Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 28 dicembre 2023
martedì 26 dicembre 2023
venerdì 22 dicembre 2023
Cosa c’è davvero nel vino che beviamo? L’inchiesta di Report, l’uva del Sud e il marketing della paura.
(Alessandro Trocino – corriere.it) – Avete visto «Report» e vi è passata la voglia di bere vino? C’è da preoccuparsi? Come spesso accade, guardando le inchieste di «Report», la notizia della morte del de cuius (il vino, nello specifico), è fortemente esagerata. Ogni volta che si guarda una puntata, viene in mente Carlo Lucarelli che ci guarda torvo: paura eh? Già, perché la logica delle inchieste è quella di trovare il marcio da qualche parte e se non si trova proprio, basta qualcosina di surmaturo o di lievemente deteriorato: è sufficiente per allarmare lo spettatore del putridume che sta per travolgere le nostre vite o nel quale siamo immersi senza saperlo. Spesso non è neanche questione di inesattezze o errori (ci sono anche quelli), ma di allarmismo puro, di marketing della paura (un po’ come la politica, insomma).
In vino veritas.
Proviamo dunque a fare un po’ la tara all’ultima puntata di Report, a deacidificare la narrazione e a filtrare il discorso. Ed eccoci alla questione vino, oggetto dell’ultima puntata, a cura di Emanuele Bellano. Mettiamo subito da parte le reazioni esagitate del ministro Francesco Lollobrigida: «Abbiamo il nemico in casa». Come gli è stato fatto notare, se la casa di cui sopra è la Rai, non è casa sua. E se, invece, come sosteneva in tv il sempre performante Alessandro Giuli, parlava dell’Italia, peggio ancora. Non ci sono nemici, qui, se non i sofisticatori e i truffatori. Ed eccoci al punto. E alla domanda fondamentale: cosa c’è dentro il bicchiere che beviamo? Cosa c’è nel nostro vino e com’è fatto? Spiace non poter rispondere. Alla faccia di tutti i disciplinari della terra, di tutti i controllori, di tutte le doc, docg e sigle possibili e immaginabili, non possiamo sapere il contenuto del nostro bicchiere. È una disdetta, un peccato, anzi un oltraggio alla democrazia oltre che alla nostra salute. Ci son problemi peggiori, certo, ma non sapere cosa beviamo, sarete d’accordo, è una cosa molto spiacevole. Che contraddice anche la saggezza antica: in vino veritas. Ma quale veritas?
Vino sintetico.
Dice Report tre cose, in sintesi. Che i vini vengono costruiti. Un vino è poco acido? Poco tannico? Poco alcolico? Poco trasparente? Ci sono rimedi legali, additivi e enzimi di ogni tipo. Il «piccolo chimico», come recitava il titolo del servizio, fabbrica il vino che vogliamo, con il colore, la trasparenza, il gusto e il profumo che desideriamo (anzi, che la polizia della moda e del gusto ci impongono periodicamente). È una cosa piuttosto nota, anche se un ripasso non fa male. È successo negli anni ’70. La scienza ci ha messo a disposizione ogni bendidio per costruire il nostro vino Frankenstein: all’inizio abbiamo salutato con entusiasmo positivista il progresso scientifico, poi abbiamo cominciato a interrogarci corrucciati sui limiti dell’interventismo tecnologico. La questione è tanto nota che su questo tema è nato un intero movimento, quello dei vini naturali, o artigianali, o veri, o come li volete chiamare. Vini non solo senza sostanze chimiche aggiunte, ma che limitano anche il più possibile l’intervento dell’uomo. È qui che è nata la grande dicotomia tra i vini convenzionali, quelli industriali, su vasta scala, e i vini naturali, solitamente di piccoli produttori. Differenze di approccio, anche se talvolta si scade nella macchietta, con derive new age e no vax di alcuni produttori troppo innamorati della natura e poco della scienza. Ma al netto delle derive estremiste, il movimento dei vini naturali è una reazione giusta e necessaria a vini botox, elaborati, stressati, siliconati, svuotati di ogni vita, omologati, standardizzati. Ma torniamo a Report.
Gli additivi.
La seconda cosa che si dice nel servizio è che vengono usate anche sostanze illegali per abbellire i vini o per resuscitare uve morte. E questo non è bello, anche se la faccenda è nota. Illegale usarle, ma non venderle e così i negozi di enologia fanno affaroni, senza che nessuno abbia da ridire. A questa seconda traccia, si unisce un ultimo filone, quello delle truffe. Report riferisce, e questa è forse la parte dell’inchiesta più interessante, che ogni giorno la penisola è attraversata da decine di Tir che portano uva da Sud a Nord. Un fenomeno che c’è sempre stato, sia pure in forme diverse. Una volta succedeva perché le uve del Piemonte e del Veneto, terre allora fredde, non raggiungevano il sufficiente grado zuccherino per arrivare al minimo di alcol necessario per chiamarsi vino o per entrare nei disciplinari: e così da Puglia e Sicilia arrivavano a dar manforte tir e tir di Primitivo e Nero d’Avola, che irrobustivano gli stitici vini nordici (in Francia son più pratici, con la chaptalisation aggiungono zucchero nel vino, che da noi è vietato). Ma ormai c’è il cambiamento climatico e quindi i vini del Piemonte raramente stanno sotto i 13-14 gradi, senza bisogno di aiutini esterni.
Nord chiama Sud.
Ma ci sono altri due motivi per importare uva dal sud: la peronospora, malattia che quest’anno ha fatto strage, e il prezzo dell’uva. E così arriva uva non solo da terre ricche di acini sani, ma arriva anche uva da tavola, che non sarebbe idonea a farci il vino, ma che costa meno. E così succede che milioni di bottiglie di prosecco, che dovrebbe essere fatto con la glera nei confini nordici, già smisurati e allargati per decreto da Luca Zaia, viene fatto con pinot grigio della Puglia. Non benissimo. A questo si aggiungono criminali guerre commerciali combattute a suon di dipendenti infedeli degli apparati di controllo dello Stato, che finiscono poi, misteriosamente ma non troppo, per essere assunti dalle aziende stesse. A questo punto, le associazioni di produttori che dicono? E il governo come reagisce? Come al solito. Invece di indignarsi contro ladri, approfittatori, commercianti senza scrupoli, gente che rovina il Made in Italy e devasta la qualità, se la prende con Report, che denuncia il fenomeno. Film già visto, inguardabile sin dalla prima visione.
La chiave è l’etichetta.
Resta da dire che i tre filoni seguiti da Report dovrebbero stare ben distinti. E che sovrapporli, confonderli, finisce per togliere forza all’inchiesta. Certo, aumenta la repulsione («Dio mio cosa ci danno da bere, veleno?»), e quindi fa parlare della trasmissione e aumenta gli ascolti. Ma non fa opera di bene. Meglio sarebbe distinguere i piani. E spiegare che c’è un gigantesco rimosso nel mondo del vino e si chiama etichetta. Se tu produttore vuoi il mosto concentrato rettificato (che aumenta il grado alcolico), benissimo. Ma io voglio saperlo. Deve esserci scritto in retroetichetta o in qrcode. Se vuoi usare colla di pesce, bentonite, filtrazioni sterili, gomma arabica, caseina, trucioli di legno, ferrocianuro, dimmelo. Se nel tuo Barolo hai aggiunto il lievito Brl97, che enfatizza gli aromi di ciliegia, liquirizia e frutti di bosco, benissimo. Ma siccome pago 50 o 100 o di più, mi piacerebbe essere informato, se non è troppo disturbo. La questione, alla fin fine, è proprio quella: l’etichetta.
Divieto di trasparenza.
Per una convergenza di interessi, i grandi produttori, in combutta con la politica, hanno sempre impedito la libertà di etichetta. Non solo non c’è l’obbligo di scrivere gli ingredienti, ma c’è il divieto. Così, mantenendo nell’ignoranza il consumatore, possiamo continuare a metterci quello che vogliamo nel vino. Tempo fa girava un cartello che mostrava come in una sola bottiglia ci possono essere fino a un centinaio di additivi, enzimi, conservanti e sostanze di ogni tipo. Niente di male, se son legali (ma neanche benissimo). A patto che noi si sappia. È questa la vera questione che «Report» ha trattato solo lateralmente e che ministri, rappresentanti di categoria e grandi produttori si guardano bene dal sollevare. Fin quando il vino non sarà nudo, noi continueremo a bere un liquido ignoto. Vale però un’ultima considerazione.
Leggere gli indizi.
Visto che non ce lo vogliono dire, come si usava scrivere qualche anno fa, visto che ce lo nascondono, dovremmo cominciare a farci furbi. A informarci (eh, costa fatica, è vero). A capire che un vino bianco troppo trasparente e un rosso troppo luccicante nascondono spesso procedure invasive. Che un bianco torbido non filtrato non è difettato, anzi, vale il contrario. Che i lieviti a fondo bottiglia danno materia e forza al vino. E che, come con gli amici, anche i produttori vanno conosciuti per potersi davvero fidare e capire come lo fanno il vino. E più sono grandi i produttori, più comprano uva sconosciuta da viticoltori che non si sa come la trattano, più abbassano i prezzi, e più aumenta il rischio che quel liquido non sia esattamente un nettare divino ma un liquido ipertrattato che conserva solo un lontano ricordo dell’uva da cui dovrebbe provenire.
giovedì 21 dicembre 2023
Nuvole dall'aspetto minaccioso. - David Attenborough
Le asperitas sono nuvole dall'aspetto minaccioso che si verificano soprattutto con Stratocumulo e Altocumulo. Questi sono stati fotografati su Gorham, New Hampshire il 23 aprile 2023.
More details/photos: https://bit.ly/3QMlRKW
[ Crystal Lee]
https://www.facebook.com/photo?fbid=979174363741730&set=a.797507861908382
LA PIRAMIDE NASCOSTA. - Minerva Elidi Wolf
Nel mio libro esperimenti Anunnaki, ho volutamente inserito nella parte finale il libro shardana guerrieri di Nibiru, un libro dentro un libro. Spero sia di gradimento.
LA PIRAMIDE NASCOSTA
Come si può vedere dalla foto acclusa, l’entrata principale della Grande Piramide di Giza, detta erroneamente Piramide di Cheope, in realtà è nascosto sotto uno strato di pietre, e non è in linea con la forma della piramide.
Inoltre, alcuni dei cosiddetti “cunicoli di areazione” all’interno della Grande Piramide sono “ciechi”. Questo vuol dire che nascono e muoiono all’interno della piramide, senza mai raggiungere l’esterno.
Questi ed altri indizi (come, ad esempio, la presenza di diverse “camere reali” all’interno della Piramide non allineati tra loro) danno la ragionevole certezza che in realtà l’attuale Grande Piramide sia stata edificata su una piramide precedente, molto più antica.
Tenendo conto di queste indicazioni di massima, come si può vedere dalla foto acclusa, sembra che questa “Prima Piramide”, raffigurata con il colore arancione, avesse un lato di circa 160 metri, ed era alta circa 43 metri. Le facciate della “Prima Piramide” avevano una angolazione di circa 30 gradi. Con queste misure la “Prima Piramide” era incredibilmente simile alla Piramide della Luna, che si trova a San Juan Teotihuacan, in Messico. Infatti, questa piramide è alta 43 metri ed ha il lato ovest ampio 147 metri. Questa piramide messicana era associata alla figura femminile, alla fertilità e all’acqua. Inoltre, sembra che i costruttori riuscirono a portare in cima una roccia pesante ben 22 tonnellate, che rappresentava la Luna.
I lati Nord e Sud di questa “Prima Piramide” si trovavano ciascuno a circa 35 metri di distanza dai rispettivi lati Nord e Sud dell’attuale Grande Piramide (ovviamente verso l’interno). Considerando che il centro di questa piramide è spostato rispetto all’asse centrale della Grande Piramide, il lato Est si sarebbe trovato approssimativamente a circa 30 metri di distanza dal rispettivo lato Est della Grande Piramide, mentre il lato Ovest a circa 40 metri dal suo omologo della Grande Piramide. La base di questa “Prima Piramide” è grande esattamente quanto la roccia leggermente sopraelevata su cui poggia la Grande Piramide. Questa roccia sarebbe servita come “base di partenza” per la costruzione, diminuendo di molto il carico di lavoro.
La datazione al radiocarbonio di uno dei campioni di legno usato per riempire gli spazi tra le rocce esterne della Grande Piramide, ha restituito come data più antica il 3969 a.C. (Datazione media 3809 ± 160 a.C. - Dati forniti dal “Pyramids Carbon-dating Project” sotto la guida dell'egittologo Mark Lehner, insieme a Robert Wenke dell'Università di Washington). Quindi la parte esterna più antica della Grande Piramide ha almeno 6.000 anni. Ma allora, quanto è antica la “Prima Piramide” contenuta al suo interno? E chi l’ha costruita?
https://www.facebook.com/photo?fbid=122127626744051537&set=a.1221000986780515377
mercoledì 20 dicembre 2023
L'astronauta di Palenque: “Un essere venuto dalle stelle"
Il 16 giugno 1952, l'archeologo Alberto Ruz de Lhuillier, trovò per la prima volta il Tempio delle Iscrizioni di Palenque.
Lì si trovava la tomba di Pacal il Grande, meglio conosciuto come l'astronauta di Palenque. L'incisione sulla tomba ha generato molte controversie tra archeologi e teorici. Sotto una serie di quarantacinque gradini nel Tempio delle Iscrizioni di Palenque si trova la tomba di Pacal il Grande. Uno dei mausolei più controversi della storia nasconde già il possibile astronauta di Palenque. Le iscrizioni sembrano mostrare il personaggio che brandisce una sorta di dispositivo elettronico, che molti teorici suggeriscono sia un'astronave.
L'astronauta di Palenque: chi era veramente?
Quando gli esperti esaminarono i resti, notarono che le caratteristiche fisiche di Pacal erano completamente diverse dal resto della popolazione Maya. Inoltre, non aveva pietre preziose incastonate nei denti e il suo cranio non era deformato. Qualcosa che è del tutto normale per i re Maya.
La qualità dei gioielli e la quantità ritrovata danno un'idea della gerarchia che aveva il personaggio. Inoltre, le sue mani sottili e le dita allungate erano ricoperte di anelli. Le analisi effettuate sul corpo lo datano ad un'età di circa 2000 anni. Tutti questi dati hanno portato molti ricercatori a chiedersi cosa fosse il Pacal.
Ad esempio il famoso teorico Erich von Däniken , che lo descrive come “un essere che appare seduto e chino su alcuni comandi, simile ad un astronauta all'interno della cabina di pilotaggio. L'essere indossa anche un elmo dal quale escono tubi flessibili. Davanti al suo naso puoi vedere quello che sembra essere un pallone di ossigeno e con entrambe le mani manipola una sorta di controllo di comando.
La mano superiore sembra essere in grado di girare un pulsante.
Quattro dita sono chiaramente visibili sulla mano sinistra, con il mignolo piegato. Questa mano sembra sul punto di prendere una leva, proprio come gli acceleratori manuali delle motociclette e il tallone sinistro poggia su un pedale di diversi livelli.
L'abbigliamento di un astronauta.
Oltre a tutto quanto sopra menzionato, un'altra questione da tenere in considerazione è l'abbigliamento dell'essere, che sembra essere troppo moderno. Sotto il mento, ad occhio nudo, si vede un indumento simile ad un maglione a “collo di cigno” che aderisce completamente al busto e termina con polsini a costine. Indossa anche un'ampia cintura con fibbia di sicurezza, pantaloni con collant spessi e un interno molto più stretto che arriva fino alle caviglie.
In poche parole, non è solo l'attrezzatura, ma anche l'abbigliamento ad essere estremamente simile a quello degli astronauti.
Si potrebbe dire che l'astronauta di Palenque era perfettamente equipaggiato.
Oggi il dibattito continua ad essere molto attivo. L'immagine suggerisce che le antiche leggende sugli dei venuti dal cielo e dalle stelle potrebbero essere reali.Allora chi era Pacal il Grande? Era stato un vero astronauta di Palenque?
https://www.infinityexplorers.com/the-palenque-astronaut-a-being-that-came-from-the-stars/
martedì 19 dicembre 2023
Lesa Draghità (Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano - 15-12-2023)
Reato più, reato meno, dopo quelli di rave party, omicidio nautico, lesioni nautiche, abbandono scolastico, imbrattamento di edifici con vernice lavabile, istigazione all’accattonaggio, all’anoressia e alla violenza social, istigazione anche epistolare a proteste anche pacifiche in carceri o Cpr, occupazione di immobili (con esenzione per CasaPound), blocco stradale o ferroviario (con esenzione per i lollobrigidi), i tempi sono maturi per l’istituzione di un nuovo gravissimo delitto, punibile con ergastolo ostativo e 41-bis: la lesa Draghità. L’altro giorno la Meloni ne ha detta una giusta: il governo Draghi non era granché: tante photo-opportunity con i leader europei, tipo quella sul treno per Kiev con Scholz e Macron, e pochi risultati, peraltro pessimi (schiforma Cartabia, flop del price cap su gas e petrolio russi, armi a Kiev con i risultati a tutti noti, soliti rinvii su catasto e balneari): tant’è che se ne accorse pure lui, tentò la fuga al Quirinale e fu respinto con perdite. Ma il potere mefistofelico del Superbanchiere s’è fatto subito sentire. E la premier, come sempre quando ne azzecca una (vedi il Mes e gli extraprofitti bancari), s’è rimangiata tutto: “Non ce l’avevo con Draghi, ma col Pd” (mai fotografato con Scholz e Macron). Ma non è bastato: chi commette un reato mica può farla franca smentendolo o scusandosi.