giovedì 1 agosto 2019

Vieni avanti, gretino. - Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano del 1 Agosto 2019



Sollevando per un attimo il capino dai dati elettorali, che segnalano cinque anni di spaventosa e ininterrotta emorragia di voti, gli strateghi del Pd devono essersi accorti che le pochissime sinistre vincenti in Europa sono quelle ambientaliste: di nome (tutti i Verdi tranne quelli italiani) o di fatto. Così, astuti come volpi, si sono domandati come intercettare l’onda green che percorre il mondo intero, soprattutto fra i giovani. L’alternativa era semplice: o diventare verdi, o travestirsi da verdi. Indovinate quale hanno scelto? La seconda. E si sono comprati il costume di carnevale da Greta Thunberg. La prossima festa dell’Unità di Milano sarà “la prima sostenibile e plastic free”. 
Mecojoni!! E lo slogan della “Costituente delle idee” lanciata da Zingaretti nel Paese all’insaputa del Paese è: “Riaccendiamo l’Italia. Verde, giusta, competitiva”. Da pelle d’oca. Veltroni ha capito benissimo che per il suo Pd non c’è speranza: infatti, invece di suggerirgli di diventare ambientalista, ha proposto di fondare un altro partito ad hoc con l’acronimo “Ali”. Che non c’entra con Alitalia, ma con “ambiente, istruzione, lavoro”. Non vi vengono i brividi? La stessa idea l’aveva avuta Sala, il cui amore per l’ambiente è tuttora visibile a Rho-Pero, nella landa desolata del fu Expo. GreenZinga, frattanto, per non farsi scavalcare, gira l’Italia con proposte tipo “destinare 50 miliardi della prossima legge di bilancio a un fondo verde per iniziare un green new deal italiano”: tanto la legge di Bilancio non la fa mica lui, il che gli risparmia il fastidio di trovare le coperture.
Ma, casomai qualcuno avesse creduto davvero alla svolta ambientalista dell’ala sinistra del Partito Trasversale del Cemento, il capogruppo Graziano Delrio ha subito provveduto a smascherare la carnevalata con una strabiliante intervista a Repubblica. Il tema è il Tav Torino-Lione (che non arriverà né a Torino né a Lione, visto che non prevede alcun collegamento ad alta velocità ai due capoluoghi, ma solo un buco tra Bussoleno e Saint Jean de Maurienne). E Delrio è lievemente imbarazzato di ritrovarsi il 7 agosto al Senato sulle stesse posizioni della Lega (per la verità anche di FI, ma con quella il Pd ci ha governato due volte e mezza e ormai è abituato). Così s’è affrettato a prendere le distanze: “La nostra posizione sulla Tav (anche per lui treno è un sostantivo femminile, ndr) è diversa da quella della Lega che ha fatto perdere un anno”. Cioè: quei cementificatori della Lega vogliono il Tav con un anno di ritardo, mentre gli ambientalisti del Pd sarebbero partiti con un anno di anticipo.

Poi via alle supercazzole: “l’alta velocità serve a connettere il paese” (anzi i paesi: quello di Bussoleno e quello di Saint Jean) e “a dare opportunità di lavoro” (450 operai per un cantiere della durata di 15 anni e del costo di 9,6 miliardi); “presenta grandi benefici” (per due o tre appaltatori); “tutti gli studi dimostrano che va fatta” (tranne l’analisi costi-benefici del governo italiano e l’ultimo report della Corte dei Conti francese, che stimano perdite miliardarie); “da ministro ho firmato gli accordi per la Tav” (quelli che accollano all’Italia il 57,9% e alla Francia il 42,1 del buco di 57,5 km nelle Alpi che insiste per l’80% sul territorio francese e per il 20 su quello italiano); “l’opera finanziata dai governi di centrosinistra ha visto una forte riduzione dei costi” (per Macron) e “dell’impatto ambientale” (il cantiere regalerà per 15 anni alla Val Susa appena 12 milioni di tonnellate di Co2, più le polveri sottili, altre emissioni venefiche, cemento, acciaio, rame, amianto e materiali radioattivi, detriti, polveri e camion). Il tutto per duplicare inutilmente una linea merci semideserta (i treni Torino-Modane viaggiano vuoti al 90%) e una linea passeggeri veloce ed efficiente ma tutt’altro che satura (il Tgv). Infatti al Senato il Green Pd voterà contro la mozione No Tav del M5S esattamente come la Lega.

Non che sia una novità. Quando i riflettori erano puntati altrove, Pd, Lega e FI hanno sempre votato insieme per gli inceneritori, le trivelle petrolifere per terra e per mare, il Tap, il Terzo Valico, le Pedemontane e altre opere tanto inutili e costose quanto inquinanti previste dal mitico Sblocca-Italia di Renzi&Delrio. Pazienza se l’Agenzia dell’Energia, contro il clima impazzito, chiede di lasciare sottoterra l’80% dei fossili: altro che petrolio e gasdotti. Tre anni fa questi trafelati neo-gretini bloccarono pure il decreto sulle energie rinnovabili e fecero fallire il referendum sulle trivelle in mare incitando all’astensione con FI e a Napolitano (allora Salvini indossava la felpa No Triv e 13 milioni di italiani, perlopiù di sinistra, bocciarono la politica energetica del Pd, cioè dell’Eni e delle sue consorelle). 
E approvarono gli ultimi decreti Salva-Ilva, in tutto 12 voluti da destra e sinistra per neutralizzare le indagini della magistratura e garantire l’impunità ai vertici e ai commissari dell’acciaieria avvelenatrice. 
Ancora a marzo, mentre GreenZinga dedicava a Greta la sua elezione a segretario e si recava in pellegrinaggio al finto cantiere del Tav, il sindaco Pd di Ravenna sfilava in piazza con l’Eni (fra le proteste di Legambiente) contro il blocco delle nuove estrazioni petrolifere imposto dal governo Conte su pressione di quei manigoldi dei 5Stelle. 
Idem in Europa, dove – secondo un recente studio del Wwf – il Pd si è opposto alla richiesta di spendere il 40% delle risorse finanziarie Ue per attuare gli Accordi di Parigi sul clima, alla proposta di finanziare la gestione delle aree naturali protette e alla norma che aboliva i sussidi ai combustibili fossili (favorevoli solo M5S e, nei primi due casi, Sinistra Italiana). É proprio un’attrazione fatale: tra fossili, ci si intende.

https://infosannio.wordpress.com/2019/08/01/vieni-avanti-gretino-2/

Il Movimento per fermare Salvini. - Tommaso Merlo

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Zingaretti ha sospeso gli esponenti del Pd collusi con la N’ndrangheta in Calabria. Nel frattempo, passata la tempesta di Bibbiano, il Pd balza agli onori delle cronache per Gozi. Dopo Carla Bruni è lui la nuova première dame di Francia. 
Il Pd è un partito politicamente già defunto tenuto in vita artificialmente da una banda di dirigenti incarogniti e da uno scenario politico favorevolissimo. Dopo il 4 marzo, il Pd è rimasto l’unico partito “in teoria” all’opposizione di Salvini. Da solo occupa uno spazio enorme ed ha tutti i giornalai a favore. Per questo resiste intorno al venti. Se non va oltre, è perché è un partito marcio che ha perso ogni credibilità e si trascina da uno scandalo all’altro in attesa di quello letale. Ma chi detesta Salvini e a chi non basta la formula del contratto, non ha alternative. O sta a casa o vota la vecchia sinistra. Se il Movimento non fosse andato al governo con Salvini, il Pd avrebbe fatto la fine di Forza Italia, sarebbe stato prosciugato dal nuovo corso e si sarebbe ridotto intorno al cinque percento. Come successo a destra, cioè, il Movimento avrebbe assorbito tutti i consensi di quella che un tempo fu la sinistra coalizzando tutti gli oppositori di Salvini. Ed invece le cose sono andate diversamente. Per senso di responsabilità dopo aver preso quello storico 32% e per legittima ansia di dimostrare il proprio valore dopo anni di calunnie, il Movimento ha firmato un contratto con l’unica forza che ci è stata, la Lega. E stando ai fatti, la sfida è stata vinta. Il Movimento ha concluso molto di più della Lega e senza rubare. Stando però ai consensi, il Movimento si è dissanguato finendo sotto al Pd. Il perché sta tutto in Salvini che non è espressione di una destra tradizionale o moderata, Salvini è fautore della destra più becera mai vista in Italia. Una destra volgare ed estremista del tutto incompatibile con gran parte degli elettori del Movimento. Incompatibile politicamente, incompatibile culturalmente. E nemmeno la formula del contratto è bastata a contenere tale ripulsione. Anche perché Salvini, invece di lavorare, si è dedicato all’unica cosa che sa fare, ruttare per raccattar voti. Una presenza costante ed irritante che ha aggravato la posizione del Movimento. Il Pd ha tentato di sfruttare questa situazione puntando fin dall’inizio allo sfascio del governo gialloverde e degli odiati populisti. Una strategia disastrosa. Piuttosto che tornare a votare Pd, gli elettori emigrano. E il perché è molto semplice. Il Movimento rappresenta tra le altre cose, un modello più avanzato di partito e di politica e una volta fatto il salto evolutivo in avanti, il cittadino non torna più indietro. Zingaretti e tutti gli altri baronetti sono figli di un passato che gli italiani vogliono solo dimenticare. Per questo, quando il governo cadrà e quando il Movimento tornerà ad occupare l’enorme spazio di opposizione a Salvini, lo scenario politico potrebbe stravolgersi. Il Pd farebbe la fine di Forza Italia scomparendo e milioni di cittadini potrebbero riavvicinarsi al Movimento. A giovarne sarebbe tutto il paese perché Salvini va fermato e oggi il Pd è talmente sputtanato che quando lo attacca anche giustamente, ottiene l’effetto opposto. Rafforza cioè Salvini mentre il Movimento è costretto a mordersi la lingua ed assistere inerme ad una perdita dei consensi sempre più drammatica .

'Ndrangheta: blitz contro un clan reggino, arrestati politici e imprenditori. - Alessia Candito

'Ndrangheta: blitz contro un clan reggino, arrestati politici e imprenditori

REGGIO CALABRIA. In silenzio hanno costruito un impero e i loro tentacoli arrivavano ovunque, dalla politica all’imprenditoria e alla pubblica amministrazione. Diciassette persone, ritenute appartenenti o vicine allo storico casato mafioso dei Libri di Reggio Calabria, sono state arrestate questa notte dalla Squadra mobile di Reggio Calabria. Fra loro ci sono anche diversi politici, attivi in ambito cittadino e regionale e in entrambi gli schieramenti.

Si tratta di Alessandro Nicolò, ex capogruppo di Forza Italia oggi passato a Fratelli d'Italia, di cui è anche coordinatore regionale, arrestato e condotto in carcere; mentre è indagato a piede libero Demetrio Naccari Carlizzi, ex consigliere regionale e uomo forte dell'area renziana del Pd, nonché cognato del sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà; Giuseppe Demetrio Tortorella, ex assessore comunale negli anni Novanta, per i magistrati vero e proprio consigliere politico del clan e per questo finito in carcere con l’accusa di associazione mafiosa; Demetrio Berna, ex assessore comunale al bilancio, legato al clan Libri da rapporti di parentela, in passato destinatario dei loro pacchetti di voti e fino ad oggi loro fidato braccio imprenditoriale. Anche lui è finito in carcere insieme al fratello Francesco, attuale presidente dell’Ance locale e pezzo da novanta della Confindustria reggina.

Dall’indagine, è stato travolto anche Sebastiano Romeo, capogruppo del Pd in consiglio regionale, finito ai domiciliari, per aver tentato di avere informazioni coperte da segreto istruttorio, corrompendo un maresciallo della Finanza. È l’unico a non essere stato raggiunto da accuse di mafia. Tutti gli altri politici – affermano i magistrati – erano funzionali ai progetti e ai desideri dei clan. Lo hanno scoperto gli investigatori della Squadra mobile ascoltando ore e ore di conversazioni intercettate nello studio medico di Tortorella, dentista con un passato da politico, divenuto lo stratega elettorale dei Libri. Era lui a gestire le preferenze, indirizzandole sui candidati “giusti”. “Ma vogliamo precisare – dice il procuratore Bombardieri – che questa indagine non si basa su chiacchiere. Tutto quello che abbiamo raccolto è stato riscontrato, ci sono anche quattro pentiti che confermano il quadro che emerso da quelle conversazioni, e su tutte quelle dichiarazioni c’è stata una straordinaria attività di riscontro”. L’inchiesta dunque è solida, lo scenario che ne emerge, devastante.

Forte di un enorme bacino di voti, attraverso i propri uomini, fra cui diversi imprenditori di fiducia, i Libri interloquivano con i politici di tutti gli schieramenti, cui offrivano appoggi e consensi in cambio di appalti, favori ed entrature. Alle regionali del 2014 però, secondo gli investigatori il clan aveva scelto Nicolò di Forza Italia come proprio candidato. “Abbiamo vinto, con Sandro abbiamo vinto” li sentono esultare gli investigatori che li ascoltano a spoglio concluso “è il primo del centrodestra”.

E l’allora aspirante consigliere regionale non avrebbe esitato a chiedere appoggi, offrendo in cambio posti di lavoro e favori a uomini notoriamente appartenenti al clan. Ma non si trattava di un semplice patto elettorale. Nicolò – sostengono i magistrati Stefano Musolino e Walter Ignazzitto della procura antimafia di Reggio Calabria, diretta da Giovanni Bombardieri – era in tutto e per tutto un associato, un politico costruito a tavolino dai clan. La stessa famiglia di mafia – si ascolta dire ad uno degli arrestati – responsabile dell’omicidio del padre del politico. Fatti provati, documentati, tanto da spingere il giudice per le indagini preliminari ad autorizzare l’arresto per il politico.

Sono accuse – e anche pesanti –  ma rimane indagato a piede libero Demetrio Naccari Carlizzi. Per gli investigatori, l’ex consigliere avrebbe stretto uno “stabile, solido e proficuo” accordo con i clan più importanti per la città di Reggio Calabria in occasione delle elezioni comunali e regionali, “chiedendo per sé e per i candidati indicati i voti raccolti dai rappresentanti di ‘ndrangheta”. Per Seby Romeo, finito ai domiciliari, l’accusa invece è di aver corrotto un funzionario della Corte d’appello di Reggio Calabria, il maresciallo della Guardia di Finanza, Francesco Romeo. Questi, chiedeva a Sebi Romeo di far assumere una persona in una locale impresa di trasporti ed autolinee ed in cambio gli prometteva di fornirgli informazioni, coperte da segreto istruttorio, relative a procedimenti pendenti presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria.

Insieme a loro, in manette sono finiti noti imprenditori apparentemente irreprensibili e formalmente slegati dal contesto mafioso, in realtà alle dipendenze del clan come veri e propri associati o concorrenti esterni. Fra loro ci sono anche l’ex assessore comunale Demetrio Berna e il fratello Francesco, titolari di una delle imprese di costruzioni più importanti della città e pezzi da novanta della locale Confindustria. In carcere è finito anche un noto avvocato, Giuseppe Putortì, in passato prima condannato poi assolto dall’accusa di aver favorito i boss che assisteva come legale. Per gli inquirenti, nel tempo era diventato un elemento fondamentale per il clan Libri, del quale avrebbe curato interessi e relazioni.

"Esprimiamo pieno sostegno al lavoro della magistratura in Calabria e fiducia che le indagini che coinvolgono affiliati alla cosca della Ndrangheta Libri, e alcuni esponenti politici, condurranno nel pieno rispetto dei diritti degli indagati ad accertare la verità. Tra gli indagati vi sono anche esponenti del Pd, per i quali la commissione di garanzia ha già provveduto immediatamente alla sospensione dal partito in attesa dell'esito delle indagini", dice il segretario Nicola Zingaretti sottolineando come "sia necessario "un radicale processo di rinnovamento della classe politica calabrese". "Le notizie relative all’operazione anti ‘Ndrangheta contro il clan Libri impongono un serio intervento del #Pd nazionale in #Calabria. Mi autosospendo dal partito fino a quando non si farà chiarezza", aveva subito annunciato il Senatore ed ex commissario calabrese del Pd, Ernesto Magorno.

https://www.repubblica.it/cronaca/2019/07/31/news/blitz_contro_un_clan_reggino_arrestati_politici_e_imprenditori-232420471/?ref=RHPPLF-BH-I232420672-C4-P4-S1.4-T1&fbclid=IwAR1LXF83fgqXqBc6BBgKM5OOpLa51mnD9oPaHb5Y05mfqTTb5kN2fxgdPa0

mercoledì 31 luglio 2019

Facebook rischia di chiudere, ha contro i giovani (e Soros). - Massimo Bordin



Ci sono almeno 3 indizi che portano verso un’inaspettata chiusura del più grande social media del mondo. Il primo è quello di cui tutti parlano oggi: un ipermegamultone che si aggiunge alle rogne pregresse di Zuckerberg; ben presto la politica dovrà mettere mano alla faccenda con una manovra antitrust, anche e soprattutto in vista delle elezioni americane del 3 novembre. C’è chi, come business insider, scommette sulla chiusura di Facebook e parla di una operazione in grande stile che il governo post-Trump dovrà attuare. La vicenda di Cambridge Analytica è a tutti nota, e ora si è aggiunta solo l’indiscrezione per la cifra da pagare a seguito di violazione della privacy: cinque miliardi di dollari. La più elevata mai imposta dalla Federal Trade Commission contro un’azienda di tecnologia. Attenzione, non sarebbe certo la prima volta che accade qualcosa del genere ad un’azienda di grandi dimensioni. E penso alla compagnia petrolifera Standard Oil, fondata da Rockefeller nel 1870 e smembrata per decreto nel 1911 dall’antitrust americana.
A detta degli espertoni, questo è il più grande rischio che oggi corre Facebook, perché uno smembramento comporterebbe cambiamenti epocali, tali da snaturare l’idea stessa del “faccialibro” per come esso nacque nell’ormai preistorico 2004. Il secondo indizio allieterà senza dubbio i gusti dei complottisti – di gran lunga la categoria umana che preferisco e della quale mi vanto di far parte, nonostante il neologismo sia demenziale e colpisca scorrettamente tutti quelli che propongono dei dubbi. Si tratta di Soros, amici. Eh già, il vecchio volpone dell’economia globalista da qualche tempo attacca Facebook senza remore. «Affermano che distribuiscono solamente informazioni – ha affermato il capitalista ungherese – ma in realtà sono quasi distributori monopolisti, e questo li rende servizi pubblici. Dovrebbero pertanto essere soggetti a regolamentazioni più stringenti mirate a preservare la competizione, l’innovazione e un accesso universale, leale ed aperto». Soros ha poi paragonato Facebook e Google ai casinò, che «progettano deliberatamente la dipendenza ai servizi che forniscono».
Ma qual è la ragione di questo attacco? Non lo sappiamo, ma da buon complottista ipotizzo che Facebook abbia dato voce a tutti, minando così le cristalline certezze provenienti dai media tradizionali. Insomma, Soros finanzia i liberal sparsi per il mondo, ma chi contesta i liberal è “fuori controllo” grazie a internet. A mio avviso è evidente che lui odi la Rete. Ad esempio, il vegliardo spende una vagonata di soldi per far salire al potere la Hillary Clinton, eppoi la Rete aiuta la visibilità di Donald Trump. Inaccettabile per un lobbysta che si rispetti! Ma è il terzo indizio quello che mi induce a ritenere Facebook avviata al tramonto o ad un profondo rimescolamenteo delle (sue) carte. Il social, infatti, ha dei picchi di utenza che ben presto saranno ridimensionati dal fatto che i millennials non si iscrivono più a questo tipo di social. In altre parole, la disaffezione dei giovani costringerà Zuckerberg alla chiusura in modo molto più determinante delle decisioni dell’Antitrust.
Ve lo ricordate Myspace? E SecondLife? Tutta bella roba caduta in disuso per assenza di grano, altro che antitrust! Com’è noto, infatti, le nuove generazioni preferiscono Instagram (sempre di proprietà di Zuckerberg) dove praticamente non si parla di politica (e Soros qui non sbrocca, guardacaso), o Tinder, la nuova Bibbia per i segaioli impenitenti. Insomma, immagini taroccate e app per rimorchiare potranno continuare, Facebook rischia invece grosso. Se non cambia pelle. Dovesse accadere, comunque, non tutto il male viene per nuocere. Chi è noiosamente e ampollosamente affezionato ai “discorsi lunghi” potrà infatti tornare ai vecchi cari blog (ehehehe), ai forum, oppure alle nuove app come Telegram, società di messaggistica e canali in stile blog informativi che ha sede nel Regno Unito, ma che è stata fondata dall’imprenditore russo Pavel Durov. Con un cognome così direi che il rischio smembramento è quanto mai remoto.
(Massimo Bordin, “Facebook verrà chiuso”, dal blog “Micidial” del 29 luglio 2019)

Preferisco di No. - di Marco Travaglio - l Fatto Quotidiano del 31 Luglio 2019

L'immagine può contenere: una o più persone

Soltanto in un Paese smemorato come il nostro poteva avere successo lo slogan di Salvini, che l’ha copiato da Renzi, che l’ha copiato da Berlusconi, sull’ “Italia dei Sì” (bella) contro l’ “Italia dei No” (brutta).
Chi scrive si è sempre identificato nel motto di Longanesi “Sono un conservatore in un Paese in cui non c’è nulla da conservare”. E da almeno trent’anni constata che - salvo rare eccezioni, da contare sulla dita delle mani di un monco - le cosiddette “riforme” di una classe politica perlopiù indecente hanno regolarmente peggiorato le cose. Eppure tutti quelli che, a ogni “riforma” strillavano come ossessi il loro “sì”, dovrebbero chiedere scusa e possibilmente pagare i danni a chi, inascoltato, diceva “no”.
Anche nella forma più educata e un po’ surreale di Bartleby lo scrivano del famoso racconto di Herman Melville: “Preferirei di no”.
L’ultima volta che un bel No ci salvò da guai incalcolabili fu al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, quando respingemmo la schiforma Renzi-Boschi-Verdini e preservammo la nostra Carta fondamentale. 

Ma lo stesso era accaduto nel 2006, con la vittoria del No referendario alla deforma di B. E tutte le volte in cui, non potendo farlo noi cittadini, presidenti della Repubblica degni di questo nome (Scalfaro e Ciampi) e la Consulta respinsero a suon di No un bel po’ di leggi incostituzionali del centrosinistra (il decreto salvaladri Amato-Conso) e di B. (la Gasparri, l’ordinamento giudiziario Castelli, la Pecorella che aboliva l’appello solo per i pm, la Cirami, il lodo Schifani, il lodo Alfano ecc.). 
Se Napolitano avesse proseguito quella meravigliosa tendenza al No, ci avrebbe risparmiato le ultime vergogne del berlusconismo e tutte quelle del renzismo.
Anche perché ogni No (al peggio) sottintende sempre un Sì (al meglio).
Pensiamo al valore morale del No al Tav, cioè alla devastazione di una valle, quella di Susa, già martoriata da scempi di ogni genere, e delle casse dello Stato, già grassate e spolpate da decenni di bande e scorribande del partito trasversale degli affari. Dire No al Tav significa dire Sì all'ambiente e alla ricerca tecnologica su nuovi modelli di mobilità che tutto il mondo studia e realizza, tranne noi. Quando i 5Stelle, in questa strana stagione giallo-verde, hanno detto No alla Lega sul mega-condono fiscale, sulle trivelle, sugli inceneritori, sull'emendamento per l’eolico pro Arata&Nicastri, sulla nomina di Arata a capo dell’Autorità per l’Energia, sulla secessione della scuola spacciata per autonomia, sulla legge Pillon contro il diritto di famiglia, i loro elettori e non solo gliene sono stati grati.

Così come per i No alle depenalizzazioni del peculato per salvare quelli di Rimborsopoli e dell’abuso d’ufficio per salvare Fontana&C.. Il guaio è che ne avrebbero dovuti dire di più, di No. Per esempio: sul salvataggio di Salvini dal processo per sequestro di persona sulla nave Diciotti, hanno pronunciato un Sì che tradiva dieci anni di battaglie per la legge uguale per tutti. E i tradimenti si pagano, mentre le sconfitte politiche anche cocenti – come quella, ormai probabile, sul Tav Torino-Lione e quelle certe sul Tap e sull’Ilva - si possono alla lunga perdonare. Intendiamoci: non tutti i No sono popolari solo perché sacrosanti, anzi molti No sacrosanti fanno perdere un sacco di voti.

Soprattutto in un Paese senza memoria che non pensa mai a come starebbe meglio se qualcuno, a suo tempo, avesse detto No alla privatizzazione delle autostrade, al Mose, ai mondiali di calcio di Italia 90, alle Olimpiadi invernali di Torino 2006, ai Mondiali di Nuoto di Roma 2009, all’Expo di Milano 2015 e a decine di grandi opere e grandi eventi inutili e costosi che hanno svuotato l’erario e indebitato le metropoli senza produrre un euro di valore aggiunto. 

Infatti, se si facesse un sondaggio sugli illuminati No di Monti e della Raggi alle Olimpiadi di Roma 2020 e 2024, la maggioranza sarebbe contraria: la maggioranza, non da oggi, vuole panem et circenses, salvo poi strillare quando arriva il conto delle tasse per ripagarli.

Ora Salvini, forte dei voti incassati il 26 maggio, continua a menarla col Partito dei Sì (la Lega) contro il Partito dei No (il M5S). E molti si bevono questa favoletta per gonzi secondo cui dire Sì beatamente e beotamente a tutto sarebbe un vantaggio per i cittadini. Senza mai domandarsi a che cosa si debba dire Sì. Sì all’autonomia differenziata in versione secessione? Per carità. Sì a una flat tax che taglia le tasse ai ricchi, da sempre mantenuti dai lavoratori dipendenti e pensionati del fu ceto medio? Dio ce ne scampi.

A ben vedere, qualche Sì conveniente per la collettività ci sarebbe: 

- il Sì definitivo alla legge costituzionale che riduce di un terzo i parlamentari (si spera accompagnata da un ritocco dei collegi del Rosatellum, per evitare gli effetti ipermaggioritari del combinato disposto), 
- il Sì alla norma che taglia gli stipendi degli eletti più pagati d’Europa, 
- il Sì alla legge contro la privatizzazione dei servizi idrici e degli altri beni comuni, 
- il Sì al salario minimo (su cui ci scavalca persino da frau Von der Leyen), 
- il Sì a una riforma della Rai che elimini non il canone ma i partiti, 
- il Sì a una riforma che cacci la politica dalle Asl e dagli ospedali. E – aggiungiamo noi - 
- il Sì al carcere per gli evasori con l’aumento delle pene e la sparizione delle vergognose soglie di non punibilità per chi deruba il fisco.

Sono tutte norme previste dal Contratto di governo, a cui il sedicente Partito del Sì ha finora detto No o Ni. Ma sono anche norme di puro buonsenso ed equità che dovrebbero campeggiare nei programmi di un centrosinistra degno di questo nome. Che, se nei suoi 11 anni di governo sugli ultimi 20, avesse pronunciato i Sì e i No giusti, non sarebbe scomparso dai radar.


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Figlio di Salvini sulla moto d'acqua della Polizia: "Da Salvini ancora nessuna scusa per l'intimidazione al giornalista". - Carmine Saviano

Il figlio di Salvini al mare sulla moto d'acqua della polizia. E gli agenti vietano le riprese.

ROMA - Non basta ammettere "l'errore da padre" per giustificare il giro sulla moto della Polizia compiuto dal figlio. Perché quella vicenda coinvolge anche il diritto di cronaca. E Salvini dovrebbe chiedere scusa soprattutto al giornalista minacciato mentre svolgeva il proprio lavoro. E' questa la posizione dell'Ordine dei Giornalisti sulla vicenda che ha coinvolto il videomaker di Repubblica Valerio Lo Muzio. "Anziché difendere la polizia da un suo errore di padre Salvini avrebbe dovuto stigmatizzare il comportamento di chi ha provato ad impedire il legittimo esercizio del diritto di cronaca. Su questo dal giornalista professionista e ministro dell'Interno ci aspettiamo delle scuse", dice il presidente Carlo Verna.
"Inaccettabile". Questa la definizione della Fnsi. Il presidente Beppe Giulietti dice a Repubblica: "Non possiamo far passare questi comportamenti. Nessuno può dire a un cronista che sta svolgendo il suo lavoro, che sta documentando un fatto di interesse pubblico, di abbassare la videocamera. Le videocamere non vanno abbassate. E non solo: chiedo formalmente che sia identificata la persona che ha intimidito e minacciato il videomaker di Repubblica".

E su Twitter l'Associazione Italiana Giornalisti Videomaker lancia l'hashtag #ministrosalvinisiscusi
Poi la politica. A margine della giornata di formazione dei navigator, rispondendo alle domande dei giornalisti sul giro del figlio di Salvini su una moto d'acqua della Polizia, il vicepremier M5S Luigi Di Maio ha espresso "piena solidarietà al giornalista". Il caso continua ad alimentare le proteste del mondo politico. Per Nicola Fratoianni, Sinistra Italiana, è da sottolineare "l'atteggiamento inaccettabile degli operatori di Polizia nei confronti del giornalista che ha filmato la scena". E ancora: "Ci auguriamo che gli accertamenti della questura di Ravenna siano celeri ed efficaci e che i provvedimenti non guardino in faccia a nessuno neanche se saranno coinvolti uomini della scorta del ministro dell'Interno".

https://www.repubblica.it/politica/2019/07/31/news/moto_acqua_giornalista_minacce_salvini-232435434/?ref=RHPPLF-BH-I232396209-C8-P3-S1.8-T1

Quella missione in Marocco di Salvini e Savoini e il mistero dei 150mila euro.

Quella missione in Marocco di Salvini e Savoini e il mistero dei 150mila euro
Foto tratta dal profilo Facebook dell'associazione Lombardia Russia.

Nel 2015 l'allora segretario della Lega viaggia nel paese nordafricano con Savoini. Che sei mesi dopo, secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano, avrebbe ricevuto denaro per aver segnalato aziende italiane cui concedere appalti in Marocco.

ROMA - Prima della Russia, c'è stato il Marocco. Gianluca Savoini, l'ex portavoce di Matteo Salvini e presidente dell'associazione Lombardia-Russia, potrebbe essere al centro di un altro caso di corruzione internazionale. A riportare la storia è Il Fatto Quotidiano: 150mila euro consegnati a Savoini da Mohamed Khabbachi, ex direttore generale dell'agenzia di stampa Mep e uomo del re Mohammed IV per le attività di lobbiyng in Europa. 

Siamo a Parigi, nella primavera del 2016. Savoini avrebbe ricevuto la somma di denaro da Khabacci nella sala dell'hotel Le Meridien Etoile, a poche centinai di metri dall'ambasciata del Marocco. Una sorta di premio per aver fornito alle autorità marocchine una lista di aziende italiane da segnalare per futuri appalti nel Paese nordafricano. Sia Savoini che Khabacci non confermano la vicenda. L'incontro di Parigi sarebbe stato il "seguito" di un viaggio di Savoini e Salvini in Marocco nel 2015, quando l'allora segretario della Lega incontra una delegazione di ministri marocchini per poi dirsi "entusiasta del Marocco, una terra in cui investire".

E la consegna di denaro a Savoini ha anche un risvolto cinematografico, con la somma di denaro avvolta in fogli di giornale che cade - e poi viene raccolta - in un bagno turco.  


https://www.repubblica.it/politica/2019/07/31/news/savoini_marocco_moscopoli_salvini_soldi-232420675/