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domenica 21 maggio 2023

I COLOSSI DI MEMNONE

 

Gigantesche statue di granito, dal peso complessivo insieme ai piedistalli, di circa 1300 tonnellate, pari a 100 cacciabombardieri Eurofighter completamente armati. Vennero scolpiti in un unico blocco di granito, probabilmente proveniente da una delle mine del Cairo, a 675 chilometri da Luxor.

I colossi di Memnone hanno dei numeri pazzeschi, “quasi impossibili” anche per moderni scultori e architetti. Tutto questo moltiplicato per 6, perché secondo le ultime ricerche, oltre ai 2 “giganti”, ci sono altri 4 colossi ridotti in rovina e sotterrati, solo leggermente più piccoli.

Secondo quanto scritto da diversi storiografi, all’alba di ogni giorno questi colossi emettevano un “suono”, che la leggenda vuole simile ad un canto. La cosa sembra essere fattibile anche da un punto di vista “fisico”. Forse l’evaporazione della rugiada in alcune crepe della statua poteva causare questo suono misterioso, ma è solo un’ipotesi. Verso il III secolo l’imperatore romano Settimio Severo face restaurare i colossi in rovina, e quel suono non su udì più. Probabilmente le riparazioni chiusero alcuni anfratti della statua, da cui si generava il suono, facendolo cessare.

Queste statue esistevano “come minimo” 3500 anni fa, ai tempi di Amenhotep III. Ma trasportare dei blocchi di quelle dimensioni ad oltre 600 chilometri di distanza, circa 1.500 anni prima che Giulio Cesare governasse Roma, sembra essere un’impresa impossibile per gli egizi di quel tempo. Quindi, anche se secondo gli archeologi le statue raffigurano le fattezze di Amenhotep III, vissuto 3500 anni fa, sono in diversi a credere che gli egizi abbiano semplicemente “ritoccato” le fattezze di Colossi preesistenti, per farli sembrare egizi. Lo stesso è accaduto alla Sfinge di Giza. Gli studi più recenti hanno scoperto che le zampe, la coda, il copricapo “egizio” e la “barbetta” (che poi è crollata) furono aggiunti in seguito, per fare sembrare la statua egizia.

I colossi di Memnone, forse, sono i resti di quello che gli egizi trovarono sepolto sotto la sabbia, che poi loro dissotterrarono e restaurarono, un po' come stanno facendo gli archeologi da 100 anni a questa parte. Ma tutto lascia pensare che chi ha originariamente trasporto quei blocchi dal peso incredibile era una civiltà nettamente più avanzata. Infatti, del trasporto di questi blocchi, non esiste traccia nei resoconti ufficiali egizi. Viceversa, quando almeno 1500 anni fa i Romani trasportarono su una barca un obelisco dal peso simile, giustamente il racconto di quel trasporto “eccezionale” venne documentato passo-passo, entrando di diritto nella “leggenda” delle opere di tecnologia.

Chiunque abbia trasportato quei blocchi, ha anticipato COME MIINIMO i romani di circa 1500 anni. Per fare un paragone, 1500 anni fa, noi entravamo nel “medio evo”, con carretti di legno, asinelli, animali da soma, e via discorrendo. Circa 1500 anni dopo, noi ci prepariamo a sbarcare su Marte. Ecco cosa separava i romani dai chi ha trasportato i colossi di Memnone.

Ma è molto probabile che il trasporto “vero” sia avvenuto almeno 7.500 anni fa, se non di più. Infatti, con una rilevazione effettuata con il metodo della “Luminescenza stimolata otticamente (OSL)”, compiuta dal Dipartimento di Archeometria dell´ Università dell’Egeo, in Grecia, è stato rilevato che la roccia calcarea del tempio di Qasr-el-Sagha può risalire addirittura al 5550 a. C. (datazione media: 4700 ± 850 a.C.). I colossi dovrebbero appartenere ad una data simile, o precedente, e originariamente “non erano egizi”.

L’articolo continua sul libro:
HOMO RELOADED – 75.000 ANNI DI STORIA NASCOSTA

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domenica 7 marzo 2021

McKinsey&C., il ritorno del metodo Draghi. - Carlo Di Foggia

 

Recovery plan - Pd e FdI contro l’incarico ai colossi della consulenza, Orlando chiama Franco. Scenario che ricorda quello visto nella stagione delle privatizzazioni.

L’arruolamento di McKinsey sul Recovery plan imbarazza il governo e il ministero dell’Economia. La notizia che il gigante mondiale della consulenza aiuterà la cabina di regia insediata al Tesoro nel valutare i progetti da inserire nella versione finale del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) ha creato diversi malumori. Fratelli d’Italia, LeU e 5Stelle chiedono chiarimenti e presenteranno interrogazioni parlamentari per chiedere all’esecutivo di riferire alle Camere, ma anche il Pd è molto critico. “La governance del Pnrr è al Tesoro con la stretta collaborazione dei ministeri competenti aveva detto Draghi. Se lo schema è cambiato, va comunicato al Parlamento”, dice l’ex viceministro all’Economia, Antonio Misiani. Stessa linea dell’ex ministro per il Sud, Peppe Provenzano. “Se fosse vero sarebbe abbastanza grave”, dice Francesco Boccia. A quanto risulta al Fatto, il ministro del Lavoro e vicesegretario Pd Andrea Orlando ha chiamato ieri il titolare dell’Economia Daniele Franco per avere chiarimenti sul ruolo del colosso e ha chiesto un incontro quanto prima. Il centrodestra tace.

Nessuno sapeva dell’incarico, anche buona parte della tecnostruttura ministeriale era all’oscuro. Il Tesoro ieri ha spiegato in una nota che gli aspetti decisionali dei progetti restano in capo ai ministeri, ma la società avrà il compito di “elaborare uno studio sui piani nazionali Next Generation già predisposti dagli altri Paesi dell’Ue e fornire un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”. Un incarico, se possibile, perfino più rilevante. Il contratto è però di 25 mila euro, soglia che non obbliga a fare una gara e nemmeno consultare altri concorrenti.

Lunedì Franco è atteso in audizione alle Camere dove sarà potrà chiarire diversi aspetti. I più critici puntano il dito sui guai del colosso (90 anni di storia, 10 miliardi di fatturato), che negli ultimi tempi è stato coinvolto in diversi scandali, dalla crisi dei farmaci oppioidi negli Usa (ha patteggiato una multa da 400 milioni), agli stretti legami con regimi autoritari come quello saudita di Mohammed bin Salman. McKinsey è stata poi arruolata da Macron per contribuire al piano vaccinale francese. Ma il discorso è più di sistema e riguarda il ruolo dei consulenti privati in una fase decisiva del piano che dovrà spendere 210 miliardi e regolare gli investimenti pubblici dei prossimi sei anni.

Appena insediatosi Draghi ha spiegato che il Pnrr lasciato dal governo Conte sarebbe stato rivisto dalla cabina di regia che coinvolge, tra gli altri, i ministeri della Transizione ecologica e di quella digitale. Il Parlamento sarebbe stato “informato costantemente”, ma le decisioni spettano a questa ristretta task force, supportata dai consulenti privati. McKinsey non è l’unico colosso coinvolto sul piano. Al lavoro ci sono anche i giganti della revisione come Ernest & Young e Pwc e il colosso Accenture, specializzato sul settore digitale (il capitolo vale il 20% dei fondi del Recovery). Molte delle “big four” (Kpmg, Deloitte, E&Y e Pwc) già lavorano con ministeri e Pa con appalti anche milionari. Stessa cosa vale per quelle della consulenza come Boston consulting, il cui managing director, Giuseppe Falco, sedeva nella task force presieduta da Vittorio Colao, oggi ministro della Transizione digitale ma cresciuto proprio in McKinsey, che avrebbe lavorato, insieme alle altre società, anche nella fase di redazione del famoso Piano Colao dell’estate scorsa, un embrione del Pnrr.

Di norma questi colossi lavorano nelle fasi preparatorie su singoli aspetti dei progetti, ora – ed è la vera novità del governo Draghi – vengono coinvolti nella fase più alta e finale delle decisioni, quella che conta. Si tratta di giganti con fatturati a sei zeri, i contratti poco onerosi per pagare i rimborsi spese mostrano che il vantaggio è di posizionamento: lavorare al più importante piano di investimenti pubblici degli ultimi decenni avendo accesso a un grande patrimonio informativo è il vero valore aggiunto di questi incarichi. Anche perché le grandi società lavorano soprattutto con i privati e i progetti vanno poi implementati e coinvolgeranno centinaia di imprese, dai grandi colossi alle Pmi.

D’altra parte l’uso esteso dei consulenti nelle grandi operazioni pubbliche che determinano le linee programmatiche per decenni è un po’ il modello Draghi da sempre, fin dalla grande stagione delle privatizzazioni di inizio anni 90, quando l’ex Bce – uno dei padri ideologici di quella fase – era direttore generale del Tesoro (lo diventa nel 1992 nel governo Ciampi). Un periodo in cui vennero assunti molti colossi in qualità di consulenti (“contractors”) per gestire le cessioni di pezzi dell’apparato industriale italiano, da Autostrade a Tim passando per l’Iri. Stando ai dati della Corte dei conti, per le 48 privatizzazioni direttamente effettuate dal Tesoro tra il 1994 e il 2008, si ricorse a 32 società a vario titolo (Advisor, Valutatore, Global coordinator, Intermediario) per un totale di 163 incarichi. Le operazioni di cessione dell’Iri furono 36, con dozzine di consulenti. Una lista che comprendeva i colossi del settore (Deloitte, Kpmg, E&y), ma anche società specializzate e numerose banche italiane ed estere, compresi i gruppi Usa Rotschild, Morgan Stanley e Goldman Sachs (che poi hanno aperto le porte ai dirigenti del Tesoro, lo stesso Draghi è finito poi in Goldman uscito dal ministero). Complessivamente, lo Stato spese per incarichi ai consulenti 2,2 miliardi di euro, quasi il 2% di quanto incassato dalle privatizzazioni (120 miliardi).

Analizzando i 15 anni di lavoro del “Comitato permanente di consulenza globale e di garanzia per le privatizzazioni”, dove Draghi sedette dal 1993 al 2002, in una corposa relazione la Corte dei conti nel 2012 ha stigmatizzato l’eccessivo ruolo riservato ai consulenti (“una cerchia alquanto ristretta”), accusando il comitato di essersi appiattito troppo sulle loro valutazioni generando spesso procedimenti caotici: “In alcuni dei casi esaminati – scrissero i magistrati contabili – si è avuta la conferma di una tendenza del Comitato ad avvalorare il parere già espresso dai consulenti dell’Amministrazione, finendo con l’assumere un ruolo quasi formale, senza svolgere sempre quella funzione incisiva di indirizzo che il quadro normativo gli attribuisce”.

Vale la pena di ricordare che oggi la partita del Recovery coinvolge le grandi partecipate statali e ammonta a 210 miliardi di euro. Il 2% stavolta varrebbe quattro miliardi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/03/07/mckinseyc-il-ritorno-del-metodo-draghi/6125004/