giovedì 11 marzo 2021

La “vittoria” di Renzi: i suoi arcinemici a capo di Dem e M5S. - Fabrizio d'Esposito

 

Tre ex premier capi di partito. E lui, Matteo Renzi, è quello che ce l’ha più piccolo. Al punto che il professore Enrico Letta, il 15 gennaio scorso, dettò da Parigi parole affilate sulla crisi provocata dagli italoviventi in odio a un altro docente, l’avvocato Giuseppe Conte: “Trovo incomprensibile e incredibile che l’Italia e in parte anche l’Europa debbano andare dietro le follie di una sola persona. Oggi è il capo di una cosa che è più piccola del Psdi”. Che affronto: Renzi che vale meno di Longo o Cariglia, senza offesa per i padri del sol nascente, simbolo del vecchio Psdi.

Era sempre metà gennaio, ma di sette anni prima, quando invece il Rottamatore era capo del Pd. E in tv da Daria Bignardi sillabò quello che è diventato uno dei più citati avvisi di sfratto in politica: “Enrico stai sereno”. A Palazzo Chigi c’era infatti Enrico Letta, presidente del Consiglio di un governo di larghe intese. Un mese dopo, il 14 febbraio, non c’era più. Sostituito da Renzi, of course.

Accade ora che i due premier fatti fuori dal Cariglia di Italia Viva siano pronti per diventare leader dei due partiti principali dell’alleanza giallorossa che fu: Letta nel Pd, Conte nel Movimento Cinque Stelle.

E pensare che nei giorni cruenti della crisi del Conte II, Renzi spiegava felice e ghignante ai suoi interlocutori il decisivo corollario del veniente governo di Mario Draghi: disarticolare, meglio far implodere sia i democratici sia i pentastellati. Disegno riuscito ma che adesso rischia di trasfigurarsi in una vittoria di Pirro per il senatore del Rinascimento arabo. Ché proprio le sue due vittime più illustri – Letta nel 2014 e Conte nel gennaio scorso – adesso si ritroveranno insieme contro di lui. Un capolavoro, sul serio.

Dell’inimicizia, chiamiamola così, di Letta con Renzi il quadro principale raffigura la scena della campanella tra i due a Palazzo Chigi, il 22 febbraio di quel fatidico e infausto Quattordici. Il premier uscente guardava altrove, tutto tranne che il premier entrante, e rispettò un distanziamento ante litteram. Fu un passaggio veloce, glaciale, con Letta disgustato che consegnava a Renzi il simbolo delle riunioni del consiglio dei ministri. La campanella, appunto. E il disgusto è il sentimento che meglio esprime la considerazione lettiana per il capetto degli italoviventi. Renzi, per esempio, si è spesso difeso dalle accuse di golpe nel 2014 (anche lui era un premier non parlamentare) e Letta una volta rispose: “Il silenzio esprime meglio il disgusto e mantiene meglio le distanze. Da tempo ho deciso di guardare avanti”.

Sette anni dopo la storia si è ripetuta tragicamente con il secondo governo di Giuseppe Conte. E anche stavolta Letta non ha mancato di fare la sua diagnosi spietata all’ex sindaco di Firenze: “Già a febbraio dell’anno scorso Renzi stava facendo cadere il governo Conte e la crisi fu impedita dall’arrivo del Covid a Codogno. Questa è la storia, la dimostrazione del fatto che le sue critiche al Recovery sono strumentali“.

Ancora: “Nelle elezioni del 2018 ha fatto lui le liste elettorali del Pd. Si tratta di un potere inerziale di interdizione, con il quale ha messo in ginocchio la politica italiana e ci fa fare nel mondo la figura del solito Paese inaffidabile, pizza, spaghetti, mandolino”.

Da par suo lo stesso Conte custodisce e coltiva sentimenti uguali a quelle di Letta. Quando il Cariglia di Rignano ha aperto la crisi, l’avvocato con genuina indignazione fece sapere: “Mai più con Italia Viva”. E quando poi venne costretto dal Colle e da Zingaretti a un mezzo passo indietro per tentare di ricucire, Conte si rifiutò comunque di pronunciare il nome del traditore dal due per cento nei sondaggi.

Per tutto questo oggi Matteo Renzi è il politico meno amato (o più odiato) del Paese, senza più alcun futuro di grandezza. E il disgusto per lui dei due probabili leader di Pd e M5S è la risposta migliore alla serenità che l’ex Rottamatore offre ciclicamente.

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