sabato 22 agosto 2020

I miei fiori.

L'immagine può contenere: fiore e pianta

Anche quest'anno i miei fiori mi hanno fatto dono della loro bellezza.
Anche la rosa bianca e i gigli di mare con il loro intenso e gradevolissimo profumo.

Volta&Gabbana. - Marco Travaglio

Non mi ricordo cosa dovevo ricordare
Collezionare ritagli di giornali è un hobby che consiglio a tutti: basta afferrare una cartellina a caso con quello che tizio diceva l’altroieri, confrontarlo con ciò che dice oggi e scompisciarsi. Un tempo il primato assoluto era dei politici, ora invece li scavalcano opinionisti, imprenditori e giuristi, oltre alle nuove star della virologia.
Il Cazzaro Verde non ci sta a farsi metter sotto, infatti il 10 marzo voleva “chiudere tutta l’Italia” e l’11 “tutta l’Europa”, massì abbondiamo: ora chiede “l’arresto di Conte, che chiuse l’Italia (l’Europa era troppo, ndr) contro il Comitato tecnico scientifico” (che era favorevole). Dinanzi alla crescita esponenziale dei contagi (mille al giorno, soprattutto nella Lombardia modello che conta il 35,2% dei 15.089 casi attivi al 18 agosto), proclama: “Ora non c’è emergenza e chi dice il contrario, ovvero il governo, è in malafede e fa terrorismo per mantenere il potere” (veramente dicono il contrario i suoi presidenti regionali Zaia e Fontana, ma fa niente). E i giornalisti che pubblicano i dati che dicono l’esatto opposto lo fanno perché “il virus conviene: tenere in vita il virus in pieno agosto fa guadagnare soldi o fa guadagnare voti. Non si spiega altrimenti il coro quasi unanime di giornali e tv per creare un allarme che non c’è e parlare di emergenza in mancanza di emergenza”. Certo, come no.
Senz’offesa per Salvini, le sue scemenze non riescono a eguagliare quelle ripetute fino a dieci giorni fa dal suo ultimo spirito guida dopo la dipartita di Bannon: l’emerito Sabino Cassese che, sul Corriere e i suoi derivati, contestava la proroga fino a metà ottobre dello “stato di emergenza senza emergenza” (quando esso fu proclamato il 30 gennaio, i positivi erano 2 in tutta Italia, dunque l’emergenza era infinitamente più lieve di quando il governo l’ha prorogata e lui avrebbe voluto revocarla; ma fa niente). Ecco: che fine ha fatto Cassese? Perché oggi, con mille nuovi infetti al giorno, non c’illumina d’immenso con qualche altra scempiaggine? Ci manca tanto.
Meglio di lui però fa Confindustria. Ricordate le filippiche del presidente Carlo Bonomi contro “il governo dei bonus e dei sussidi a pioggia” e contro il Dl Liquidità per i prestiti bancari garantiti dallo Stato alle imprese in difficoltà? “La strada di far indebitare le imprese non è quella giusta, l’accesso alla liquidità non è immediato”. Poi iniziò a frignare perché i prestiti non arrivavano, e mica era colpa delle banche, no: sempre del governo, tant’è che ne invocava “uno diverso”. Ieri Confindustria, forse approfittando delle sue ferie, ha annunciato fra squilli di tromba che già un milione di imprese hanno chiesto i prestiti garantiti.
Tripudio incontenibile: “Un traguardo che conferma la grande utilità di uno strumento che in questi mesi ha rappresentato una risposta concreta ed efficace per le imprese costrette a fronteggiare un’emergenza di liquidità senza precedenti”. Parola di Emanuele Orsini, vicepresidente di Confindustria. Il vice di Bonomi. Che ora si scuserà per aver detto il contrario. O no?
Meglio di Bonomi fa la Repubblica, con la sua nuova crociata per il No al taglio dei parlamentari, in tandem con i fratellini di Stampa ed Espresso e i nuovi cuginetti del Domani. L’appello al No del direttore Molinari è stato subito ritwittato da Ezio Mauro: lo stesso che nel 2008 reclamava “due riforme essenziali per la governabilità e la legittimità del sistema: la riduzione del numero dei parlamentari (con la fine del bicameralismo perfetto) e dei partiti”; e nel 2013 invitava il Pd a “sfidare i 5Stelle” con un “pacchetto che comprenda il dimezzamento del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione drastica dei costi della politica, l’abolizione dei privilegi”. Ieri, nella meritoria battaglia contro la propria storia, Repubblica ha reclutato i compagni Brunetta e Violante. Il primo voterà No con argomenti squisitamente giuridici: “I 5Stelle sono un partito morente” (infatti la maggioranza in Parlamento ce l’ha FI) e vanno “ammazzati definitivamente” per “dare la spallata a Conte”, visto che “la gente vuole la buona politica e si riconosce in Draghi”, oltreché – si capisce – in Brunetta. Anche Violante è in vena di diritto, ma pure di logica cartesiana: “Se prevalesse il Sì, gli effetti sarebbero gravi”: “il Senato con soli 200 componenti non riuscirà a stare al passo col lavoro della Camera” perché i senatori sarebbero la metà dei deputati (invece oggi che i senatori sono la metà dei deputati stanno al passo eccome). Seguirà un “ulteriore discredito del Parlamento”: infatti, diminuendo il numero dei suoi membri, “ciascun voto peserà molto di più” (più i parlamentari contano, più il Parlamento si scredita: è pura matematica). E infine il Senato andrà “alla paralisi o al disordine” (strano: dal 1948 al ’57 il Senato ebbe 237 membri, e poi 246 dal 1957 al ’63, e non si segnalarono paralisi né disordini). Ma non basta. Nel 2013 il presidente Napolitano nominò un comitato di 8 saggi per le riforme che, fra le altre, proposero questa: “I deputati verrebbero a essere complessivamente 480, per i senatori si propone un numero complessivo di 120” (cioè 600 come con l’attuale riforma, ma peggio distribuiti). Fra loro c’era un certo Luciano Violante. Chissà se è lo stesso Luciano Violante che ora scrive su Repubblica, o se i due omonimi si sono mai conosciuti.

venerdì 21 agosto 2020

Le 10 domande. - Marco Travaglio


A Maurizio Molinari, direttore di Repubblica.
Caro Direttore, mi consenta di felicitarmi per la svolta da Lei impressa a Repubblica, un tempo mia bestia nera e ultimamente docile agnellino. Del resto mi avevano sempre parlato bene di lei i miei amici de L’Opinione e de Il Tempo e i miei ex dipendenti de Il Foglio e di Panorama che L’hanno avuta in passato come valente collaboratore. Colgo l’occasione per rivolgere a Lei, ma soprattutto alle firme superstiti dell’ex organo del giustizialismo antiberlusconiano, le mie “10 domande a Repubblica”, sullo stile delle “10 domande di Repubblica” che, nella stagione della nostra più aspra contrapposizione fortunatamente archiviata, la vostra testata indirizzò proditoriamente al sottoscritto.
1. Ieri ho molto apprezzato il Suo editoriale “Perché votare No al referendum”: con tutti i posti che ho promesso in giro per ricomprarmi i forzisti in fuga verso Salvini e Meloni, ci manca soltanto che ora me ne sparisca un terzo. Purtroppo quei panciafichisti di Sallusti e Feltri, diversamente da lei e dal direttore de l’Espresso Marco Damilano, non osano battersi per il No per paura di perdere lettori: gliela farebbe una telefonatina per convincermeli?
2. Sempre ieri ho ritagliato il commento di Marco Bentivogli, che ha esordito sul Suo giornale e, tra parentesi, è il mio sindacalista preferito. Geniale l’idea di scatenare contro Conte “Il tridente della speranza” Mattarella-Draghi-Cartabia, molto più divertente del trio Lopez-Marchesini-Solenghi e più intonato del Trio Lescano. Che ne dice di aggiungermi alla compagnia, visto che col Quartetto (H)ar(d)core non ce ne sarebbe più per nessuno?
3. La ringrazio vivamente per lo spazio che riserva a Stefano Folli, mio antico estimatore dai tempi del Sole24 ore e del Corriere, e a Stefano Cappellini, di cui già adoravo le filippiche su Riformista e Messaggero contro i pm politicizzati: i loro quotidiani annunci sulla caduta di Conte mi fanno ben sperare in un lucroso ritorno al passato. Non potrebbe mettermeli sempre in prima pagina?
4. Standing ovation per gli acquisti nelle pagine economiche di due miei vecchi fan: Oscar Giannino e Giancarlo Mazzuca, che fu pure mio deputato. Ma lo sa che, da quando ho lasciato Palazzo Grazioli, mi sento a casa solo quando leggo Repubblica?
5. Ottimo anche l’ingaggio come editorialista di Domenico Siniscalco, che era il mio ministro dell’Economia quando Repubblica mi chiamava Caimano, Egoarca e Satiro minorile in combutta con le toghe rosse e con mia moglie. Ora non vorrei intromettermi, ma se Lei volesse allargare il parterre de roi avrei in serbo altre grandi firme di sicuro successo.
Può servire un Tremonti? Può essere utile un Brunetta, peraltro appena definito “una risorsa” dal vostro Merlo? Serve un esperto di scuola come la Gelmini, che sa il fatto suo anche su tunnel e neutrini? E Gasparri, che è pure giornalista? Può far comodo un’igienista dentale? Basta chiedere, a disposizione.

6. Noto con orgoglio che alla fine, dopo lunghe e assurde battaglie ideologiche veterosinistresi in nome dell’ambiente e dell’antimafia, siete arrivati anche voi a sostenere il ponte sullo Stretto di Messina con i meravigliosi articoli di Francesco Merlo e Sebastiano Messina (nomen, omen). Se non erro l’amico Lunardi, quello che voleva convivere con la mafia e infatti andava molto d’accordo con Dell’Utri, dev’essere ancora vivo. Viene via per poco: vi serve mica un esperto di trasporti e convivenze?

7. Noto con piacere che avete riposto in soffitta gli altri vostri cavalli di battaglia: i miei presunti conflitti d’interessi, la mia presunta iscrizione alla P2, il mio presunto stalliere Mangano, i presunti Previti e Dell’Utri, i miei presunti finanziamenti alla presunta mafia, le mie presunte corruzioni di senatori, premier, giudici, testimoni, finanzieri e minorenni, i miei presunti falsi in bilancio, le mie presunte frodi fiscali, le mie presunte prescrizioni, la mia presunta condanna, i miei presunti processi in corso. Che infatti non sono mai esistiti. Ora non vorrei osare troppo, ma perché non ripetete con me: “Ruby era la nipote di Mubarak”? È tanto liberatorio!


8. Ho letto con soddisfazione l’intervista a Tpi di una delle vostre firme di punta, Francesco Merlo, il quale dice che io sono quel che sono, ma definisce Forza Italia “meglio dei 5Stelle” e il M5S “forza non democratica”. E auspica “un nuovo governo, con un nuovo presidente del Consiglio” che “in Forza Italia potrebbe trovare alcune delle persone più degne” e “tante persone perbene”. È quel che dico anch’io da 25 anni, ma non è meraviglioso che ora lo diciate anche voi?


9. Siccome già Scalfari confessò “Tra Berlusconi e Di Maio voterei Berlusconi” e De Benedetti ha appena dichiarato “Pur di cacciare Conte mi va bene un governo Pd-Berlusconi”, che senso ha disperdere tante energie in una miriade di giornali concorrenti che dicono tutti le stesse cose? Voi, grazie ai lungimiranti Elkann, avete già fuso Stampa e Repubblica in Stampubblica: se convinco Sallusti e l’Ingegnere, che ne dite di fare un ultimo passo dando vita a Il Giornale di Stampubblica del Domani?


10. Si offenderebbe, Direttore, se a questa mia facessi seguire una tessera gold di Forza Italia?
Devotamente suo, Silvio Berlusconi.

La ’ndrangheta, il tradimento di Gelli e la “spallata finale” allo Stato pianificata dalle mafie del Sud. - Lucio Musolino

La ’ndrangheta, il tradimento di Gelli e la “spallata finale” allo Stato pianificata dalle mafie del Sud

La deposizione di Giuliano Di Bernardo, ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, nel processo “’Ndrangheta stragista”: “Gelli si mette a fare affari in tutto il mondo…cioè, tradisce gli americani, e mettendo da parte il fine politico, per favorire quelli suoi, economici, e del suo gruppo”.
“Licio Gelli è stato inventato dalla Cia, dagli americani. Inventato. Inventato, perché il governo americano aveva perso fiducia in Moro e Andreotti, e quindi cominciava a temere che in Italia ci potesse essere il sorpasso comunista”. Sono le parole di Giuliano Di Bernardo nel processo “’Ndrangheta stragista”, concluso il 24 luglio con l’ergastolo inflitto al boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e a Rocco Santo Filippone, espressione della cosca Piromalli. Entrambi sono stati condannati, in primo grado, perché mandanti del duplice omicidio dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo avvenuto il 18 gennaio 1994. Un agguato che, assieme agli attentati ad altre due pattuglie dell’Arma, rientrava nelle cosiddette “stragi continentali” e, quindi, nella “strategia stragista” di Cosa nostra e ‘Ndrangheta contro lo Stato. Una partita a scacchi in cui, dietro i clan, si nascondeva un mondo in giacca e cravatta fatto di politici, imprenditori e uomini delle istituzioni che di giorno si battevano il petto sulle bare dei morti ammazzati dalle bombe e di notte tramavano con boss e pezzi deviati dello Stato per organizzare quella che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, nella sua requisitoria, ha definito “la spallata finale alla prima Repubblica”. Un mondo che, sotto la giacca, non aveva solo la cravatta ma spesso nascondeva anche la squadra e il compasso.
Ecco perché la deposizione di Giuliano Di Bernardo non è casuale nel processo che potrebbe riscrivere una delle pagine più buie del nostro Paese. Fino al 1993, infatti, Di Bernardo è stato il gran maestro del Grande Oriente d’Italia da cui è uscito dopo aver percepito “una sorta di compenetrazione fra una certa massoneria e la criminalità organizzata, specie calabrese”.
Dal racconto di Di Bernardo, che nel 2002 fondò la Gran Loggia Regolare d’Italia, emerge non solo che le mafie avevano infiltrato le logge ma anche come all’inizio degli anni novanta massoneria, ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e destra eversiva erano impegnate a sostenere i movimenti separatisti siciliani e meridionali. Stando alle carte della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, un ruolo fondamentale in queste manovre è stato quello di Licio Gelli.
Per capire il perché è necessario andare oltre i “papelli” con le condizioni che i mafiosi siciliani volevano imporre allo Stato Italiano, oltre la “falsa politica” della ‘ndrangheta e oltre qualsiasi altra inconfessabile trattativa tra le istituzioni e la criminalità organizzata.
In gioco c’era anche altro e quest’altro passava per l’universo “gelliano” della P2. Ricomporre il puzzle non è semplice per il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo: inserire i tasselli uno dopo l’altro potrebbe fornire un disegno inquietante rispetto alla versione confezionata degli ultimi 50 anni.
Ecco quindi che i verbali dell’ex gran maestro del Goi Giuliano Di Bernardo, poi confermati in aula davanti alla Corte d’Assise, rischiano di aprire uno squarcio su un sistema in cui il ruolo di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone è certamente di primo livello ma quantomeno pari a quello dei “suggeritori occulti”, menti raffinate che assieme ai boss componevano quella che la Dda di Palermo, nell’inchiesta “Sistemi criminali”, aveva definito “super-struttura eversiva in cui erano confluite, mafie, massoneria deviata, politici collusi, uomini legati a servizi di sicurezza e a Gladio”. In sostanza uomini che sussurravano all’orecchio dei mammasantissima per creare le “condizioni politiche che garantissero ancora agibilità e potere alle forze illegali che avevano prosperato nel Paese fino a quel momento”.
“Gelli – dice Di Bernardo rispondendo alle domande del procuratore Lombardo – è stato il referente unico, esclusivo, del governo americano, per evitare che in Italia si facesse il sorpasso dei comunisti. Quindi, Gelli ha avuto montagne di dollari, ma soprattutto il governo americano, la Cia, l’Fbi, questi… hanno messo all’obbedienza di Gelli i vertici italiani: i vertici economici, i vertici militari, i vertici della magistratura, i vertici, li hanno messi tutti alla sua obbedienza. Che lui iniziava all’”Excelsior” di Roma, col gran maestro Gamberini. Quindi, questo uomo, all’improvviso, si è ritrovato un potere come penso nessun altro abbia mai avuto in Italia. Tutto questo doveva servire per evitare il sorpasso. Si parla lì di questo progetto politico di Gelli”.
Il riferimento è al famoso “piano di rinascita democratica” redatto dal “burattinaio” Licio Gelli, l’ex “Venerabile” della loggia P2: “La realtà è sempre più banale di quello che si può pensare. – è Giuliano Di Bernardo che parla – Gelli si era impegnato a modificare l’Italia per evitare il sorpasso (comunista, ndr). Però, Gelli, quando riceve i soldi dagli americani, fa i suoi affari in diversi paesi del mondo… Non pensa allo scopo fondamentale, che avrebbe dovuto invece interessarlo. Gli americani cominciano a sollecitarlo e allora lui, come ha confidato a qualche suo collaboratore, che poi è arrivato anche a me, non ce la faceva più di queste sollecitazioni degli americani, si è messo a scrivere, così, a caso, un progetto”.
La realtà, quindi, è diversa per l’ex gran maestro del Goi Di Bernardo: “Gelli si mette a fare affari in tutto il mondo…cioè, tradisce gli americani, e mettendo da parte il fine politico, per favorire quelli suoi, economici, e del suo gruppo”.
Per questo motivo era stato allontanato dal Goi dove, però, voleva rientrare a tutti i costi: “Gelli aveva la sua base all’interno del Grande Oriente. Gelli ritiene che ogni uomo sia comprabile, ecco, e mi fa fare la domanda: ‘Decidi tu la somma, fissa tu. Se tu lo fai rientrare, Gelli ti dà questa somma’ – è sempre il racconto di Di Bernardo – E io gli feci rispondere: ‘Gelli forse ha comprato tanti, ma certamente non comprerà me’. Poco dopo ritorna la stessa persona, con un’altra proposta, per indurmi a farlo rientrare, e mi dice: ‘Gelli, in cambio del tuo appoggio a farlo rientrare, metterà a tua disposizione l’elenco vero della P2, con i relativi fascicoli’.
Una frase che non lascia adito a dubbi, ma il pm Lombardo vuole cristallizzare un dato importante che proviene da chi conosce il mondo della massoneria dal suo interno.
“L’elenco vero significa non quello sequestrato dalla magistratura?”. Il magistrato fa lo stesso la domanda e la risposta è secca: “No, no. Quello è solo parziale. Io sono arrivato alla conclusione che è solo parziale. Gelli mi fa dire da questo suo emissario che avrebbe messo a mia disposizione, mi avrebbe dato il vero elenco, con i relativi fascicoli. E aggiunge: ‘In questo modo, potrai ricattare tutta l’Italia’”.
Di Bernardo quell’elenco lo rifiutò e al momento si può solo intuire il contenuto di quei fascicoli. Per farlo il testimone della Procura ricorda un incontro avuto con il segretario personale dell’ex gran maestro Battelli: “Chiede di incontrarmi perché voleva fare una dichiarazione al gran maestro da firmare. Infatti, lo incontro, e mi dice che una sera Gelli si presenta nello studio del gran maestro Battelli, con un grosso fascicolo, e gli dice: ‘Questo è l’elenco della P2’. Battelli comincia a sfogliarlo, e, come sostiene il suo segretario, diventa di tutti i colori. Alla fin fine Battelli, dopo aver letto, chiude e dice a Gelli: ‘Riprendilo, questo io non l’ho mai visto’. Dopo commenta col suo segretario: ‘Le cose che… i nomi che ho visto lì, non li voglio neanche dire a te. Io, quel fascicolo, non l’ho mai visto’. Quindi, il segretario di Battelli si è sentito in dovere di fare a me questa dichiarazione scritta, per dirmi: ‘Guarda che…’, allora, dalla stessa ammissione di Gelli, che mi voleva dare l’elenco completo con i fascicoli, alla testimonianza di questo… io ho la convinzione che il vero elenco esiste, ma non sappiamo dov’è, ecco”.
Tutto ovviamente è avvenuto dopo che la loggia P2 era stata sciolta: “Ah, certo…. Per sciogliere la P2 era stata necessaria la legge ‘Spadolini-Anselmi’. Quella legge non scioglie proprio nulla, e non scioglie nulla perché contiene una contraddizione che contrasta anche con un articolo della Costituzione… perché la legge ‘Anselmi’ è stata scritta da massoni. In modo particolare dal professor Paolo Ungari”.
Caduto dalla tromba dell’ascensore al terzo piano di un palazzo vicino al Campidoglio, il consigliere parlamentare della Camera dei deputati e docente universitario Paolo Ungari è morto nel 1999. Come ha chiesto nel testamento redatto sei anni prima, sulla sua lapide c’è scritto solo “maestro massone”.
Lo ricorda bene Di Bernardo: “Avevo conosciuto Paolo Ungari all’università di Trento, dove io appunto ho insegnato per tutta la mia vita…Poi ci siamo ritrovati dopo la mia elezione a gran maestro del Grande Oriente e così, parlando del più e del meno, mi disse: ‘Non si sono ancora accorti…’, ecco, qui stiamo parlando del 1991.. ‘che la legge Anselmi non solo non consente di sciogliere la P2, perché il secondo capoverso contrasta col primo, ma è addirittura incostituzionale, perché contrasta con un articolo della Costituzione sulle libertà di associazione’. Ecco, e disse: ‘Vediamo quanto tempo passerà prima che se ne accorgano’. Qualcuno prima o poi dovrà prendere in mano (quella legge, ndr)”.
Gelli, massoneria deviata e anche ‘ndrangheta: il “Venerabile” aveva un’influenza, “anche indiretta”, sulle dinamiche criminali calabresi come spiega il collaboratore di giustizia Consolato Villani, uno dei killer che sparò ai due carabinieri nel gennaio 1994, nelle sue dichiarazioni sull’omicidio di Lodovico Ligato, il deputato della Dc ed ex presidente delle Ferrovie dello Stato ucciso il 27 agosto 1989 a Bocale, nella periferia sud di Reggio Calabria.
“La stanza dei bottoni che comanda sulla ‘Ndrangheta militare, – dice Villani – è quella di cui facevano parte l’avvocato De Stefano, Paolo Romeo e l’onorevole Ligato, ucciso per indebolire proprio i De Stefano: tale sistema è necessario anche al fine di controllare gli esponenti politici compiacenti. Tanto l’avvocato Paolo Romeo che l’avvocato Giorgio De Stefano facevano parte della P2 di Licio Gelli che spesso si recava a Reggio Calabria”.
Il verbale di Villani fa il paio con quello di uno dei primi collaboratori di giustizia, Filippo Barreca che, già nel gennaio 1995, aveva riferito sull’esistenza, sin dai “primi mesi dell’anno ’79”, di “una loggia segreta a Reggio Calabria… a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, ‘ndranghetisti”.
A costituirla, stando alle dichiarazioni del pentito, era stato “Franco Freda…nel contesto di quel più ampio progetto nazionale” al quale avevano aderito “le più importanti personalità cittadine” tra cui anche “Lodovigo Ligato, l’onorevole Paolo Romeo, l’avvocato Giorgio De Stefano… e taluni componenti della loggia appartenevano anche alla P2…la loggia, peraltro, aveva stretti rapporti con la massoneria ufficiale. Le competenze della loggia, come detto, si fondavano su una base eversiva. Ma, prevalentemente, la loggia mirava: ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche, compresi gli appalti, della provincia di Reggio Calabria; il controllo delle istituzioni a cui capo venivano collocate persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l’aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura”.
Se questo avveniva in riva allo Stretto alla fine degli anni 70 e per tutti gli anni 80, la situazione era sovrapponibile al resto dell’Italia: la caduta del muro di Berlino e lo sgretolamento della Democrazia Cristiana hanno solo confermato la “rete di potere di Licio Gelli e i suoi duraturi rapporti con le mafie e l’eversione”.
“La congiuntura internazionale – scrive il procuratore Lombardo nella sua requisitoria – non era neanche tale da fare sperare, a Gelli e ai mafiosi, in un placido ritorno al passato. La fine della guerra fredda e del comunismo, non solo depotenziavano il valore politico aggiunto o se si vuole, la rendita politica, rappresentata, per l’appunto, dall’anticomunismo (che sia per Gelli che per le Mafie era stato un utile pretesto per legittimare il loro potere) ma prefiguravano equilibri politici diversi e, in particolare (come poi in effetti è successo) il superamento della cosiddetta ‘democrazia bloccata’ che aveva caratterizzato fino a quel momento la storia repubblicana”.
In altre parole, “il prevedibile (e, poi, realizzatosi) sfarinamento di quelle forze politiche, il contestuale manifestarsi al loro interno di forze antimafia e di forze che si erano opposte all’influenza di poteri extra-ordinem, per due poteri reali ed effettivi (quali quelli incarnati da Gelli, e quindi dalle massonerie deviate e dai pezzi di istituzioni che gli erano rimasti vicini, e dalle mafie) rendeva vieppiù necessario dare una ulteriore spallata al sistema e contribuire alla creazione di una nuova rappresentanza politica con cui interloquire. E se queste sono le ragioni della convergenza d’interessi fra Gelli, il suo sistema di potere e le mafie, fatti concreti ed emergenze investigative, consentono di affermare che il collante, il regista (almeno in una fase iniziale) del leghismo meridionale, colui che fu capace di mettere insieme tutte le eterogenee componenti di tale movimento e, quindi, anche, colui che fu capace di cogliere il momento di frizione e rottura fra le mafie e la vecchia classe politica agevolando l’adesione di queste ultime al progetto “federalista”, fu proprio Licio Gelli”.

Ambiente, profondo rosso: tra 24 ore la Terra è in debito. - Luca Mercalli

Ambiente, profondo rosso: tra 24 ore la Terra è in debito

Il 22 agosto è il giorno del sovrasfruttamento delle risorse terrestri da parte dell’Umanità (Overshoot Day). Non è una data fissa, celebrativa, come la giornata mondiale dell’ambiente o della gioventù, ma è come una spia rossa che si accende sul cruscotto dell’auto e ti dice che sei in riserva perché hai premuto troppo sull’acceleratore. Nel 1970, con una Terra popolata da 3,7 miliardi di umani – meno della metà di quanti siamo oggi – quella data cadeva il 29 dicembre: era una buona cosa, dovevamo viaggiare in riserva solo per un paio di giorni, poi con il primo gennaio dell’anno nuovo, come con gli interessi di un conto in banca sano, si poteva fare rifornimento di risorse naturali che il capitale terrestre era in grado di rigenerare. Ma anno dopo anno, cresciuta la popolazione, cresciuti i consumi e cresciuto l’inquinamento, la data della riserva ha cominciato ad anticipare sempre più, nel 2000 era arrivata al 23 settembre e nel 2019 al 29 luglio, la più precoce di sempre.
“In riserva” carbone&C.: mangiare la biodiversità
Nel caso del nostro pianeta viaggiare in riserva vuol dire che ti mangi il capitale cioè impoverisci la biodiversità, estingui specie pescando troppo pesce negli oceani, deforestando l’Amazzonia, scavando miniere, cementificando il suolo, bruciando petrolio e carbone, cambiando il clima, spargendo plastica e altri rifiuti, accrescendo la popolazione di circa 80 milioni di persone all’anno. Giocando a spendere più di quanto ci sia sul conto per cinque mesi su dodici, contraiamo un debito molto più importante di quello monetario: il debito ecologico, detenuto non da banche o governi, ma dalle inesorabili leggi fisiche che governano l’universo.
Un debito che non si potrà estinguere con decreti o recovery funds, perché è misurato in tonnellate di CO2, in concentrazioni di mercurio nelle acque, in microplastiche nel cibo, in mancanza di suolo fertile, in minore produttività agraria, in riduzione dell’acqua dolce e così via. Cioè basato sulle grandezze fisico-chimiche e biologiche che fanno funzionare la nostra vita e che non si comprano con la carta di credito. Quest’anno però è successo qualcosa di inatteso: invece di anticipare, la data del sovrasfruttamento ha riguadagnato 24 giorni, riportandosi ai livelli del 2005.
Non è l’effetto di un’improvvisa politica ambientalista planetaria, non è il frutto dell’Accordo di Parigi sul clima, ma semplicemente la riduzione dei consumi e dei trasporti dovuta al confinamento sanitario da coronavirus. Per qualche mese vari paesi del mondo hanno chiuso in casa la popolazione, la gente non ha più utilizzato aerei e automobili, ha sostituito i viaggi con le teleconferenze, ha ridotto lo shopping all’indispensabile, e magicamente le emissioni di CO2 sono diminuite e in parte anche l’uso di alcune materie prime non indispensabili. Ma con il rientro a una vita normale dopo l’emergenza, tutto sta tornando come prima o peggio di prima. Il terrore del collasso economico, che purtroppo è sempre, e a torto, maggiore di quello del collasso ecologico, spinge verso una ripresa dei consumi. La svolta verde è ancora lontana e carbone, petrolio, deforestazione e rifiuti continuano a essere il motore della crescita economica. Il rinculo della data del sovrasfruttamento 2020 potrebbe dunque essere un fenomeno del tutto transitorio, annullato nei prossimi mesi dal ripristino del modello dissipativo business-as-usual. Ma potrebbe anche rappresentare un eccellente esperimento positivo, la prova che se si vuole, si può ridurre in tempi brevissimi il nostro impatto sulle risorse planetarie.
Non invocando un nuovo lockdown, ma agendo sulle abitudini quotidiane, riducendo i viaggi inutili, soprattutto quelli aerei e il pendolarismo automobilistico facilmente sostituibile dal telelavoro, limitando i consumi di oggetti inutili, rallentando la frenetica attività produttiva voluta dalla competitività e dalla finanza. Ovvio che per rendere strutturali queste modifiche bisognerebbe cambiare il modello economico: da un capitalismo estrattivo basato sul dogma – fisicamente irrealizzabile – della crescita infinita in un mondo finito, a una società demograficamente ed economicamente stazionaria che possa essere più sobria nei consumi, rispettando i limiti planetari e sfruttando al meglio la tecnologia per ridurre gli sprechi, non per indurne di nuovi!
Domani o cambiamo o nessuno ci farà credito.
Se ciò verrà fatto, potremmo sperare di riportare la data della riserva verso dicembre, consegnando alle generazioni future un bilancio ecologico relativamente sano, un pacchetto di risorse naturali ancora passabile, un clima non troppo sregolato, un accumulo di rifiuti bonificabile. Se non lo faremo, la data, quando il problema Covid sarà risolto, tornerà ad anticipare, approfondendo sempre più il debito ecologico globale fino all’invivibilità di buona parte del pianeta. Come dire che a un certo punto la vera banca da cui dipendiamo tutti noi, quella ambientale, chiuderà il nostro conto in rosso e ci pignorerà ogni avere, saremo una specie sfrattata dal pianeta e nessuno ci farà credito. Sarà quello il giorno della bancarotta ecologica.

giovedì 20 agosto 2020

Coronavirus, è aumentata la carica virale nei tamponi. - Enrica Battifoglia

Aumenta la carica virale rilevata nei tamponi (fonte: Pikist) © Ansa
Aumenta la carica virale rilevata nei tamponi (fonte: Pikist)

Nei tamponi prelevati in questi ultimi giorni è decisamente aumentata la carica virale, ossia il numero delle copie di materiale genetico del nuovo coronavirus presenti in un millilitro di materiale biologico in esame. Il fenomeno potrebbe essere la spia dell'emergere di nuove infezioni, una possibile nuova ondata che sta provocando numerosi focolai e che, intercettata sul nascere, potrebbe essere ancora controllata.

"Tra fine luglio e i primi di agosto tutti i campioni positivi avevano la carica inferiore a 10.000 particelle di virus per millilitro di tampone", ha detto all'ANSA il virologo Francesco Broccolo, dell'Università Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano. "Ora - ha proseguito riferendosi ai dati rilevati nel suo laboratorio - circa la metà dei tamponi rilevati nell'ultima settimana supera il milione di copie di materiale genetico del virus, l'Rna, presenti nelle particelle virali infettive in un millilitro di tampone".

Si rilevano inoltre casi nei quali il numero di copie è di un miliardo: "questo può voler dire - ha osservato il virologo - che il virus si replica bene in alcuni organismi e che questi soggetti potrebbero essere dei super diffusori. Vale a dire che le goccioline di saliva emesse con un colpo di tosse o con uno starnuto potrebbero contenere un numero elevato di particelle virali".

L'ipotesi, secondo l'esperto, è che siano infezioni molto recenti, all'esordio: mentre fino a fine luglio vedevamo tamponi di infezioni acquisite nelle settimane precedenti, in sostanza code di infezioni in via di guarigione e che in alcuni casi possono persistere anche per più di tre mesi prima che il virus sia completamente eliminato dall'organismo".

Un'ipotesi che vede d'accordo l'infettivologo Massimo Galli, dell'Ospedale Sacco e dell'Università Statale di Milano: la presenza di una forte carica virale rilevata nei tamponi, ha osservato, "è purtroppo un fenomeno che nell'ultimo periodo si è verificato più volte e che è il segnale di molte nuove infezioni". Si tratta di una situazione decisamente diversa da quella che tempo fa aveva generato un dibattito sulla possibilità che alla fine del fine lockdown il virus avesse perso mordente e che, secondo Galli, "era probabilmente nata dalla constatazione che persone portatrici da tempo del l'infezione, se esaminate, appunto, dopo una 'lunga convivenza' con il virus non avessero una grande replicazione virale.

Questo, però, non accadeva perché il virus si fosse indebolito: tutto dipendeva da chi si andava a valutare. Stabilire da quanto tempo una persona è infettata è spesso difficile, specie se i sintomi della malattia sono modesti o mancano del tutto. È importante - ha rilevato Galli - che si dibattano temi come questi nella comunità scientifica, ma può accadere di dover ripensare a conclusioni tratte senza che tutti i termini del problema fossero ben definiti".

Un altro fenomeno probabilmente era presente fin dall'inizio dell'epidemia, ma che si va definendo solo adesso, è la presenza dei cosiddetti 'superdiffusori': "è il caso di una ragazza di 20 anni nel cui tampone è stata riscontrata una carica virale di circa un miliardo per millilitro e di un uomo di 42 anni con una carica di 2,9 miliardi", ha detto Broccolo.
"Per verificare che siano effettivamente dei super diffusori bisognerebbe fare un test, ma è possibile - ha concluso - che una carica virale così alta sia il presupposto per una buona capacità di infettare".


https://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/biotech/2020/08/19/coronavirus-e-aumentata-la-carica-virale-nei-tamponi-_533703a4-b0a2-4ec3-93ed-79662aa11349.html

Russia, caso Navalny: chi sono i veri mandanti e perché si vuole zittire l’oppositore di Putin. - Leonardo Coen

Russia, caso Navalny: chi sono i veri mandanti e perché si vuole zittire l’oppositore di Putin

Alexei Navalny, l’oppositore più carismatico di Putin, è stato avvelenato, e non è la prima volta che qualcuno prova ad eliminare l’antagonista più impavido del Cremlino. Per esempio, nel 2017, mentre stava uscendo dal suo ufficio moscovita, venne attaccato con uno spray tossico (un prodotto antisettico) spruzzato negli occhi. Nel luglio del 2019 era in prigione quando denunciò d’essere stato avvelenato da “un prodotto chimico sconosciuto”, ed per questo era stato trasferito in un ospedale.
In quell’occasione le autorità avevano replicato accennando ad una “reazione allergica” e avevano spergiurato che nessuna sostanza tossica era stata rintracciata, dopo accurate analisi. Tesi respinta fermamente dalla sua segretaria-portavoce, Kira Yarmick, la stessa che ha diffuso la notizia del nuovo avvelenamento, avvenuto dopo che Navalny aveva bevuto del tè in aeroporto, prima di imbarcarsi a Tomsk per rientrare a Mosca. Delle immagini lo mostrano alla caffetteria, apparentemente in perfetta salute.
Alexei Navalny, l’oppositore di Putin è tra la vita e la morte: ipotesi avvelenamento prima di un volo. Compagnia: “Non ha bevuto in aereo”. In una foto la colazione al bar dell’aeroporto
Il quarantaquattrenne avvocato si è sentito male in volo e le sue condizioni sono talmente peggiorate da costringere ad un atterraggio d’emergenza a Omsk. C’è un video girato con un telefonino che documenta il malore, le urla disperate per richiamare l’attenzione del personale di bordo, la perdita di conoscenza di Navalny. Il leader dell’opposizione russa è stato immediatamente trasportato all’ospedale delle urgenze numero 1 di Omsk, dove è arrivata anche la polizia “chiamata su nostra richiesta”, ha precisato la Yarmick, temendo per la sicurezza dell’avvocato.
I medici hanno subito detto che le sue condizioni erano molto gravi, che era in coma e che sono state effettuate delle analisi per individuare la causa. Da Mosca la dottoressa personale di Navalny ha cercato di informarsi e di aggiornare i colleghi sulla situazione clinica del suo paziente (come vuole la prassi) ma i medici di Omsk si sono rifiutati di parlarle, così lei si è precipitata in Siberia. Uno strano “black-out” sanitario, come se le autorità avessero ordinato di tacere con chiunque, soprattutto con l’entourage di Navalny. Il che ha subito accreditato la tesi dell’avvelenamento “politico”, come in molti hanno scritto in Rete.
Che ci faceva Navalny in Siberia? Semplice: a settembre ci sono le elezioni regionali. E’ stato a Novosibirsk, città in cui il potere amministrativo non è tanto forte e dove serpeggiano malcontento e rivendicazioni sindacali che inquietano il Cremlino. Poi si è recato a Tomsk, città universitaria, dunque tantissimi giovani e tanto consenso nei confronti dell’opposizione. Lì la squadra di Navalny è piuttosto solida e rischia di ottenere un buon risultato elettorale. Non solo.
Aveva svolto, come suo solito ormai, delle inchieste sulla corruzione di alcuni funzionari locali, corredate da video denunce, da documenti ufficiali, da commenti feroci e spot umoristici. Insomma, si era mosso con l’abituale spregiudicatezza, dando seri fastidi ai cacicchi siberiani.
Bisogna dire che a Putin, nonostante tutto, l’operazione condotta da Navalny non lo stava turbando più di tanto, anzi, poteva risultare in un certo senso comoda, ed utile: con l’alibi degli scandali, poteva sbarazzarsi di imbarazzanti ed ormai impresentabili figure marginali del regime, comunque dannose in tempi elettorali. In fondo, un gioco sottile in cui lo zar e il suo grande critico si fronteggiano da anni. Un gioco che alcuni oppositori rinfacciano a Navalny, perché non lo ritengono una credibile alternativa politica a Putin…
Dunque, motivi per zittire l’avvocato leader della lotta contro la corruzione e gli imbrogli del potere, non ne mancavano. La doppia crisi economica e del Covid hanno indebolito il Cremlino, spostando equilibri tradizionali soprattutto in Siberia (dove ingombrante è il fantasma della Cina) e nelle grandi città, dove la società civile reclama più libertà e meno isolamento internazionale.
Un disagio che il gravissimo avvelenamento di Navalny ha accentuato e rischia di provocare, oltre che grande choc, anche proteste incontrollabili (l’esempio bielorusso potrebbe incoraggiarle). Disagio che ha scosso fortemente le file dell’opposizione, e pure tra chi non lo amava per il suo indubbio protagonismo. Negli ultimi due o tre anni c’erano stati segnali d’insofferenza nei suoi confronti, proprio perché l’accusavano d’essere troppo sensibile alle sirene mediatiche. In realtà, perché oscurava col suo indubbio talento politico, le figure più scialbe delle varie (e spesso conflittuali) correnti in cui l’opposizione russa si è frantumata, favorendo indirettamente il regime.
Sconcerta, inoltre, il fatto che sia stato avvelenato sotto gli occhi di chi lo pedina 24 ore su 24: a che cosa serve la sorveglianza? Se lo chiedono in molti, così come molti cercano di ragionare sul mandante. Putin? Difficile: perché creare una “sacra vittima” attorno alla quale coalizzare indignazione e rabbia popolare? Qualcuno che vuole guadagnare punti all’interno della lotta di potere che – si dice – sta scuotendo il Cremlino? Quanto alle varie ipotesi “private” (allergia, droghe, vendetta personale), non si capisce allora il comportamento dell’ospedale, il mistero sulle analisi e le diagnosi. La diffidenza è d’obbligo.
Tenuto conto della diffidenza nei confronti dello Stato e nell’interesse della guarigione di Navalny, “sarebbe meglio che venisse curato in un altro Paese, sempre che le sue condizioni lo consentano”, ha twittato Alexei Venediktov, redattore capo della Radio Echo di Mosca. Ma la lunga mano dei servizi russi agisce impunemente anche fuori dei confini, come hanno dimostrato i casi di Alexsandr Litvinenko, ex Kgb (come Putin) avvelenato a morte con il polonio nel novembre del 2006, e di Sergej Skripal, avvelenato a Salisbury nel marzo del 2018 con un agente neurotossico, assieme alla figlia (scampati perché ricoverati in tempo); infine, stessa sorte è toccata a Piotr Verzilov, fondatore di Mediazone, sito d’opposizione, avvelenato all’uscita di un tribunale di Mosca nel settembre del 2018, trasferito in un ospedale a Berlino dove si è salvato.
In questo caso, i sospetti si sono focalizzati sui medici, sebbene le analisi non abbiano trovato tracce di sostanze tossiche. Oggi Verzilov ricorda che allora i servizi segreti avevano bloccato gli accessi all’ospedale e che “mi ero ritrovato in rianimazione, proprio come sta succedendo a Navalny. Così c’è stato il tempo che serviva perché il mio organismo assorbisse le tracce della sostanza tossica” (lo potete leggere su Twitter). Morale della favola: l’Orso russo ha artigli che Lucrezia Borgia gli fa un baffo.