigantesca risorsa economica, si traduce in un misero introito per lo Stato: le concessioni portano all’Erario appena 105 milioni di euro, a fronte di un giro di affari stimato da Nomisma in 15 miliardi di euro annui. Dividendo l’introito per le 25.000 concessioni, i gestori pagano allo Stato “zero”, per dirla con Carlo Calenda. “Il numero delle concessioni cresce ovunque, ma nessuno controlla”, spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. “Abbiamo svenduto le coste”, dice il segretario dei Verdi Angelo Bonelli: “I prezzi stracciati delle concessioni sono uno scandalo che porteranno l’Italia a risponderne di nuovo davanti alla Commissione Ue”.
Ed eccoli gli affari d’oro. Per il Twiga di Marina di Pietrasanta (quasi 4.500 mq), dove si spendono mille euro al giorno, il proprietario Flavio Briatore (Daniela Santanchè è una socia) paga 17.619 euro di canone allo Stato, contro 4 milioni di fatturato. Un anno e mezzo fa l’imprenditore ha acquistato la concessione dalla storica famiglia di proprietari a 3,5 milioni di euro. Al Papeete (5 mila mq e 35 euro per due lettini e un ombrellone), lo stabilimento romagnolo reso famoso da Matteo Salvini, lo scorso anno i ricavi sono volati a 3,2 milioni, ma il canone – riporta il Corriere – è rimasto fermo a 10 mila euro. Secondo il report di Legambiente, a Santa Margherita Ligure, il Lido Punta Pedale versa 7.500 euro all’anno; a Forte dei Marmi il Bagno Felice 6.560 euro per 4.860 mq; il Luna Rossa di Gaeta 11.800 euro per 5.381 metri, mentre il Bagno azzurro di Rimini ne versa 6.700. In Sardegna, per la spiaggia di Liscia Ruja, l’hotel Cala di Volpe paga 520 euro all’anno. Della proroga al 2033 ne beneficeranno di certo i 71 stabilimenti di Ostia (10 km di spiaggia) che, a fronte di ricavi da 300 mila euro, pagano tra i 20 e 40 mila euro l’anno. La giunta capitolina di Virginia Raggi sta portando avanti la battaglia per abbattere gli stabilimenti e le strutture abusive. “Sono arrabbiato – dice il consigliere M5S in Campidoglio, Paolo Ferrara – con questa norma siamo molto più deboli. Così hanno vinto gli stabilimenti balneari perché con una legge nazionale noi non possiamo più fare niente: ci hanno legato le mani”.
E intanto di aumentare i canoni di concessione non se ne parla. Anzi. Lo stesso emendamento per sanare “una palese ingiustizia” a danno dei gestori delle concessioni “pertinenziali” (cioè bar, ristoranti e chioschi in muratura), ha abolito il pagamento dei canoni calcolato attraverso i valori dell’Agenzia delle Entrate (fino a 200 mila euro), sancendo che non dovranno sborsare più di 2.500 euro. E potranno sanare le morosità pagando solo il 30% del dovuto in un’unica soluzione o rateizzare il 60% fino a un massimo di 6 annualità. Stessa spiaggia, stesso mare, affari d’oro.