martedì 17 gennaio 2023

Covi, pizzini e coperture: la vita “al buio” di Matteo Messina Denaro. - Giovanni BIanconi

 


Cercato anche all’estero,  era nascosto nella sua Sicilia. Con i gli affari illeciti avrebbe accumulato un tesoro di 4 miliardi di euro.

Trent’anni di latitanza sono un segno di potere e di esercizio del potere; una sfida nella quale Matteo Messina Denaro non è soltanto sfuggito alla cattura, ma ha continuato a guidare un pezzo importante di Cosa nostra contando sul prestigio derivante anche dall’essere l’ultimo latitante della mafia stragista che aveva messo in ginocchio lo Stato. All’appello mancava solo lui, Matteo Messina Denaro, uno dei «rampolli» di Totò Riina, ricercato dal 1993 da subito dopo l’arresto del «capo dei capi», mentre era in corso l’attacco terroristico della mafia corleonese alle istituzioni e alla convivenza civile, di cui il boss di Castelvetrano è stato uno dei protagonisti. 

Per gli inquirenti e gli investigatori che l’hanno cercato così a lungo era una sfida da vincere; per il «popolo di Cosa nostra» un legame col passato e con la storia. Al punto da essere chiamato in causa forse perfino strumentalmente, da chi pensava di spendere il suo nome per conservare la propria influenza. Era il sospetto di un mafioso di medio calibro della provincia trapanese, che — intercettato da una delle migliaia di microspie che in questi anni hanno invaso la Sicilia nel tentativo di raccogliere una voce che potesse portare al superlatitante — diceva: «Io sono del parere che questo qualche giorno, a meno non lo abbia già fatto, si ritira… e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui ormai non c’è più qua…». 

Invece non si era ritirato, ed era ancora là. Ha continuato a gestire il potere e il patrimonio accumulato grazie agli affari: droga, estorsioni, riciclaggio, investimenti nell’eolico, nei supermercati, nel turismo e in altri settori. Un tesoro stimato da qualcuno in 4 miliardi di euro, sebbene avventurarsi in cifre e calcoli sia un esercizio rischioso. Una latitanza trascorsa in Sicilia e in altre parti d’Italia, forse con qualche puntata fuori dai confini.

 Di Matteo Messina Denaro rifugiato all’estero s’è parlato spesso: una volta in Spagna, un’altra in Albania. Ma tutte le indagini, alla fine, ritornavano sempre in Sicilia, nel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani che fu il suo regno e prima ancora del padre Francesco, morto latitante nel 1998, per il quale Matteo ha continuato a far pubblicare l’annuale necrologio di ricordo insieme al resto della famiglia, firmato «i tuoi cari». In quella terra e in quel legame hanno germinato le radici mafiose di un boss che è sempre stato «nel cuore» di Totò Riina. 

Il legame stretto dei Messina Denaro con il «capo dei capi» corleonese lo confermò lo stesso Riina nei suoi colloqui con il compagno di detenzione, intercettati in carcere nel 2013: «Suo padre buonanima era un bravo cristiano, un bel cristiano ‘u zu Ciccio di Castelvetrano… ha fatto tanti anni di capomandamento… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero… però era un cristiano perfetto, un orologio». Poi passò a parlare del figlio: «Lo ha dato a me per farne quello che ne dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia…». Finché non cominciò a pensare prima di tutto a sé, a investire per conto proprio, quasi dimenticando il destino dell’organizzazione. Guadagnandosi per questo i rimbrotti di Riina, che sui giornali ha letto degli investimenti nell’energia eolica ed è sbottato: «A me dispiace dirlo, questo fa il latitante, fa questi pali… eolici, i pali della luce… Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di…».

  Fu quasi una scomunica nei confronti del figlioccio che dopo il ‘93 non decise di proseguire con la strategia delle bombe: «Se ci fosse stato qualcun altro avrebbe continuato. E non hanno continuato, non hanno intenzione di continuare…». Si sentiva tradito, Totò Riina: «Una persona responsabile ce l’ho, e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo…. Io non so più niente… Potrebbe essere pure all’estero… L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto… Non ha fatto niente… io penso che se n’è andato all’estero». 

Invece era ancora in Italia, e aveva messo in piedi un sistema di comunicazione attraverso pizzini recapitati e ritirati in aperta campagna, con i postini che andavano e venivano parlandosi con linguaggio cifrato («il macellaio sono, mi aveva ordinato la fiorentina si ricorda? Domani alle 9.30 se la può venire a prendere») finché le indagini della Procura di Palermo nel 2015 smantellarono anche quel «fermo posta».

Costringendo il latitante a inventarne uno nuovo per restare fuggitivo. Contando su appoggi che non prevedessero più i legami con la famiglia d’origine (finita in galera quasi per intero), ma conservando — anche a distanza — quelli con chi ha continuato a garantirgli protezione: compresi forse pezzi di potere istituzionale o massonico, come ipotizzato più volte dagli inquirenti che gli davano la caccia. Di sicuro ha avuto dalla sua parte qualcuno che gli ha procurato i documenti semi-autentici (con la sua foto e il nome di un altro, ma il timbro regolare del Comune di Campobello) che aveva in tasca al momento dell’arresto.

Catturato Riina e salito al trono Bernardo Provenzano, Matteo si adeguò alla metamorfosi della «mafia sommersa» messa in pratica dall’ultimo padrino, con il quale interloquiva con i pizzini firmati «Alessio» e sequestrati nel rifugio corleonese dove l’altro padrino fu arrestato nel 2006: «Quello che lei decide per me va bene… I suoi amici sono i miei amici…», scriveva con deferenza Messina Denaro. Sempre a proposito di affari e spartizioni.

I pizzini recapitati a mano sono sempre stati la garanzia migliore per comunicare tentando di sfuggire alle indagini; ancora lo scorso anno gli investigatori ne hanno intercettato qualcuno in cui parlava dei suoi movimenti. Scriveva, dava indicazioni e si lamentava. Persino di come i familiari tenevano la tomba del padre; o della figlia Lorenza, nata durante la sua latitanza, che non lo avrebbe «onorato» come altri figli o nipoti di boss mafiosi. Un anno e mezzo fa quella donna l’ha reso nonno, ma il bambino non si chiama Matteo.

https://infosannio.com/2023/01/17/covi-pizzini-e-coperture-la-vita-al-buio-di-matteo-messina-denaro/

L'impero miliardario di Matteo Messina Denaro. -

La ricostruzione del volto di Matteo Messina Denaro da una sua foto di anni fa

 Si stima un patrimonio di 4 miliardi di euro, con ricavi provenienti da diversi settori: dalle rinnovabili ai supermercati, tutti gli affari che conosciamo di Matteo Messina Denaro.

Miliardi di euro, così tanti che sono difficili da quantificare con esattezza. Dopo 30 anni di latitanza interrotti con l'arresto del 16 gennaio 2023, il patrimonio di Matteo Messina Denaro si è fatto imponente e sfaccettato in più pezzi, difficili da ricomporre anche per gli investigatori. Una stima, per difetto, dei guadagni di una vita di traffici di droga, estorsioni, riciclaggio nei settori più disparati si può azzardare sulla base di quel che lo Stato, negli anni, è riuscito a sottrarre al padrino di Castelvetrano e ai suoi prestanome. Si parla di quasi 4 miliardi di euro. La maggior parte degli affari del padrino della mafia si sono concentrati in Sicilia, con alcune eccezioni. 

I soldi della mafia in giro per il mondo.

Gli affari di Messina Denaro sarebbero arrivati anche in Venezuela, regno dei clan Cuntrera e Caruana che da Siculiana, paese dell'agrigentino, colonizzarono Canada e Sudamerica imponendo il loro monopolio sul narcotraffico. Un pentito "minore", Franco Safina, raccontò che Messina Denaro aveva ricavato un tesoro in Venezuela investendo 5 milioni di dollari in un'azienda di pollame.

Per gli inquirenti si trattava di un evidente escamotage per riciclare i proventi del traffico di stupefacenti. E di Venezuela parlò anche il collaboratore di giustizia Salvatore Grigoli, il killer di don Pino Puglisi. Ferito in un attentato, si era nascosto ad Alcamo, nel trapanese. "Se vuoi, per un certo periodo te ne vai in Venezuela e stai tranquillo", gli avrebbe detto il padrino che, sospettano gli inquirenti, in Sudamerica come pure in Tunisia sarebbe andato anche da latitante.

Gli affari di Matteo Messina Denaro.

Matteo Messina Denaro ha guadagnato parecchio dagli investimenti nelle energie rinnovabili, in particolare nell'eolico, settore "curato" per il boss dall'imprenditore trapanese Vito Nicastri, l'ex elettricista di Alcamo e pioniere dell'industria verde in Sicilia, che per anni avrebbe tenuto le chiavi della cassaforte del capomafia.

Poi c'è l'edilizia e la grande distribuzione, attraverso la "6 Gdo" di Giuseppe Grigoli, il salumiere diventato in poco tempo il re dei Despar in Sicilia al quale furono sequestrati beni - di proprietà del boss secondo i magistrati - per 700 milioni di euro.

Tra gli affari di Matteo Messina Denaro c'è anche il turismo: secondo i pm ci sarebbero stati i soldi del capomafia nell'ex Valtur, un colosso miliardario di proprietà di Carmelo Patti, l'ex muratore di Castelvetrano divenuto capitano d'azienda che, come Al Capone, finì nei guai per un'accusa di evasione fiscale.

Braccio destro di Patti, raccontano le inchieste, era il commercialista Michele Alagna, padre di una delle amanti di Messina Denaro, Francesca, che al boss ha dato una figlia mai riconosciuta. Nel 2018 il tribunale di Trapani gli sequestrò beni per 1,5 miliardi, un delle misure patrimoniali più ingenti mai eseguite, disse la Dia. I sigilli vennero messi a resort, beni della vecchia Valtur, una barca di 21 metri, un campo da golf, terreni, 232 proprietà immobiliari e 25 società.

I capitali accumulati da Matteo Messina Denaro.

Ma se, come sono certi i magistrati, solo una parte del tesoro del padrino è stata trovata e confiscata, a quanto ammonta il suo patrimonio? Le ricchezze illecite ancora da scoprire sarebbero enormi. A partire dai soldi che gli sarebbero stati affidati da Totò Riina.

"Se recupero pure un terzo di quello che ho sono sempre ricco", diceva il capomafia corleonese, intercettato, parlando durante l'ora d'aria con un altro detenuto. "Una persona responsabile ce l'ho e sarebbe Messina Denaro. Però che cosa fa per ora questo Matteo Messina Denaro non lo so. Suo padre era uno con i coglioni" , spiegava all'amico mostrando una qualche diffidenza sulla capacità gestionale del boss trapanese. E rivelando che parte del suo patrimonio potrebbe essere stato affidato proprio agli alleati di Castelvetrano.

https://www.today.it/cronaca/patrimonio-miliardario-matteo-messina-denaro.html

Arrestato Matteo Messina Denaro, l’ultimo superlatitante di Cosa nostra in fuga da 30 anni: era in una clinica di Palermo. 16 gennaio 2023

 

L'operazione dei carabinieri del Ros ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano, ricercato dall'estate 1993. Si trovava nella struttura in pieno centro dove era sottoposto a terapie da oltre un anno.

Matteo Messina Denaro, l’ultimo superlatitante di Cosa nostra, è stato arrestato questa mattina, lunedì 16 gennaio, mentre era in day hospital alla clinica Maddalena, in pieno centro a Palermo. Era ricercato dall’estate del 1993. Lo storico arresto è stato compiuto dai carabinieri del Ros dopo 30 anni di latitanza: più di cento uomini questa mattina hanno accerchiato la struttura e assediato la zona di San Lorenzo. Il blitz è scattato intorno alle 9 con tutti i militari a volto coperto: Messina Denaro è stato arrestato mentre era all’ingresso prima di cominciare la terapia. “Come ti chiami?”, gli hanno chiesto i carabinieri. “Sono Matteo Messina Denaro”: sono state queste le prime parole del boss.

Urla di incoraggiamento e applausi nei confronti dei carabinieri da parte di decine di pazienti e loro familiari hanno accompagnato l’arresto. L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Trapani) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Dopo il blitz, l’ormai ex superlatitante è stato trasferito in una località segreta. Messina Denaro un anno fa era stato operato e da allora stava facendo delle terapie in day hospital nella clinica privata, una delle più note di Palermo. Nel documento falso esibito ai sanitari c’era scritto il nome di Andrea Bonafede. Il boss si era recato nella clinica privata dove è stato arrestato “per sottoporsi a terapie“, spiega il comandante del Ros dei carabinieri Pasquale Angelosanto dopo l’arresto del boss compiuto dagli uomini del raggruppamento speciale assieme a quelli del Gis e dei comandi territoriali. Insieme a Messina Denaro, è stato arrestato anche uno dei suoi fiancheggiatoriGiovanni Luppino, di Campobello di Mazara, accusato di favoreggiamento. Avrebbe accompagnato il boss alla clinica.

I segnali – L’ultima “primula rossa” di Cosa Nostra, 60 anni, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent’anni fa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. Pochi mesi fa, a metà novembre, Il Gazzettino aveva riportato le dichiarazioni di Salvatore Baiardo, l’uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano in Nord Italia. Baiardo aveva dichiarato che Messina Denaro era gravemente ammalato. È del settembre scorso invece l’arresto di 35 persone, ritenute fiancheggiatori del boss. Tra queste anche Francesco Luppino, considerato uno dei “fedelissimi” di Matteo Messina Denaro. Una settimana fa, invece, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva dichiarato: “Auspico, per giustizia nei confronti delle vittime, che venga preso. Confido nelle forze di polizia e magistratura”.

I segreti delle stragi – Nato a Castelvetrano nell’aprile del 1962, sull’ultimo superlatitante di Cosa nostra sono stati scritti centinaia di articoli, decine di libri, informative d’indagine lunghe migliaia e migliaia di pagine. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell’ordine. Messina Denaro era l’ultimo boss mafioso di “prima grandezza” ancora ricercato. Una latitanza record come quella dei suoi fedeli alleati Totò Riina, sfuggito alle manette per 23 anni, e Bernando Provenzano, riuscito a evitare la galera per 43 anni. Era soprattutto l’unico boss rimasto in libertà a conoscere i segreti delle stragi. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent’anni, a cominciare dagli attentati del ’92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta la sua mano. Da Riina ai fratelli Graviano, passando per Leoluca BagarellaGiovanni Brusca e poi anche Bernardo Provenzano, tutti gli uomini della piovra che hanno attraversato quel biennio di terrore erano però già finiti, in un modo o nell’altro, in carcere. Tutti tranne lui, fino ad oggi.

Le condanne – Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l’erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio, altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. Il “fantasma” di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Il capomafia trapanese è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del 1992, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/01/16/arrestato-matteo-messina-denaro-superlatitante-cosa-nostra/6937422/?fbclid=IwAR2si_9pQ5KOMfZaI2r_OzHC5As8mIcgefQbuCq_Wu0iLxZfzbMTg4VGl9s

sabato 14 gennaio 2023

Il Card. Becciu, respinge le accuse: "Non fui io a far arrestare Chaouqui"

 

Dichiarazione spontanea del prelato durante un'udienza.


"Lei, lo avrete capito, ha qualcosa contro di me.

Anzi, molto contro di me.

E una delle accuse che smentisco in pieno è quella di aver dato io ordine di arrestarla e di non aver avuto pietà del suo stato di donna incinta. È una bugia, falso, avvenne i primi di novembre 2015. Io ero nel mio Paese, in Sardegna. Chi la interrogò fu il comandante Giani e mi telefonò: ho arrestato la signora Chaouqui. Gli dissi: 'Ma sei matto?'. 'No, avevo tutte le ragioni per farlo'. Poi disse in seguito che era in stato interessante, era di pochi mesi. Come si fa a vedere a tre mesi? La respingo totalmente". Così il card. Becciu su Francesca Chaouqui.

In una dichiarazione spontanea in aula alla fine dell'interrogatorio della testimone Francesca Immacolata Chapuqui, il cardinale Anelo Becciu ha detto di riconoscere "che non mi è facile dopo questa giornata parlare in maniera serena. Avrei voluto dire che nutro quasi un sentimento di gelosia nei suoi confronti, è così facile dire io il Santo Padre, io vado, io ritorno, io a nome del Santo Padre. Io ho fatto il sostituto non ho avuto questa facilità di andare dal Papa, di portare ordini".

"Riferendosi alla Cosea - ha proseguito -, dice che veniva in Segreteria di Stato, si imponeva a Perlasca. Mi pare strano… Di solito chi viene è il presidente della Cosea e chiede prima al sostituto e chiedere se può entrare coi collaboratori e avere documenti dell'ufficio, è strano e non molto veritiero. Com'è possibile che ha del materiale?"

"Io da quando ho lasciato l'ufficio non ho più nulla - ha sottolineato -, non posso mantenere un foglio dell'ufficio, tutti devono andare via con la borsa vuota i doc si lasciano, mi meraviglio che sia in possesso di questi fogli. È contro tutte le regole. Come può, una così disporre di documenti se sono delicati?". "Accennava i messaggi, io ce li ho ancora tutti qui, come può dire che sono della signora Marogna che gestisce i miei account? - ha continuato Becciu - Ce li ho tutti qui, senza una risposta. E sapete perché? Perché quando ne parlavo con il Santo Padre mi diceva le consiglio di non rispondere. Una volta solo ho risposto per Natale, faccina del figliolo, auguri le dissi. Non può dire che sono gestiti chissà da chi". "Sono messaggi in cui fa lodi, in cui mi presenta il migliore di tutti, e messaggi in cui mi distrugge totalmente", ha osservato.

"Invece mi prendo responsabilità di due atti per i quali si può arrabbiare e risentire - ha detto ancora -. Quando nel 2013, fu composta la commissione Cosea e alla Segreteria di Stato fu inviata la lista dei nomi, io a vedere il nome trasalii perché avevo avuto segnalazioni gravi sulla sua persona. Di solito era prassi che la Segreteria di Stato desse il beneplacito alle nomine, per fare il 'de more'. Eravamo a inizi pontificato e le regole stavano saltando. Il nominativo… fummo messi davanti al fatto compiuto. Qualche mese prima ebbi segnalazioni che non deponevano a favore di questa signora, corsi da chi di dovere e dissi: questa signora non è degna di lavorare qui in Vaticano. Non mi ascoltarono" "Altro atto, Vatileaks - ha aggiunto Becciu -, presenziai commissione in SdS che doveva decidere se procedere a denuncia degli autori della pubblicazione dei doc segreti o procedere al licenziamento, in via amministrativa. La commissione, tutti, si pronunciarono per la denuncia ai magistrati. Il comandante portò risultato al Papa e il Papa autorizzò la denuncia. Possono essere motivi di astio, ma sono gli unici con cui mi sono posto con la Chaouqui in Vaticano".

Sulla questione grazia, "è vero lei mi ha mandato Lojudice, il suo parroco che io accolsi, e dissi: 'Presenti formalmente la richiesta e la porterò al Santo Padre'. Io la presentai, la sua risposta fu questa: 'Eccellenza, non mi faccia più questo nome qui dentro'. 'Santo Padre manca poco tempo, accontentiamola'. Lui ripete: 'Non mi faccia più questo nome qui dentro, io non intendo concedere la grazia. E inoltre è ancora valido il biglietto che non entri in Vaticano, questa donna non deve entrare". Eravamo nel 2017". 

L'udienza.
E' stata un'udienza molto movimentata, in cui il presidente Giuseppe Pignatone ha fatto molta fatica a tenere il dibattimento sui binari assegnati, tra accenti polemici, proteste delle difese, impulsività ed escandescenze delle due testimoni, quella di oggi al Tribunale vaticano nel processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, in cui sono state sentite le testimoni Genoveffa Ciferri e Francesca Immacolata Chaouqui. In particolare, la prima ha riferito dei suoi rapporti d'amicizia con mons. Alberto Perlasca, ex capo dell'Ufficio amministrativo, cui ha intestato anche una casa e sue proprietà a Greccio (Rieti), dell'averlo voluto aiutare quand'era indagato nell'inchiesta - andando anche a casa del card. Becciu per sostenerne la necessità di scagionarlo, dopo aver temuto per una somministrazione di barbiturici al suo amico e sodale -, del fatto che il porporato, suo superiore come sostituto per gli Affari generali, lo tenesse "in uno stato di soggezione fuori da ogni immaginazione". La donna -, terziaria francescana, ex collaboratrice del Dis come analista e geostratega - ha anche riferito di aver ricevuto a lungo "informazioni ampie e dettagliate sul corso della indagini" dalla stessa Chaouqui, che le vantava "una strategia comune col promotore di giustizia Diddi, col prof. Milano, con la Gendarmeria e persino col Santo Padre". Si è detta al corrente, informata dalla Chaouqui, anche di un progetto per arrestare l'imputata Cecilia Marogna sul suolo vaticano, invitandola in Segreteria di Stato, salvo poi il fatto che il cardinale Pietro Parolin si sarebbe tirato indietro. 

https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2023/01/13/il-cardina-becciu-respinge-le-accuse-non-fui-io-a-far-arrestare-chaouqui_5df9f59a-525b-4458-8f14-7d73b94c5821.html

Leggi anche:

https://www.adnkronos.com/chaouqui-chiede-revisione-sentenza-vatileaks-2_3viCXR1smqh5TFMpyOJNwo

https://www.adnkronos.com/caso-emanuela-orlandi-parla-ali-agca_7xSGjPeotpa04PHAeS4LXT

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https://www.adnkronos.com/caso-orlandi-avv-famiglia-contenti-di-nuove-indagini-un-anno-fa-mi-scrisse-il-papa_2cAWrmZS2EV7XZvGDRQ8Xq

lunedì 9 gennaio 2023

Manipolazione, informazione. - Giancarlo Selmi

 

"Se un edificio crolla e la televisione non lo dice, non è mai crollato". Lo ha detto Karl Popper, filosofo ferocemente critico con ciò che chiamava "induzione". Sembra un'affermazione banale, ma non lo è assolutamente. Perché il rapporto causa effetto può essere invertito eppure darà lo stesso risultato: "se un edificio è in piedi però la televisione dice che è crollato, la gente crederà e dirà che è crollato".

È di straordinaria attualità e ci fa riflettere su quanto l'informazione possa orientare le coscienze e, soprattutto, come possa formare l'opinione, addirittura prima di orientarla. La manipolazione dell'informazione è un reato grave in tutti i paesi democratici, meno nel nostro. Comunicare notizie inventate o manipolare le vere, è sanzionato dappertutto.
In tutti i paesi democratici, ma non nel nostro, esistono leggi severe che impediscono i conflitti di interesse nell'editoria. Proprio per evitare ciò che sta succedendo in Italia: il consolidamento di un tumore che ha ramificato le metastasi in tutto (o quasi) il sistema informativo italiano. Non è forse un pericolo per la democrazia?
Non solo manipolazione, ma falsificazione, insabbiamento, silenzio sulle notizie scomode.

Il Tg1 ha rifiutato di passare le immagini della protesta con la vernice dei ragazzi di "ultima generazione". È passato sotto silenzio il ricco aumento per "adeguamento all'inflazione" dei già ricchi vitalizi degli ex Consiglieri regionali della Liguria. Che, peraltro, molte regioni stanno imitando. Adeguamento del quale sono a conoscenza i soli lettori del Fatto Quotidiano. Sul "bipolarismo" della Meloni nessuno parla. Nessuno che abbia messo in evidenza la bipolare attitudine del signor PdC riguardo alle accise sui carburanti e fatto vedere il video con il gridolino "paura", della premier, quando si presentò lo stato a ritirare i 35 euro su 50.
Ora che quei 35 euro li ritira lei stessa, non avremmo diritto a gridare, come fece lei nel famoso video, "paura"? E non avremmo il diritto di esserne informati? Può definirsi un paese del primo mondo, quello in cui facciano informazione un solo giornale ed un comico, il geniale Crozza?

(nella foto Karl Popper) 

https://www.facebook.com/photo?fbid=519677203475969&set=a.397391539037870

domenica 8 gennaio 2023

Un tempo sarebbe stato facile amarmi. - Gabriel Garcia Marquez

 

Un tempo sarebbe stato facile amarmi.
Ero dolce.
Credevo nelle promesse, nelle parole.
Giustificavo tutto, anche il male che sentivo e non ammettevo.
Mi prendevo la colpa, anche se non la capivo.
Pur di non perdere chi amavo, sopportavo ogni mancanza,
anche quando mancavo io e non sapevo più ritrovarmi.
Abbracciavo senza chiedere nulla in cambio.
Ero indifesa.
Da proteggere.
Da distruggere.
Oggi è difficile amarmi, restarmi accanto.
Rispettare i miei spazi, comprendere i miei silenzi, la mia indipendenza,
il mio bisogno di vivere e di costruire usando solo le mie forze.
Io che del mio equilibrio cercato, sofferto e trovato
ne faccio un vanto da gridare al presente ogni giorno.
Io che credo nell’Amore molto più di ieri.
Amore che non ha nulla a che fare con le briciole,
con l’arroganza, con l’assenza, con l’infedeltà.
Oggi è difficile amare la donna che sono diventata.
Dopo i sogni sfumati, le ali spezzate, le labbra spaccate.
Sicura delle mani da stringere che vorrei
e degli occhi che non vorrò più incrociare.
È difficile.
Forse è impossibile.
Sicuramente è raro incontrare un’anima che ci ami oltre noi stessi,
dove fingiamo di essere forti mentre imploriamo gli abbracci
di chi possa amarci sapendoci fragili e imperfetti.
Io dell’amore non so molto, forse.
Non posso insegnarlo.
Ma so che ha a che fare con il rispetto.
E con le scelte che non s’impongono, ma si costruiscono.
Insieme.
Quando si diventa l’unica scelta e mai un’opzione tra tante.
Alla persona che sono stata devo tanto, soprattutto scuse.
Alla persona che sono, un promemoria:
ricordati delle tue ali, ricordati di te.
All’Amore, a quello come dico io.

(Gabriel Garcia Marquez)

venerdì 30 dicembre 2022

Pensioni d’oro e vitalizi: sono 30 mila e costano 1,2 miliardi. Chi li percepisce e quali sono le regole. - Enrico Marro (13-2-2020)

 

Sono almeno 29.829 i pensionati fuori dal sistema Inps perché ex parlamentari, membri o dipendenti degli organi costituzionali e dell’Assemblea regionale della Sicilia. Costano ogni anno quasi 1,2 miliardi di euro.

Quanto costano

Le pensioni medie del personale della Camera (4.700 i pensionati) e del Senato (2.500) oscillano intorno ai 58-59 mila euro lordi all’anno (4.800-4.900 euro al mese). Quelle del personale della presidenza della Repubblica (1.783 pensionati, dice il rapporto, ma il Quirinale precisa che il dato esatto è di 876) sui 53 mila euro mentre gli ex lavoratori della Regione siciliana (17.741) stanno decisamente sotto, prendendo mediamente circa 25.500 euro.
Variano molto invece i vitalizi degli ex parlamentari (851 diretti più 444 di reversibilità al Senato, 1.020 diretti più 520 di reversibilità alla Camera) perché dipendono dal numero di legislature svolte. Tuttavia, in media, l’importo erogato alla Camera è di 70 mila euro per i vitalizi diretti e di 37 mila per quelli di reversibilità. In tutto, i circa 2.700 vitalizi erogati agli ex parlamentari costano 200 milioni l’anno, in media 74mila euro.
Per i 35 vitalizi (24 diretti e 11 di reversibilità) degli ex giudici della Corte costituzionale la spesa è invece di circa 4,3 milioni, in media 125mila euro lordi.

Fuori dall’Inps

Il censimento delle 30 mila pensioni d’oro che formano un mondo pensionistico a parte è contenuto in un capitolo del Rapporto sul welfare di Itinerari previdenziali che presentato il 12 febbraio alla Camera. I dati, si legge, «sono a volte non completi poiché queste istituzioni spesso non comunicano le posizioni all’anagrafe generale gestita dal Ministero del Lavoro tramite l’INPS in base alla legge n. 243/04».

L’altra previdenza

Non rientrano nel sistema generale Camera e Senato, che, in virtù dell’«autodichia» garantita dalla Costituzione, hanno proprie regole previdenziali approvate dagli stessi parlamentari sia per i propri dipendenti sia per deputati e senatori; la Regione Sicilia, «che gestisce un fondo di previdenza sostitutivo per i propri dipendenti», quindi fuori dal regime Inps; la Corte costituzionale per i giudici e i propri dipendenti (anche qui vige un regolamento interno); la Presidenza della Repubblica per il proprio personale; le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale per le cariche elettive. Infine c’è, chissà perché, il Fama, il Fondo agenti marittimi ed aerei, con sede a Genova, che gestisce la previdenza per gli agenti marittimi.


I vitalizi

Dal primo gennaio 2019 è entrato in vigore il taglio dei vitalizi per gli ex deputati ed ex senatori, fortemente voluto dai 5 Stelle. I vitalizi, si chiamano così le pensioni dei parlamentari, sono stati tagliati, «nella maggioranza dei casi tra il 40 e il 60%», prevedendo un risparmio tra Camera e Senato di «circa 56 milioni all’anno, 280 milioni a legislatura». Il Rapporto ricorda che «pendono ancora molti ricorsi». E proprio in questi giorni è scoppiato il caso della commissione del Senato sul contenzioso orientata ad accoglierli. Per i nuovi parlamentari eletti dal primo gennaio 2012, c’era invece già stata una riforma che aboliva i vitalizi sostituendoli con un sistema pensionistico con regole che tendono a quelle generali. «La prestazione sarà calcolata con il metodo contributivo. Per i parlamentari che possono vantare legislature precedenti è previsto un regime transitorio pro-rata, che tiene conto della quota di assegno vitalizio maturato fino al 31 dicembre 2011 e di quella soggetta al nuovo regime contributivo». Fino al 1997 bastava aver fatto una legislatura (anche se le Camere erano state sciolte anticipatamente) per andare in pensione a 60 anni e per ogni ulteriore legislatura il limite per ottenere il vitalizio si abbassava di 5 anni. Con la riforma, dal 2012 l’età di pensionamento è stata portata a 65 anni e servono 5 anni effettivi di legislatura. Ma per ogni anno in più di presenza in Parlamento l’età pensionabile scende di un anno fino al limite dei 60 anni.


Le Regioni

Per il 2018, si legge nel Rapporto, si può stimare che il numero di assegni corrisposti a titolo di vitalizio per le cariche elettive delle Regioni sono stati 3.300, compresi quelli di reversibilità per una spesa complessiva di 150 milioni di euro, circa 45mila euro medi a testa. La legge di Bilancio per il 2019 ha previsto l’obbligo per le Regioni di procedere al taglio dei vitalizi degli ex consiglieri e, in caso di inadempienza, un taglio del 20% dei trasferimenti erariali a loro favore. Il 3 aprile 2019 è stato poi siglato l’accordo fra Stato e Regioni che ha previsto l’utilizzo del metodo contributivo per il ricalcolo dei vitalizi, sul modello dei parlamentari. «In base ai dati forniti dai consigli regionali (al netto di quello della Sicilia), il risparmio complessivo dovrebbe ammontare ad almeno 22 milioni annui».


https://www.corriere.it/economia/pensioni/20_febbraio_13/pensioni-d-oro-vitalizi-sono-30-mila-costano-12-miliardi-chi-li-percepisce-quali-sono-regole-bec377c4-4d7b-11ea-a2de-b4f1441c3f82.shtml