venerdì 15 febbraio 2019

Matteo Renzi è fermo al 4 dicembre. - Alessandro De Angelis



Nessuna autocritica, toni grillini col governo, pubblico è una curva. L'Altra strada è l'eterna riproposizione di sé come progetto politico.


Anche la presentazione del libro diventa uno spettacolo populista, che affoga la riflessione nei decibel di un comizio. L'Altra strada di Matteo Renzi è questo. Ciò che abbiamo visto finora: il Capo, un popolo sempre più stretto come una setta, nulla in mezzo. L'altra strada è l'opposizione come invettiva più che come alternativa, un progetto politico che non c'è, affogato in una acritica e parossistica riproposizione di sé, nel mito di un passato mitizzato e mai analizzato. Perché "l'autocritica" la fanno i comunisti. Ci mancava solo un bel vaffa: opposizione urlata, "cialtroni", "incompetenti", ancora "cialtroni", battutismo esasperato – massì, diciamolo – quasi grillina del metodo, compiaciuta che l'ululato sia sinonimo di forza. Che denuncia lo sfascio, e lì si ferma, nella saccente presunzione di avere il monopolio della competenza.
Sembra forza, in verità è una grande debolezza. Una debolezza grande quanto la rimozione di ciò che è stato. Non c'è niente da fare: l'orologio biologico e politico del renzismo è fermo al 4 dicembre, lutto mai elaborato che, come insegna Freud, alimenta reazioni sempre più rabbiose, perché la realtà, con i suoi complessi principi, è dolorosa da elaborare quanto l'entità di una sconfitta storica con cui Renzi non vuole fare i conti. Sconfitta che è una gigantesca rottura sentimentale tra Pd e paese, perdita di senso, smarrimento identitario. La rabbia, nel corso della presentazione del libro, esplode tra il pubblico, quando il direttore di questo giornale, pone la domanda sul punto dolente: "Ma se è andato tutto bene e questi sono incompetenti e cialtroni, come te lo spieghi che li ha votati la metà del paese?". La sala non gradisce, critica, qualcuno si alza, rumoreggia, contesta.
È l'istantanea di un legame settario col proprio popolo, perché il popolo, nel renzismo, non è una costruzione politica che si alimenta a pane e consapevolezza, ma è il pubblico di un talk, o se preferite una curva, una setta sempre più stretta che si nutre del culto del Capo e, per dirla col poeta, della favola bella che ieri ci illuse e che oggi ci illude. Per i pochi che restano, ovviamente. C'erano una volta i grandi partiti di massa che trasformarono le plebi in popolo, grandi protagonisti dell'alfabetizzazione democratica del paese. Ci sono oggi, nell'Italia del presentismo senza memoria, i partiti personali, che giocano a trasformare il popolo in plebi, grandi protagonisti di un analfabetismo di ritorno. È evidente, in un gioco di detti e non detti, smentite fatte apposta per alimentare l'attesa, che Renzi si appresta, dopo le Europee a farsi il suo, perché la separazione emotiva col Pd si è già consumata. Del tre, quattro, cinque per cento, quel che sarà. Perché, vuoi mettere, un ego così deve sentirsi padrone in casa sua. Ed è meglio comandare in una casa piccola che costruire, con gli altri, una casa più grande.
La domanda, in questa circostanza, l'ha posta Lucia Annunziata sul "perché" della sconfitta. L'avrebbe posta qualunque persona con i piedi piantati e per terra e la testa lucida, non alterata dal pregiudizio o dalla sbornia dell'adorazione fideistica. Resta, e resterà, senza riposta il perché cotanto pericolo al governo è stato vissuto dal paese come un vettore di cambiamento col Pd percepito come establishment e travolto. C'è un passaggio, del discorso di Renzi, che dice tutto, accompagnato dal boato di chi, nel mito di quegli anni, punta sul fallimento di questo Pd: "Mi si dice che noi non abbiamo fatto l'analisi della sconfitta. Noi non abbiamo fatto l'analisi della vittoria. Il 41 per cento che la sinistra ha perso alle europee, non l'ha mai visto nemmeno in cartolina. L'analisi di quel miracolo non è mai stata fatta. E noi il Pd lo abbiamo lasciato al 40 per cento col referendum". Sic!. Dunque è colpa di Mattarella che non ha concesso il voto anticipato, colpa di chi ha voluto e sostenuto il governo Gentiloni, di quegli "amici che hanno fatto carte false perché rimanessi in campo tranne poi fare di tutto per non mandarmi a votare", colpa sempre degli altri se, negli anni del renzismo, la sinistra ha perso il suo popolo, le periferie di Roma, Torino, o le tante periferie sociali che si sono rivoltate a un blairismo di maniera, negli anni della rivolta del ceto medio schiantato dalla grande crisi. E Renzi continua a riproporlo, in un discorso che, assieme alla sconfitta, rimuove la gigantesca domanda di protezione sociale che ha portato il Sud a votare per il reddito di cittadinanza, banalizzandolo come un aiuto ai fannulloni, a chi non vuole "studiare, faticare, perché tanto un modo si trova".
L'unica proposta concreta, nell'ambito di questo déjà vu, è – udite, udite – una commissione parlamentare d'inchiesta sulle fake news. Proposta che rivela l'essenza del ragionamento renziano e cioè che la sconfitta è dovuta non ad una incomprensione politica di ciò che è accaduto in questi anni, ma alla comunicazione, terreno sottovalutato e lasciato arare dalla macchina della propaganda leghista e pentastellata. Solito Renzi, ormai incapace di stupire, di cambiare passo, di crescere nell'elaborazione e nella consapevolezza, come un cantante che resta inchiodato alla canzone con cui vinse un Sanremo da giovane, di quelli che poi finiscono nei programmi sulle "meteore". L'aspettativa, che pure in alte epoche suscitò, è affogata nel reducismo. Non c'è, in due ore di comizio, un solo messaggio che non sia contro qualcuno, sia esso il governo, siano essi i "compagni" che "chiedono autocritica" e non c'è uno straccio di capacità di comprensione delle ragioni degli altri che poi, diceva quel comunista di Gramsci, è la chiave per costruire una egemonia. Altrimenti, la politica, racchiusa nella dimensione del potere, crolla con esso. Il film è stato già visto, il libro è stato già letto, tutto questo avvenire è già avvenuto e dimenticato dai più. Dalla sera del 4 dicembre.

mercoledì 13 febbraio 2019

Ue, Conte attaccato in Aula: ‘Io burattino? No, forse quelli al servizio delle lobby. Alcuni interventi offendono me e italiani’.

“Io burattino non lo sono. Interpreto e sono orgoglioso di rappresentare un intero popolo e di interpretare la voglia di cambiamento del popolo italiano e di sintetizzare una linea politica di un governo che non risponde alle lobby. Forse i burattini sono coloro che rispondono a lobby e comitati d’affari”. Lo afferma, rispondendo all’attacco di Guy Verhofstadt, il premier Giuseppe Conte alla plenaria del Parlamento Ue.  “Alcuni interventi non andrebbero commentati, perché hanno pensato di offendere non solo il sottoscritto ma l’intero popolo che rappresento”.
Poi c’è stato un botta e risposta tra l’europarlamentare Pd Daniele Viotti e lo stesso Giuseppe Conte. Viotti, tra i tanti eurodeputati critici intervenuti in Aula, ha letto i numeri, molto bassi, delle presenze dei ministri del governo giallo-verde alle riunioni del Consiglio europeo. “Chiedete scusa, all’Italia serve un governo presente in Europa”, ha attaccato Viotti. “Grammatica vuole che un governo possa essere rappresentato anche da un sottosegretario o da un delegato”, ha sottolineato Conte nella sua replica, non risparmiando una frecciata al Pd: “Lei è un esponente di un partito che non ha presidiato adeguatamente per l’Ema e ne paghiamo ancora le conseguenze”, ha affermato il premier rivolgendosi a Viotti.

martedì 12 febbraio 2019

Abruzzo, il M5S non è davvero arrivato terzo: da solo elegge 7 consiglieri, il centrosinistra (con 8 liste) 6.



Non corrisponde al vero la narrazione di gran parte dell'informazione secondo cui, alle elezioni regionali in Abruzzo, il Movimento Cinque Stelle si sarebbe classificato terzo. Il centrodestra ha sì raccolto il 48,03%, il centrosinistra 31,28% e i pentastellati il 20,20%, ma questi ultimi - con una lista sola - hanno ottenuto 7 consiglieri (uno in più della legislatura precedente), mentre il centrosinistra solamente 6 (4 Pd, 1 Legnini Presidente, 1 Abruzzo in Comune): 5 delle 8 liste della coalizione, infatti, hanno drenato voti al candidato presidente, ma non sono riuscite ad eleggere nessun consigliere.

"In Abruzzo ci saremmo aspettati di più, anche se i numeri ci dicono che non abbiamo perso", ha commentato via Facebook il deputato M5S Francesco D'Uva. Che ha aggiunto: "Ovviamente accettiamo democraticamente il verdetto delle urne, consci del fatto che come in ogni competizione amministrativa e regionale il MoVimento 5 Stelle si ritrova a dover fronteggiare accozzaglie di coalizioni fatte da 'portatori di voti' che passano da una parte all’altra, trascinando con sé migliaia di preferenze personali".

M5S: un gigante con i piedi di argilla. - Rosanna Spadini



Grande festa oggi per tutto il mainstream, perché in Abruzzo ha perso il M5S e ha vinto la Lega. Esultano tutti i media neoliberisti, rappresentati da Gruber, Mentana, Vermigli, Vespa, Merlino, Panella… gongolano i politici dell’ancien régime, come Cacciari, Renzi, Berlusca &C… tripudiano le lobby affaristiche esperte di privatizzazioni, perché Salvini è il loro naturale interlocutore.
Esultano dunque i gufi e gli sciacalli della stampa e della politica italiana, per la vittoria in Abruzzo del Cdx, con Marco Marsilio il nuovo governatore, che ottiene il 48% dei voti, poi a seguire Giovanni Legnini Csx molto distanziato al 31,3%,  e infine Sara Marcozzi del M5S al 20,2%.
Esultano anche gli oligarchi e i tangentari, che denunciano il fallimento del MoV in Abruzzo, ricordando che solo un anno fa alle politiche era primo partito in regione con quasi il 40% dei voti… che ci azzecchino poi le regionali con le politiche sarebbe interessante saperlo.
Annoiato e divertito appare invece Andrea Scanzi, che dice: “Il centrodestra coincide con Lega e Salvini. E’ il più forte, vincerà tutto e sarà il prossimo Presidente del Consiglio.” Daje!
Mentre i vertici del MoV probabilmente minimizzeranno: “Sono solo regionali, abbiamo confermato i dati del 2014”. Vero che non si possono amalgamare completamente regionali con politiche, perché per le ultime il MoV non ha problemi a fare ampie scorpacciate di voti, ma per le amministrative in genere la formula da adottare dovrebbe essere completamente riveduta e corretta.
Il MoV è un gigante politico a livello nazionale, ma sfiora il territorio con i suoi piedini di argilla, pronti a sgretolarsi al primo vento avverso. Piedini di argilla, di ceramica, di porcellana, adatti per camminare sulle punte, su lastre di ghiaccio facilmente scalfibili, senza calcare troppo i sentieri regionali e le vie cittadine, senza disturbare troppo il marasma affaristico mafioso gestito dai partiti, senza troppo incidere sui legami d’interesse tra la casta e le lobby privatistiche.
Ci sono molte ragioni per la débâcle del MoV alle regionali abruzzesi, sempre le stesse, sempre quelle, già presenti da tempo nell’agenda di chi si occupa di politica, ma che probabilmente i vertici non hanno ben chiare, o forse semplicemente vogliono coscientemente ignorare.
La strategia del non-statuto, del non-regolamento, dell’uno vale uno, poteva avere un senso nei primi anni dell’affermazione politica del MoV, quando ancora stava vivendo la fase della crescita, ma non aveva ancora acquisito importanti postazioni di governo.
Ora il MoV sta governando il Paese, alleato con una forza politica complementare ma anche allo stesso tempo antitetica, quindi si dovrebbe dotare di rappresentanze locali all’altezza del compito, capaci e competenti, e non dei soliti improvvisati avventurieri, che si limitano a postare copia e incolla su FB, organizzare banchetti per le manifestazioni paesane con la presenza di qualche stranito portavoce, e di 4 gatti come pubblico.
Piazze stracolme quindi quando parlano i big, Grillo, Di Maio e Dibba… sale mezze vuote invece quando qualche meetup organizza incontri con esperti e cittadini. Un’incongruenza che corre subito agli occhi, e svela il vero tallone d’Achille del MoV: il suo mancato radicamento sul territorio.
L’organizzazione interna infatti è (dis)ordinata in termini assolutamente anarchici, i vari meetup nati sul territorio sono destinati spesso ad entrare in conflitto tra di loro, perché rivaleggiano per la vittoria di un loro candidato, e gareggiano per boicottare tutti gli altri. Mancano completamente i legami tra i vertici e la base, tranne che in alcuni casi, in cui una delle correnti abbia individuato un soggetto apparentemente vincente, magari anche privo di competenze e professionalità, ma che dovrà rispondere unicamente al prototipo dello yes man, e piegarsi ai voleri dei capi bastone di quella circoscrizione.
Questo anarchismo ottuso e suicida favorisce necessariamente figure opache, prive di qualità professionali, disposte a subire i diktat dei loro capi pur di arrivare a rivestire qualche ruolo politico, e pur essendo assolutamente ignoranti in ambito storico politico, ma pronte a documentarsi all’occasione e prepararsi lo spot del momento.
Non è certo il caso di Sara Marcozzi, una persona delle più competenti e preparate, ma è solo l’eccezione che conferma la regola. Di conseguenza il MoV lievita a livello nazionale con il suo 32,5% dei consensi, ed è sistematicamente condannato a perdere quasi tutte le amministrative.
Una sorta di triste avatar postmoderno del David di Michelangelo, il mitico pastore che osò sfidare il temibile Golia, scolpito però con una testa troppo pesante e ingombrante per un corpo decisamente troppo fragile ed esile.  Troppo ingombrante infatti è sembrato il MoV ai padroni del vapore, che sono stati in grado di pilotare perfino l’ultimo Sanremo, con la vittoria del sardo egiziano Mamhood, per affermare il loro credo migratorio, mentre la vittoria di Salvini è apparsa pienamente funzionale al sistema.
Le élites affaristiche sono per il Sì-Tav (come Salvini), adorano il golpista massone venezuelano Guaidò (come Salvini), difendono Macron contro le proteste dei Gilets Jaunes (come Salvini), hanno boicottato il Dl Dignità (annacquato dai leghisti, ma che limita il precariato, reintroduce la Cassa Integrazione straordinaria e l’art.18), hanno sabotato il ddl Anticorruzione (con agenti infiltrati, aumenti di pena e premi ai pentiti), hanno intralciato il blocca-prescrizione (dal 1° gennaio 2020), il veto al nuovo voto di scambio politico-mafioso, l’abolizione dei vitalizi, i fondi in manovra per RdC, i rimborsi ai truffati dalle banche, lo stop al bavaglio sulle intercettazioni e alla svuotacarceri.
Poi non bastasse sono scese in piazza insieme con i sindacati contro il RdC e l’aumento delle pensioni minime a 780€, caso unico nella storia d’Italia, in cui le élites affaristiche manifestano insieme con i sindacati.
Il M5S si afferma così come unica forza antisistema, che combatte contro le lobby di potere (Iren, inceneritori, Tav, Mose, banche…), mentre la Lega appare come un partito pienamente integrato nel sistema neoliberista, sostiene le privatizzazioni al pari di Confindustria (sanità, welfare, concessioni), asseconda le cattedrali nel deserto delle grandi opere inutili… ma nonostante ciò il cdx ha vinto la regione Abruzzo, quella dei terremotati de L’Aquila, miseramente frodati dalle news town di plastica di Berlusconi.
La guerra di Davide contro Golia è una guerra all’ultimo sangue, cruda e violenta, quindi non può accontentarsi di candidati inesperti e incapaci, ignari delle battaglie pregresse, privi di un attivismo incisivo e di una dialettica eloquente, capaci solo di fare i lacché di sciacalli dorati, attorniati da altri veri sciacalli pronti a mordere mortalmente la preda.

Perché allora dovrebbe essere la stessa cosa votare Lega o votare M5S? Dato che la guerra contro il sistema la fa solo il MoV, ma sarebbe decisamente più determinante se finalmente si risolvesse l’anarchismo parassitario e clientelare dell’organizzazione interna. Arridaje!

Perdere l'onore. - Marco Travaglio

Risultati immagini per elezioni abruzzo

Fra le tante spiegazioni possibili del voto in Abruzzo, col trionfo del centrodestra e il crollo dei 5Stelle e del Pd, la più semplice ed evidente è questa: cinque anni fa Salvini non c’era, il suo partito si chiamava ancora Lega Nord e da quelle parti non si faceva proprio vedere.
L’uomo forte, l’uomo del momento, era l’altro Matteo, che portava il Pd al 40,8% alle Europee e trascinava D’Alfonso al 46% strappando la Regione alla destra.
Ora l’uomo forte, l’uomo del momento, è Salvini, che porta la Lega da zero al 27% e quasi raddoppia i consensi in un anno (il 4 marzo scorso era al 14), in linea con i sondaggi nazionali.
Il Pd ha poco da esultare: nel 2014 era primo partito al 25,5, nel 2018 era terzo col 14,3 dietro M5S e quasi alla pari di FI, ora – dopo cinque anni di governo – resta terzo ma all’11,3, lontanissimo dalla Lega e perfino dal M5S. Che col suo 19,5 appare come l’unico sconfitto solo perché Legnini è riuscito a mascherare l’ennesima débâcle dem con ben sette liste civiche o civetta.
Ma ormai l’allergia dei vertici pidini all’autocritica non fa più notizia: si attendono ancora le analisi delle disfatte del 2016, del 2017 e del 2018, a parte quella renziana secondo cui non è il Pd che sbaglia, ma gli elettori. I quali, infatti, continuano a sbagliare.
Dalle prime reazioni alla batosta, anche i 5Stelle paiono contagiati dal virus dei facili alibi: “Voto locale”, “trascurabile”, “il governo non c’entra”, “nulla da rimproverarci”, “colpa della legge elettorale”, “il Pd ha perso di più”, “mantenuti i voti di cinque anni fa” e altre cazzate.
È vero, il voto regionale con le preferenze e le liste civetta penalizza il voto di opinione rispetto a quello controllato, clientelare, compravenduto: ma qui un bel po’ di voti di opinione sono andati alla Lega.
È vero, la regola dei due mandati scoraggia i candidati migliori dal giocarsi un bonus in un’elezione locale: ma era vero già in passato e nessuno ha toccato quel tabù.
È vero, l’assenza di una struttura solida e radicata penalizza il M5S alle Amministrative e premia i partiti organizzati: ma anche questo è un problema antico e non si vede cosa impedisca ai 5Stelle di organizzarsi meglio, anche con scuole di politica, per darsi uno straccio di classe dirigente un po’ meno casuale e improvvisata.
Poi c’è il giudizio della gente sugli otto mesi di governo con la Lega, che in Abruzzo ha influito in parte, ma condizionerà le Europee. Su questo Di Maio&C. dovrebbero farsi un esame di coscienza. Prendersela con la stampa che gonfia Salvini come la rana di Fedro per screditare il M5S ha poco senso: chi fa politica contro tutto e tutti non può stupirsi di avere contro tutto e tutti.
Era così anche un anno fa, eppure i 5Stelle balzarono quasi al 33%. Nell’ultimo mese prima aggiunsero un buon 5% al 27-28 fisso dei sondaggi. E fu merito della svolta governista, plasticamente raffigurata dalla presentazione all’americana della squadra di governo: tutte personalità competenti e titolate, da cui poi Di Maio pescò il premier Conte, la ministra Trenta e vari sottosegretari.
Il fatto che ora Conte sia il politico più stimato dagli italiani, appaiato o addirittura davanti a Salvini, la dice lunga su ciò che deve fare il M5S per recuperare terreno: impresa non impossibile con un elettorato così liquido. Ma a patto di imboccare la strada giusta.
Buttar giù il governo così popolare alla vigilia di appuntamenti cruciali come Europee, no al Tav e spin off del reddito di cittadinanza, sarebbe un autogol. Ma inseguire Salvini sul suo terreno, le gare di rutti, rincorrendo ogni sua sparata per farne una più grossa, è inutile: quella partita la vincerà sempre lui.
L’unica strada è lavorare sodo e parlare poco restando fedeli ai valori originari: sul breve periodo può non pagare, ma potrebbe dare frutti sul lungo, quando svanirà l’infatuazione per l’uomo forte che parla tanto e fa poco (come già B. e Renzi).
Esempio. 
La critica a Bankitalia è sacrosanta, viste le scandalose culpae in vigilando di Visco&C.; ma, prima di opporsi al vicedirettore Signorini e prossimamente al dg Rossi, servono alternative credibili.
Nel 2005 due coraggiosi ispettori di Palazzo Koch, Giovanni Castaldi e Claudio Clemente, bocciarono l’assalto del banchiere di Lodi Gianpiero Fiorani ad Antonveneta, benedetta dal governatore Fazio e dal fronte trasversale FI-Lega-Ds che sponsorizzava le scalate parallele di Unipol a Bnl e dei furbetti Ricucci&C. al Corriere.
Partì l’inchiesta, Fazio si dimise, ma Clemente e Castaldo, anziché premiati, furono degradati. Che aspetta il “governo del cambiamento” a fare i loro nomi per una scelta interna di forte discontinuità e trasparenza?
Altro esempio. L’analisi costi-benefici dei tecnici del governo (non del M5S) sul Tav è devastante e incompatibile con qualsiasi compromesso: va fatta conoscere all’opinione pubblica e Salvini va richiamato agli impegni presi nel Contratto di governo. Che, in caso contrario, non ha più ragione di esistere.
Ultimo esempio: il voto sull’autorizzazione a procedere per Salvini. In passato, di un ministro indagato per sequestro di persona, i 5Stelle avrebbero chiesto le dimissioni. Ora non possono perché hanno condiviso la sua scelta sulla nave Diciotti e la rivendicano: ma negare ai giudici il diritto-dovere di stabilire se fu lecita o illecita, specie dopo la relazione-autodenuncia di Conte, Di Maio e Toninelli, sarebbe assurdo.
Trasparenza, lotta agli sprechi e legge uguale per tutti sono i valori fondativi del Movimento e le ragioni del suo successo: derogare a uno solo di quei tre principi sarebbe imperdonabile.
Perdere voti per restare se stessi, accontentando alcuni e scontentando altri con il reddito di cittadinanza o con altre scelte tanto doverose quanto divisive, è un onore.
Il vero disonore è perdere voti per aver perso se stessi.


Il fatto Quotidiano del 12 febbraio 2019

venerdì 8 febbraio 2019

Beppino Englaro: la mia battaglia per Eluana, anche grazie a lei lʼItalia ha una legge sul "fine vita".

Beppino Englaro: la mia battaglia per Eluana, anche grazie a lei l'Italia ha una legge sul "fine vita"

Il padre di Eluana ricorda le battaglie giudiziarie: "Lei è stata una vittima sacrificale perché allora la medicina lʼha condannata a vivere in una condizione alla quale ha sempre detto ʼnoʼ".


E' stata una battaglia lunga e difficile, si è pagato un "prezzo altissimo" ma per il "sorriso radioso" della figlia EluanaBeppino Englaro rifarebbe tutto quello che ha fatto. Nel decimo anniversario della morte, il suo è stato "un grande caso costituzionale", dice Beppino, che ha diviso il Paese costringendolo a fare una riflessione. Allora "gli italiani non erano pronti ad accettare la sua scelta - prosegue - ora c'è una legge che è ben fatta, merita un plauso", nonostante alcuni nodi burocratici.

I ricordi della figlia e della sua dolorosa vicenda sono indelebili: una carrellata di immagini nitide gli ritornano in mente, soprattutto non dimenticherà quel 9 febbraio 2009 quando, dopo la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiale autorizzata dalla magistratura, Eluana morì in una clinica di Udine. Era in uno stato vegetativo permanente, conseguenza di un terribile incidente d'auto che nel gennaio del 1992 la fece finire in coma irreversibile.

"E' stata una vittima sacrificale - spiega all'agenzia di stampa Ansa - perché allora la medicina l'ha condannata a vivere in una condizione alla quale ha sempre detto 'no grazie'".

Undici anni di processi, 15 sentenze - "Non aveva il tabù della morte - racconta Beppino - e noi genitori sapevano che "la strada imboccata era fin da subito quella giusta. Eluana aveva idee ben chiare riguardo alla sua vita, e non potevamo fare altro". Non la dolce morte in qualche clinica svizzera, ma uno stop a una "vita-non vita" entro il recinto della "legalità", un lungo e tortuoso percorso: undici anni di processi, quindici sentenze dei giudici italiani e una della Corte Europea dei diritti dell'uomo, l'opposizione del governo di centrodestra in carica ai tempi e le proteste, i sit-in, le manifestazioni e gli appelli di numerose associazioni 'pro vita'. Con l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in silenzio forzato, ufficialmente obbligato ad essere spettatore fino a quando, qualche giorno prima della morte di Eluana, il suo rifiuto di firmare il decreto legge con cui il Consiglio dei Ministri avrebbe voluto bloccare l'interruzione della nutrizione forzata perché incostituzionale.

"Come genitori, abbiamo fatto tutto quello che potevamo e nel migliore dei modi, credo, ma il prezzo pagato è stato altissimo. Sua madre, mia moglie, che non riusciva a staccarsi da lei, si è consumata come una candela", si è ammalata e qualche anno dopo se n'è andata.

"Ho sempre avuto tutti contro - ammette -. Ma se non fossi andato avanti per quella strada avrei avuto contro Beppino Englaro e questa sarebbe stata la mia fine. Invece sono sempre stato e sono tuttora in pace con me stesso: ho liberato mia figlia".

E da allora, riconosce Beppino, "l'opinione pubblica è andata avanti e ha una maggior sensibilità" verso certi temi e adesso c'è anche "la legge sul fine vita". Questa legge, ammette Englaro, è nata anche grazie al "gran contributo" dato dal caso di sua figlia: "Ha una impostazione nella sostanza giusta. Certo ci sono questioni burocratiche da superare, ma consente finalmente di esercitare la libertà di autodeterminazione".

Taglio parlamentari, primo ok Senato. Pd invoca ‘resistenza civile’. M5s: ‘Volevano lo Stato su misura, non meno costi’.

Taglio parlamentari, primo ok Senato. Pd invoca ‘resistenza civile’. M5s: ‘Volevano lo Stato su misura, non meno costi’

Il disegno di legge di riforma costituzionale ha superato il primo esame a Palazzo Madama (mancano ora altre tre letture). Il M5s auspicava l'accordo di tutte le forze politiche, ma i democratici hanno deciso di opporsi definendo il provvedimento "un attacco alla democrazia". In Aula si è presentato anche Luigi Di Maio: "Volevo godermi la scena. Renzi dimostra che non voleva tagliare i costi della politica, ma avere uno Stato su misura in cui fare l'imperatore". A favore Fdi e Forza Italia.

Il Senato ha dato il primo via libera a “tagliare se stesso”, ovvero a ridurre i parlamentari da 945 a 600. Ma nonostante sulla carta ci si aspettasse il voto unanime da parte dei partiti, che da sempre (chi più chi meno) si sono schierati per rivedere le composizioni delle Camere, ci sono stati 54 no e 4 astenuti. Hanno votato contro il ddl di riforma costituzionale i senatori di Leu e Pd. In Aula anche Luigi Di Maio: “Volevo godermi la scena”, ha scritto poi su Facebook. “Renzi dimostra che non voleva tagliare i costi, ma farsi uno Stato su misura in cui fare l’imperatore”. I democratici, che in un primo momento sembrava si dovessero astenere, hanno scelto di opporsi alla riforma che, hanno dichiarato, secondo loro “è un taglio alla democrazia”. La senatrice Simona Malpezzi su Twitter ha invocato “la resistenza civile”: “Volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, ha scritto, “invece lo stanno chiudendo per buttare via le chiavi e con esse la nostra democrazia. Altro che taglia poltrone al Senato, oggi hanno incominciato a tagliare la libertà dei cittadini. Vergogna, resistenza civile“. Il gruppo Pd al Senato sta anche valutando di fare ricorso alla Corte costituzionale dopo che sono stati dichiarati inammissibili gli emendamenti al ddl. I democratici avevano proposto di legare il taglio dei parlamentari alla trasformazione del Senato in una Camera delle Autonomie, ma la proposta è stata dichiarata inammissibile dalla presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati. Di qui il loro no. In favore della legge hanno votato M5s e Lega, promotori del testo, ma anche Forza Italia e Fratelli d’Italia, che hanno motivato la scelta come “apertura di credito” alla maggioranza sul tema delle riforma, specificando che si richiederà una verifica nei passaggi successivi. Del gruppo delle Autonomie, a differenza di quanto sembrava in un primo momento, hanno votato contro Bressa e Casini. La Lega, con Calderoli, ha sottolineato piuttosto la maggior efficienza per due Camere più snelle: lo dimostra il fatto, ha detto, che già oggi il Senato fa le stesse cose della Camera con la metà degli eletti. “Il cavallo più magro corre di più”, ha affermato. Ma a parte un battagliero Calderoli la Lega è stata silente e non ha mandato nessuno dei suoi ministri in Aula.
Volevano aprire il come una scatoletta di tonno invece lo stanno chiudendo per buttare via le chiavi e con esse la nostra . Altro che : al oggi hanno incominciato a tagliare la libertà dei cittadini.
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In Aula per l’occasione, in sostegno di quella che da sempre è una delle leggi bandiera dei 5 stelle, si è presentato Luigi Di Maio. Il vicepremier M5s ha poi scritto su Facebook: “Servono altri tre passaggi per farla diventare legge”, ha detto. “Il Pd ha votato contro, dopo che per tre anni quel signore che non è neppure il caso di nominare (Renzi ndr.) ci ha trascinato in quella riforma dimostrando così che non gliene fregava niente di tagliare i costi della politica. Gli fregava solo una cosa: di costruirsi un modello di Stato su misura in cui lui poteva fare l’imperatore senza neanche andare a votare perché non aboliva il Senato ma aboliva il voto per i senatori, aboliva la possibilità di eleggere i nostro senatori”. Quindi ha concluso: “Oggi sono andato al Senato e mi sono voluto godere la scena, ho visto i senatori tagliare se stessi e ho visto quelli di Fi e Fdi dire ‘non siamo d’accordo però la votiamo’ dimostrando un minimo di sensibilità con il popolo italiano. Ma come al solito, allo stupore non c’è mai fine, ho visto il Pd votare contro”.
Sulla carta ci si aspettava che fossero tutti d’accordo. Come oggi questa maggioranza, in passato anche Partito democratico e prima ancora Forza Italia avevano proposto di ridurre il numero degli eletti se non di abolire proprio l’elezione del Senato. Ma, come emerso già chiaramente nelle scorse ore con le proteste del Pd che ha parlato di “assassinio della democrazia”, il voto unanime sul disegno di legge di riforma costituzionale auspicato dal ministro Riccardo Fraccaro resta un miraggio. La conferma è arrivata nella tarda serata di mercoledì 6 febbraio, quando i senatori democratici si sono incontrati e hanno ribadito la linea del no al provvedimento. L’approvazione all’unanimità avrebbe evitato il passaggio del referendum, non previsto in caso di consenso di due terzi dell’Aula in seconda lettura. Anche oggi il Partito democratico ha ribadito la contrarietà al provvedimento: “Di Maio annuncia una festa per la prima lettura del ddl che chiama taglia poltrone”, ha scritto su Twitter il capogruppo al Senato Andrea Marcucci. “State attenti perché non riducono il numero dei parlamentari, ma cominciano a tagliare la democrazia. E poi ultima festa del M5s è stata per legge bilancio, e poi il Pil è crollato”.
Hanno invece votato con la maggioranza Forza Italia e Fratelli d’Italia. Anche se non sono mancati i dissidenti. L’unico del gruppo a votare contro il ddl è stato l’azzurro Raffaele Fantetti. Il senatore, eletto all’estero, ha sottolineato che il taglio comporterebbe una sottorappresentazione dei cittadini italiani residenti all’estero. Si sono invece astenuti gli “azzurri” Sandro Biasotti, Stefania Craxi e Sandra Lonardo, nonché Isabella Rauti di Fdi. Non hanno invece preso parte al voto, annunciandolo in aula, Andrea Cangini (Fi) e Andrea De Bertoldi (Fdi). Hanno spiegato di essere contrari al testo, ma anche di evitare il “no” anche perché i loro gruppi hanno votato per il ddl come gesto di “apertura di credito” verso la maggioranza sul tema più ampio delle riforme, da verificare nei successivi passaggi.
Cosa prevede il ddl: confronto con le altre democrazie. Il provvedimento prevede la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e del numero dei senatori eletti da 315 a 200: in totale da 945 a 600. Inoltre il numero dei senatori di nomina presidenziale non potrebbe essere superiore a cinque. La modifica costituzionale si applica dal primo scioglimento o cessazione delle Camere, ma non prima di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge. Il Pd ha parlato di “taglio della democrazia” mentre per Fi “serve solo a distruggere il Parlamento”. Negli Stati Uniti la Camera dei rappresentanti è composta da 435 membri e il Senato da 100. In Spagna i cittadini eleggono i membri del Congresso dei deputati (350) e 208 senatori su 266 totali. I francesi eleggono i membri dell’Assemblea nazionale, 577 deputati, mentre il Senato (che non vota la fiducia) ha 348 grandi elettori. Sistema simile in Germania, dove il Bundestag conta ben 709 eletti (ma è un numero variabile), mentre la Camera Alta, il Bundesrat, appena 69. Nel Regno Unito la Camera dei comuni, ramo dominante rispetto a quella dei Lord, conta 650 parlamentari.
E con il taglio parte la riforma per adeguare il Rosatellum. Dopo l’approvazione della riforma che taglia il numero di senatori e deputati, il Senato ha iniziato l’esame della legge elettorale che dovrebbe essere applicata in conseguenza della riduzione dei parlamentari, il cosiddetto Rosatellum ter. Il testo, presentato da M5s e Calderoli, prevede infatti di applicare l’attuale sistema elettorale – il Rosatellum – anche al caso di un minor numero di eletti nei due rami del Parlamento. Il disegno di legge contiene una delega al governo a ridisegnare i collegi che, ovviamente saranno meno numerosi e più grandi. La delega riguarda sia i collegi uninominali che quelli plurinominali proporzionali. Nella seduta odierna si svolgerà solo la discussione generale.