lunedì 5 ottobre 2020

La Lega e i 49 milioni: i server del broker sono stati “ripuliti”. - Jacopo Ricca e Stefano Vergine

 



GdF - Dal Lussemburgo all’ex indirizzo dei commercialisti.

I server della lussemburghese Pharus Management Lux Sa, la società attraverso cui la Lega avrebbe riciclato una parte dei famosi 49 milioni di euro, sono stati ritrovati a Bergamo, in via Angelo Maj. Allo stesso indirizzo presso cui era domiciliato fino a poco tempo fa lo studio dei commercialisti del partito, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. La scoperta è stata fatta durante una perquisizione della Finanza di Genova, che indaga sul presunto riciclaggio del tesoro padano. Ma le Fiamme gialle hanno avuto sfortuna: quei server sono quasi inutilizzabili. Qualcuno, prima del loro arrivo, ha cancellato tutto. Questa storia inizia quando i magistrati della Procura di Genova avviano una rogatoria per mettere le mani su quella che potrebbe essere la scatola nera dell’inchiesta sulla Lega: i computer della Pharus, appunto, la società lussemburghese attraverso cui, secondo l’accusa, nel 2016 sarebbero stati esportati 10 milioni, quasi un quinto del tesoro leghista frutto della truffa ai danni dello Stato italiano. L’investimento sarebbe partito dalla Sparkasse di Bolzano. La banca ha sempre negato che fossero soldi del partito, spiegando che quell’operazione riguardava “la normale operatività del portafoglio di proprietà della banca stessa”. I 10 milioni partiti nel 2016 dalla Sparkasse sono arrivati sui conti della Pharus. E a gennaio del 2018, due mesi prima delle elezioni parlamentari, 3 milioni di euro sono tornati in Italia. Le autorità del Granducato segnalano l’operazione all’Antiriciclaggio di Bankitalia: il sospetto è che quei soldi siano un finanziamento elettorale alla Lega. Denaro uscito dalle casse del partito, alle prese con il sequestro ordinato dal Tribunale di Genova, e tornato indietro dopo essere stato ripulito.

Per verificare l’ipotesi gli inquirenti italiani cercano quindi i server della Pharus. Vogliono leggere le email e i documenti utili per capire se quel denaro è in qualche modo collegato ai 49 milioni della truffa leghista. I server dovrebbero essere in Lussemburgo, e invece vengono ritrovati a Bergamo, in un ufficio di via Angelo Maj. Come detto, a quell’indirizzo per anni, proprio quelli dei 10 milioni finiti in Lussemburgo, ha avuto sede lo Studio Dea Consulting, di proprietà di Di Rubba e Manzoni (arrestati per l’inchiesta sulla Lombardia Film Commission). Non solo. Presso il loro studio, nello stesso periodo, erano domiciliate anche 7 società italiane controllate, attraverso un sistema di scatole cinesi, dalla lussemburghese Ivad Sarl, una holding fondata nel 2008 da Angelo Lazzari. Secondo la GdF, Lazzari – che non risulta indagato – è sempre stato il dominus della Pharus. Per questo gli inquirenti lo reputano una figura centrale in questa storia. Bergamasco come Di Rubba e Manzoni, si descrive in Rete come ingegnere ed ex promotore finanziario, oggi manager con base in Lussemburgo. È indagato a Milano per truffa e autoriciclaggio in un’altra vicenda. La questione più importante, per i magistrati genovesi che indagano sul presunto riciclaggio dei 49 milioni, riguarda i suoi rapporti con Di Rubba, Manzoni e le sette società domiciliate presso il loro studio.

(foto da ilFQ)

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Impero San Donato, il mistero Kamel Ghribi. - Gianni Barbacetto

 


San Raffaele & C. - Nel gruppo dei Rotelli non solo ex politici, magistrati e 007: vicepresidente è un finanziere, ex petroliere tunisino. Gli affari con arabi e russi.

È il più grande gruppo italiano della sanità privata, con i suoi 19 ospedali e cliniche, 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti, fatturato di oltre 1 miliardo e mezzo. Ma il Gruppo San Donato della famiglia Rotelli, il cui ospedale più famoso è il San Raffaele di Milano, è anche una formidabile macchina di relazioni politiche ed economiche. I consigli d’amministrazione delle sue società sono zeppi di uomini dei partiti, ex ministri e perfino ex agenti segreti. Presidente della holding San Donato è Angelino Alfano, ex segretario di Silvio Berlusconi ed ex ministro dell’Interno, della Giustizia, degli Esteri. Consigliere d’amministrazione degli Istituti clinici Zucchi, una delle strutture sanitarie del gruppo, è Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro e fino al 2018 presidente della Regione Lombardia. Consigliera d’amministrazione del San Raffaele e della holding è Augusta Iannini, ex magistrato di Roma, già capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente dell’Autorità garante per la privacy (nonché moglie di Bruno Vespa). Sovrintendente sanitario del Gruppo è Valerio Fabio Alberti, fratello del presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Nel 2019 è entrato per qualche mese nel cda del San Donato anche Ernesto Maria Ruffini, che aveva appena terminato il suo incarico di direttore generale dell’Agenzia delle entrate, dove è poi tornato a inizio 2020.

Del sistema Rotelli, come capi della Security, fanno parte anche due agenti segreti d’esperienza come Claudio di Sabato e Giuseppe Caputo, ex generali della Guardia di finanza e poi ufficiali dell’Aise (l’agenzia di sicurezza per l’estero).

Ma il personaggio più misterioso della galassia Rotelli è un ex petroliere tunisino diventato finanziere in Svizzera: Kamel Ghribi, amico della vedova del fondatore, Giuseppe Rotelli, che è scomparso nel 2013, lasciando la guida al figlio Paolo. Una vecchia foto di Ghribi lo ritrae con vistosi pantaloni blu elettrico, camicia di seta in tinta e giacca a quadrettoni. Oggi Ghribi indossa più sobri abiti scuri di buon taglio ed è vicepresidente del Gruppo San Donato, nonché global advisor della famiglia, di cui cura gli investimenti. Da dove spunta Ghribi? Sappiamo che nasce a Sfax, città nel sud della Tunisia, padre commerciante (“Da lui ho ereditato il senso degli affari”) e famiglia con nove tra fratelli e sorelle. Poi è difficile distinguere biografia e agiografia. Racconta di essere diventato, già a 29 anni, vicepresidente a New York di una compagnia petrolifera statunitense, la Olympic Petroleum Corporation, e presidente della Olympic in Italia. Nel 1994 diventa presidente della Attock Oil Company, una compagnia attiva soprattutto in Pakistan, fondata dall’uomo d’affari saudita Ghaith Pharaon, che fu per un periodo ricercato dall’Fbi in seguito allo scandalo internazionale della banca Bcci. Dal 2005, Ghribi si concentra sulla sua holding personale, la Gk Investment, basata in Svizzera, a Lugano, che dichiara di dedicarsi “a nuove opportunità di business” e di investire soprattutto “in Africa e in Medio Oriente”. Nel suo sito web si definisce finanziere e filantropo, dichiara che “l’obiettivo principale di Kamel Ghribi continua a essere quello di incoraggiare un riavvicinamento tra Occidente, Medio Oriente e Nord Africa”. A Roma lavora con lo studio legale di Vittorio Emanuele Falsitta, ex deputato di Forza Italia. Ma si dice attivo con i suoi affari finanziari soprattutto nel mondo arabo e in Russia. Sostiene di aver fornito servizi di consulenza a importanti leader di aziende private internazionali e a non meglio specificati uomini di governo. Racconta “di essere entrato in contatto, durante la sua carriera di imprenditore internazionale di grande successo, con leader mondiali e luminari del mondo politico, industriale e culturale. Le primi incontri si sono rapidamente sviluppati in conoscenze consolidate, tanto che è stato poi in grado di sviluppare stretti rapporti con alcune delle figure più importanti della storia moderna”. Nientemeno.

Al San Donato è diventato vicepresidente, gestore del patrimonio della famiglia Rotelli e ambasciatore dell’espansione in Africa e nel Medio Oriente. Con il governo del Botswana ha firmato nel 2019 un memorandum d’intesa per offrire formazione del personale medico locale. Ma quello a cui punta il gruppo San Donato è attirare i ricchi clienti arabi e russi che vanno a curarsi nei grandi ospedali degli Stati Uniti. Già aperta una sede a Dubai, negli Emirati, dove il San Donato si occupa di formazione dei medici locali. Paolo Rotelli promette: “Vogliamo attirare nei nostri ospedali i turisti che già vengono in Italia perché apprezzano il nostro stile di vita e le bellezze del nostro Paese”.

(foto da ilFQ)

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domenica 4 ottobre 2020

“È giusto che Davigo rimanga al Csm. Grave escluderlo dal caso Palamara”. - Gianno Barbacetto

 












Giuseppe Marra - Il consigliere sulla possibile decadenza dell’ex pm al compimento dei 70 anni.

È in corso al Consiglio superiore della magistratura il procedimento disciplinare contro Luca Palamara. Tra i giudici c’è Piercamillo Davigo, che il 20 ottobre compie 70 anni e come magistrato andrà in pensione. Deve lasciare anche il Csm e il procedimento Palamara? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Marra, membro del Csm e appartenente al gruppo di Davigo, Autonomia e indipendenza.

A che punto è il procedimento per Palamara?

La sezione disciplinare del Csm ha già deciso la sua sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, confermata dalla Cassazione. Ora è in corso il giudizio di merito, con attività istruttoria compiuta in diverse udienze pubbliche.

Palamara è sotto giudizio penale per corruzione a Perugia. E la sezione disciplinare del Csm che cosa deve giudicare?

Al momento gli è contestata la partecipazione, insieme a ex consiglieri del Csm e ai parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, a una riunione del maggio 2019 durante la quale, secondo l’accusa, si sarebbero realizzate condotte scorrette nei confronti di alcuni candidati alla nomina di procuratore di Roma, nonché dei magistrati Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, finalizzate a condizionare le scelte del Csm nella nomina dei dirigenti di diversi uffici giudiziari tra cui la Procura di Roma.

Il procedimento potrebbe fermarsi, per la presenza di Davigo?

Contro Davigo è stata presentata istanza di ricusazione, già rigettata. La presenza di Davigo non solo è legittima, ma anche doverosa, poiché è stato eletto dal plenum del Csm nella sezione disciplinare, la cui composizione non può essere modificata, se non nei casi previsti espressamente.

Quindi Davigo non deve lasciare il Csm, e dunque il procedimento Palamara, con il raggiungimento del settantesimo anno d’età?

La questione è controversa perché non vi sono precedenti nella storia del Csm. È stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, emesso ma non ancora noto. La Costituzione dice: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Idem la legge istitutiva del Csm, senza alcuna eccezione nel caso di raggiungimento dell’età pensionabile dei componenti, togati o laici.

È vero che la disciplinare sta accelerando sul caso Palamara in vista della “scadenza” di Davigo?

Palamara è sottoposto a una misura cautelare molto afflittiva, la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, per cui è il primo ad avere interesse a un giudizio veloce. Non entro nel merito della decisione del collegio di non ammettere gran parte dei testimoni richiesti dalla difesa di Palamara che, trattandosi di decisione giudiziaria, potrà essere impugnata nelle sedi competenti. In termini generali ritengo però che sia il processo penale, sia quello disciplinare possono avere a oggetto solo singoli fatti, contestati puntualmente in relazioni a fattispecie precise. Il processo al “sistema” degenerato non spetta ai giudici, ma alla politica e, per quanto riguarda la magistratura, anche all’Associazione nazionale magistrati.

Chi chiede che Davigo lasci e se ne vada?

Nessuno ha formulato alcuna richiesta ufficiale. È lo stesso Davigo ad aver segnalato alla commissione competente sulla verifica titoli il raggiungimento dell’età pensionabile e credo lo abbia fatto per fugare qualsiasi ombra.

Non è automatica la decadenza di Davigo dal Csm, al compimento dei 70 anni d’età?

Assolutamente no, ogni decisione dovrà essere presa dal plenum del Csm dopo una discussione pubblica. Io credo però che, in assenza di una norma precisa, non la si possa pretendere in via interpretativa, in forza di argomentazioni opinabili. Il diritto elettorale, che è il cuore dei sistemi democratici, è fondato sul principio di tassatività delle ipotesi di incandidabilità, ineleggibilità o decadenza dei membri eletti: in questo caso, in un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ipotizzare che sia la maggioranza di turno a integrare a livello interpretativo le norme sulla decadenza, mi sembra un precedente molto grave. Immaginare poi che ciò avvenga nei confronti di Davigo, che anche come presidente dell’Anm aveva già denunciato pubblicamente la degenerazione del sistema delle correnti, rappresenterebbe davvero un epilogo molto triste per la magistratura tutta.

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Niente folla, comizi e martirio. Salvini al processo resta solo. - Antonello Caporale

 












Il flop - Doveva essere la parata in difesa del leader più perseguitato dopo B. Invece è diventata un caffè con il duo Meloni-Tajani.

Una lastra a ciel sereno, solo un caffè con gli amici, e un saluto dal Gup: arrivederci in tribunale al prossimo 20 novembre.

Il processo a Matteo Salvini si chiude in ortopedia per via del marmo di una parete dell’aula di giustizia che collassa sulla caviglia di Giulia Bongiorno, la donna che lo difende in Parlamento e davanti ai giudici. L’adunata siciliana finisce così, col finale amputato in ragione dell’imprevisto e ridotto carico emozionale che ha spompato un po’ il finale della kermesse leghista. Doveva giungere il popolo da ogni luogo d’Italia e duemila erano i posti prenotati nell’arena del porto dove il leader leghista avrebbe dovuto celebrare la cerimonia sotto il titolo “Processate anche me”. T-shirt, manifesti, video propulsivi per una chiamata di popolo, per dare al Capitano ciò che gli spetta: il leader più perseguitato d’Italia dopo Silvio Berlusconi.

C’è da dire che Silvio, causa Covid, ha mandato Antonio Tajani in solidale vicinanza, anche se ben altra fu la risposta dei parlamentari di Forza Italia, e lì la Lega mancò, che si strinsero al loro Capo occupando le scale del Tribunale di Milano dentro cui i giudici, colpevoli di volerlo processare, erano asserragliati. Altri tempi e altre Procure. Questa di Catania infatti non voleva neanche mandare a processo Salvini, anzi ha chiesto anche ieri l’archiviazione. Ma il Gup, come ha raccontato la Bongiorno dopo le cure mediche al pronto soccorso, vuole capire e approfondire. Ha accolto le richieste della difesa e saranno ascoltati anche il premier Conte, l’allora suo vice Di Maio e l’attuale ministro dell’Interno Lamorgese.

“Gli faccio perdere solo mezz’ora, poi tornano al loro lavoro”, ha detto Salvini dopo una mattinata che doveva essere gagliarda e si è rivelata moscia. Giorgia Meloni è venuta a Catania, come anticipato, ma subito ha escluso che potesse parlare dal palco insieme a lui. Processate lui, non me.

Stando così le cose, anche Tajani si è convertito all’idea, più sparagnina, di un caffè da prendere in piazza. Una photo-opportunity con il buongiorno che si sarebbe visto fin dal mattino.

L’idea non è piaciuta alla questura e per motivi di ordine pubblico il caffè con allegato selfie di stringente amicizia è stato bevuto sulla terrazza dell’albergo di Salvini. Cinque minuti e via. Camicia bianca e cravatta blu. Salutati gli amici, ecco il tribunale. Il marmo cascato sui piedi della Bongiorno (immediata interrogazione parlamentare della Lega sulle condizioni dei palazzi di giustizia in Italia) ha ravvivato una giornata che, in assenza, si sarebbe accorciata molto.

Tant’è che sul palco leghista l’attesa del leader, che poi purtroppo nessuno ha visto, ha prodotto un surplus oratorio. I dirigenti hanno iniziato ad allungare il brodo, e a furia di allungarlo il comizio si è sfilacciato, i pensieri si sono doppiati e anche le parole hanno perso di smalto.

“Sono stanchissimo, vado a Milano dai miei figli”, ha detto Salvini, che è parso di un umore appesantito per via della defaillance di popolo che non era attesa. Sulle spalle del povero Stefano Candiani, il varesino mandato in Sicilia a fare il capo dei siciliani leghisti, tutto il peso di un’organizzazione che fino a due sere fa si era dimostrata all’altezza delle attese. Centomila euro spesi per allestire la grande sala dove la Lega, riunita in assise, avrebbe salutato il processo facendosi un po’ anche processare.

“Processate anche me”, era e doveva restare il filo conduttore della resistenza. Invece la tre giorni, che come detto si è ridotta a due, ha preso la piega solita: molte parole, pochi fatti. Nessuna federazione con gli autonomisti isolani, principalmente col movimento del governatore Nello Musumeci che ha invece continuato a nicchiare, e qualche proposta in controtendenza. Giorgetti, che guida l’ala moderata, ha spiegato che Salvini o si butta al centro o rimane fregato.

C’è da dire che da un po’ di tempo Matteo si mostra meno ardimentoso e anzi persino più compassionevole con gli avversari: “Non odio nessuno”. L’ex odiatore è ora certo che “la cattiveria sia dei buoni, di quelli che voi definite buoni”.

Il tribunale non è perciò stato circondato dai leghisti, come pure nelle scorse settimane pareva possibile, e nessuna parola di fuoco, ma mille di amore. Certo, l’accusa di sequestro di persona (il reato per il quale è sotto processo) conduce a pene che, se inflitte, travolgerebbero la sua leadership. Ha chiamato il suo popolo alla resistenza, trovandosi egli nella parte del perseguitato, parendogli il minimo. Perciò la precettazione a Catania. Tutti si sono annunciati. Anche Giorgia, anche Silvio, seppure per interposta persona. Ma sul più bello, cioè nell’ora esatta del processo, se la sono squagliata.

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Il Papa cacci i furfanti dal Tempio. - Antonio Padellaro

 
















“E insegnava dicendo loro: ‘Non è scritto la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti?’. Ma voi ne avete fatto un covo di ladroni”.

Marco 11,15-19

Nelle chiese desertificate dal virus (e molto prima dalla strisciante disaffezione) non ci si può scambiare il segno della pace per evidenti motivi. Ma da qualche domenica, un altro momento di devozione è diventato imbarazzante: con quale spirito, infatti, i fedeli superstiti osserveranno il tradizionale gesto di carità al momento della raccolta delle offerte? Certo, quei pochi soldi deposti nel sacchetto del sacrestano, o nelle cassette votive sotto le immagini sacre, raggranellati per sostenere le immediate necessità delle parrocchie, assai poco hanno da spartire con il colossale scandalo finanziario culminato con le dimissioni imposte da Papa Bergoglio al non più cardinale, Giovanni Angelo Becciu. Tuttavia, se una fede comune unisce la basilica di San Pietro con l’ultima delle pievi, è innegabile che la fiducia (che con la fede è imparentata, neppure tanto alla lontana) nelle alte gerarchie ecclesiastiche abbia subito l’ennesima scossa negativa. E così un’altra certezza degli osservanti è andata a farsi benedire.

“La gente non sa più chi è Cristo”, ha risposto il cardinale arcivescovo di Colonia, Rainer Maria Woelki, a chi lo interrogava sui veri problemi della Chiesa. Il pericolo è anche che la gente non sappia più cosa sia la Chiesa. Ciò accade quando si lascia che una comunità riunita nello stesso credo aneli alla luce dell’aldilà, ma sia tenuta all’oscuro dei gravi problemi (e delle pesanti colpe) che affliggono l’istituzione su questa terra. Molti credenti, ne siamo convinti, si sentirebbero sollevati se con l’autorità che gli deriva dal profondo affetto, dal profondo rispetto e dalla profonda fiducia da cui è circondato, Papa Francesco trovasse il modo di spiegare al mondo (e non soltanto a quello cattolico) come diavolo è potuto accadere che il tempio sia stato profanato e lordato da una cricca di corrotti, ladri e profittatori. Che hanno sottratto e intascato il denaro dei fedeli, inviato al Papa per essere ridistribuito a sostegno dei poveri e delle missioni.

Sarebbe straordinario se questo pontefice, a cui il carattere (e se fosse un cattivo carattere, meglio ancora) non difetta, facesse ciò che nei tempi lontani del catechismo tanto ci affascinava. Sul libretto l’immagine di Gesù che caccia a scudisciate dal Tempio di Gerusalemme i mercanti e rovescia i tavoli dei cambiavalute. Forza Francesco completa l’opera, facci sognare.

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Roberto Fico

 














Ho ascoltato Fico su Skytg24, sobrio, eloquente, esaustivo, mai fuori dalle righe, elegante e, strano a dirsi per un deputato, non ha parlato politichese, non ha fatto comizi, non ha attaccato nessuno.

Ha solo espresso un suo parere con estrema sincerità, rispondendo alle domande del conduttore.

E' un vero peccato che politici come lui non debbano restare dove sono perchè danno fastidio a chi vorrebbe ristabilire lo status quo.

Cetta.

I penta-tafazzi. - Marco Travaglio

Giuro che mi sto leggendo, per dovere professionale, tutte le cronache, le interviste, i retroscena, i sussurri e le grida che precedono i fatidici stati generali 5Stelle (e me la pagheranno). Ma confesso di continuare a non capire perché mai dovrebbero scindersi. Nella gara a chi spara l’immagine più autoflagellatoria – siamo come l’Udc; anzi, come l’Udeur; mannò, come la Costa Concordia; altro che scatoletta, noi siamo il tonno – manca qualcuno che trovi quello giusto: una via di mezzo tra Fantozzi e Tafazzi. Mi spiego: i 5Stelle, stando alle cronache, erano morti ancor prima di nascere. Eppure, dopo 11 anni, sono ancora lì. Le elezioni regionali, a causa delle liste civetta e del maggioritario secco, le perdevano anche quando vincevano le Politiche. Le Comunali le han vinte nelle città distrutte da destra&sinistra (Parma, Livorno, Roma, Torino). Le Politiche, grazie al proporzionale, le han vinte due volte su due: nel 2013 e nel ’18. La prima volta tutti gli altri si sono coalizzati contro di loro. La seconda l’ammucchiata non aveva i numeri e ha dovuto fare i conti con loro. Con la Lega è andata com’è andata. Col centrosinistra, fra alti e bassi, sta funzionando. In due anni e mezzo, i 5Stelle hanno sperimentato cosa vuol dire governare con Salvini (che li ha traditi ogni giorno per 14 mesi e poi una volta per tutte l’8 agosto 2019); e cosa vuol dire governare col Pd (che li rispetta e sta ai patti). Intanto, dall’una e dall’altra alleanza, han portato a casa un bel pezzo del loro programma: molto più di quanto abbiano ottenuto Lega e Pd. Eppure han perso consensi: ma sono più importanti la Spazzacorrotti, la Bloccaprescrizione, le manette agli evasori, il reddito di cittadinanza, il dl Dignità, il blocco delle trivelle, il taglio dei parlamentari e dei vitalizi, o qualche punto percentuale? Non era Grillo a dire che, esaurito il programma, il M5S si sarebbe estinto? Il programma è tutt’altro che esaurito: tutta la parte green, che 11 anni fa pareva la solita chimera del comico-utopista, irrisa e osteggiata da destra e sinistra, avrà dal Recovery Fund le risorse per diventare realtà.

Di questo dovrebbero parlare in vista del congresso, anziché guardarsi l’ombelico, spararsi sui piedi e ammorbarci con chissenefrega come Rousseau, i rapporti con Casaleggio, i 2 o 3 mandati. Di Battista dice che se passa l’alleanza organica col Pd, lui prende e se ne va (dove?). Ma il Pd non è più quello che prendeva ordini da Re Giorgio o dal Giglio Magico, governava con Monti, B., Alfano e Verdini, copiava le ricette di Confindustria e delle banche d’affari, tentava di scassare un terzo della Costituzione e affogava negli scandali.

Ha accettato Conte premier, votato il taglio dei parlamentari, ingoiato la bloccaprescrizione e il Rdc. È cambiato, anche grazie all’alleanza con i 5Stelle. Ed è naturale che siano cambiati anche loro. È vero, l’estate scorsa il Pd a trazione renziana pose il veto su Dibba ministro: ma lui aveva appena chiesto di “riaprire il tavolo con la Lega senza Salvini” (pura utopia: la Lega è Salvini) e si era reso inaffidabile. Peccato, perché al governo avrebbe conosciuto meglio gli ex nemici e fatto l’esperienza che ha condotto i suoi (ex?) amici Di Maio, Patuanelli, Bonafede&C. ad auspicare una prospettiva organica con questo centrosinistra: a Roma e – dove possibile – sui territori. Auspicio condiviso dagli iscritti, che hanno approvato la possibilità (non l’obbligo) di alleanze regionali e comunali. E dalla maggioranza degli elettori che, quando c’è una minaccia, come Borgonzoni in Emilia-Romagna, Fitto in Puglia e Ceccardi in Toscana, votano disgiuntamente o direttamente Pd turandosi il naso.

L’altra sera, in un bel duello con Scanzi e Sommi ad Accordi & Disaccordi, Di Battista dipingeva ancora il Pd come quello di Napolitano e dell’Innominabile. Ma poi ricordava che, potendo, sarebbe entrato nel governo col Pd e auspicava che il Conte-2 arrivi a fine legislatura. Precisava che i 5Stelle devono restare terza forza equidistante da destra e sinistra, ma poi ammetteva che con Salvini il discorso è chiuso. Perciò, come gli ho detto in pubblico e in privato, la minaccia di andarsene in caso di alleanza organica col Pd non ha senso. Perché quell’alleanza organica non è all’ordine del giorno: il Conte-2 è nato sul comune impegno per una legge elettorale proporzionale. E in quel sistema nessuno è obbligato a sposare nessuno: ciascuno esalta la propria identità per avere più voti e poi, in Parlamento, costruisce le alleanze. Se a capo del Pd tornasse un similrenzi, il M5S dovrebbe starne alla larga. Ma se rimane Zingaretti e quello della destra rimane Salvini, con chi deve allearsi il M5S lo dice lo stesso Di Battista, quando elogia il governo Conte e chiude le porte al Cazzaro. Il quale, se andasse al governo, cancellerebbe tutte le conquista targate 5Stelle sulla Giustizia e il Welfare. Senza dimenticare che, al governo con Salvini, i 5Stelle si sono dimezzati, mentre col centrosinistra l’emorragia s’è fermata e la nuova leadership potrebbe innescare una risalita. Che vuol fare Di Battista: continuare a fare il Tafazzi, segnalando giustamente gli errori ma tacendo i successi del M5S e contribuendo alla narrazione autoflagellatoria che piace tanto ai giornaloni per non contaminare le sue idee? O vuole riprendersi il posto che gli compete nel nuovo vertice collegiale per far contare le sue idee?

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