Sabato scorso è accaduto un prodigio inaudito: Matteo Orfini è parso dire qualcosa di sensato. Addirittura condivisibile. L’evento, di cui certo si occuperanno i libri di storia, ha stupito milioni di persone in Italia e ancor più nel mondo, perché Orfini è da sempre idolo delle folle e delle masse, che varca con agio i confini nazionali, europei e financo mondiali. A lui il Pianeta Terra sta stretto. Orfini è uomo dalle mille doti. Vive da sempre dentro il partito, ma non si è mai accorto di Mafia Capitale. Amava definirsi “giovane turco”, senza mai esser stato né turco né giovane. Più dalemiano di D’Alema, di cui tuttora scimmiotta la timbrica sabinaguzzantesca e quel gusto astratto per il politichese, ne è da anni uno dei più massimi detrattori, a conferma di un’altra sua cifra distintiva: la coerenza. Una coerenza che gli ha permesso di trasformarsi in turborenziano dopo esser stato fermamente (va be’) antirenziano, garantendosi con ciò lo scranno di presidente del Pd. Un ruolo che Orfini ha interpretato da par suo: fedelissimo a una linea che non c’era e non c’è, il virgulto romano 44enne ha saputo contribuire fattivamente alla distruzione del partito. Tale apocalisse, lenta e inesorabile, lo ha visto in prima linea come fiancheggiatore zelante e privo di guizzi: nelle direzioni rideva alle battute del Tondo di Rignano ridimensionando il dissenso allo stesso, nelle interviste dava la colpa ai 5 Stelle o a Minniti (l’unico nel Pd ad averci cavato qualcosa), nei talkshow induceva tutti alla catalessi. Nei rari ritagli di tempo, Orfini soleva rilassarsi dando consigli su Twitter agli allenatori del Milan (poi tutti esonerati), oppure interpretando lo spot di un noto marchio di patatine, o magari chiedendo a Carlo Verdone la parte di Fabris nel remake di Compagni di scuola.
Dopo un periodo di parziale inabissamento, Orfini è tornato sabato a palesarsi. E lì ha avuto luogo il Prodigio. Ascoltiamo il Verbo del Profeta, giacché egli ci ha parlato: “Cambiare nome non basta, il partito non funziona. Sciogliamolo”. Inaudito: Orfini ha detto il giusto. Certo che cambiare nome non basta. Certo che il partito non funziona. Certo che il Pd va sciolto. E’ vero, si potrebbe ricordare al nostro nuovo Mahatma che a tali considerazioni c’è arrivato un po’ tardi, ma non è il caso di essere puntigliosi: Orfini è nel giusto, que viva Orfini! Mentre stavo sostituendo il poster di Rosario Dawson sadomaso con quello di Orfini in pigiama cremisi, ho però voluto leggere di nuovo l’intervento-prodigio di Orfini. Ho così scoperto che l’intervento integrale era un po’ diverso: “Cambiare nome non basta, il partito non funziona. Sciogliamolo e rifondiamolo”. Tristezza, dolore, afflizione: Orfini non era più il Profeta, ma era già tornato Orfini. In quel finale “e rifondiamolo” c’è l’ennesima prova di non avere ancora capito nulla. Non è che il Pd non funzioni per un maleficio della storia: non funziona perché è composto – perlomeno nella sua dirigenza nazionale – da gente come Orfini. Una volta sciolto, va sì rifondato: Orfini è però l’ultimo a doversene occupare. Lui deve fare altro: il mimo, l’ufologo, il tronista dalla De Filippi. Quello che vuole. Ma il politico proprio no. Un “nuovo Pd” può avere senso solo se dentro non ci saranno più gli Orfini, gli Andrea Romano, le Boschi e compagnia cantante. Se devono essere gli Orfini a rifondare il Pd, evitatevi la fatica ed evitateci il maquillage: state così sulle palle al mondo reale che gli italiani, anche quelli di sinistra, pur di non votarvi sarebbero disposti ad appoggiare chiunque. Persino Salvini.
(Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2018)
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