venerdì 12 giugno 2020

2 Consip e 2 misure. - Marco Travaglio


Consip, l'inchiesta e i personaggi coinvolti - Cronaca - ANSA.it
Càpita a tutti di sbagliare. Specialmente quando il lavoro è tanto e il tempo è poco. Dunque non c’è nulla di strano se l’inchiesta della Procura di Perugia sul pm Luca Palamara, divenuta ben presto un’inchiesta sul Csm e sulle correnti togate, presenta errori nella trascrizione delle migliaia di intercettazioni. O, meglio: non ci sarebbe nulla di strano se quegli errori non fossero tutti unidirezionali, sempre a vantaggio degli utilizzatori finali dell’indagine. Cioè gli amici dell’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, interessato a garantirsi un successore in continuità con la sua discussa e discutibile gestione: prima dello scandalo, il procuratore di Palermo Franco Lo Voi; dopo, l’aggiunto prediletto Michele Prestipino. E soprattutto a spezzare la maggioranza del Csm che aveva già indicato in commissione un procuratore “discontinuo”: il Pg di Firenze Marcello Viola. L’operazione, grazie alla diffusione degli allegri conversari fra Palamara e i deputati renziani Lotti e Ferri (magistrato in aspettativa ed ex ras di MI), riuscì perfettamente: Mattarella chiese un nuovo voto in commissione con altri candidati e alla fine la spuntò Prestipino, cioè Pignatone. Ora che gli atti dell’inchiesta sono depositati (e le accuse di corruzione a Palamara sono evaporate), si scopre, con buona pace della leggenda del Santo Pignatone diffusa dai giornaloni, che quella non era una lotta fra buoni e cattivi: ma una guerra per bande per consumare vendette e prendere il potere nella Procura più importante d’Italia, che vale 2 ministeri.
Ma, come documenta il nostro Antonio Massari, si è scoperto ben altro: una serie di “errori”, tutti favorevoli a Pignatone e ai suoi cari. 
1) La sera del 21 maggio 2019 Palamara incontra l’allora Pg della Cassazione Riccardo Fuzio (poi dimessosi): il Gico della Gdf di Roma, che stranamente indaga per conto di Perugia pur essendo alle dipendenze dei pm romani (indagati compresi), trascrive solo “rumori”. Ma i difensori di Palamara scoprono che una parte del colloquio è abbastanza intelleggibile e chiedono di trascriverlo. Il Gico riempie il buco e attribuisce a Palamara la parola “carabinieroni”. Palamara nega di averla mai usata. Infatti, quando il nostro giornalista ascolta l’audio, sente “Pignatone”. E vabbè, dài, sarà un caso. 
2) Nello stesso colloquio, Massari sente “Mattarella” ed “Erbani” (consigliere giuridico del Quirinale). Nella trascrizione del Gico non compare nessuno dei due nomi, che invece Palamara ricorda di aver pronunciato perché alcuni consiglieri del Csm gli avevano detto di aver saputo da Erbani che qualcuno di loro aveva il trojan nel cellulare, tant’è che molti avevano smesso di parlare con lui. 
E vabbè, dài, sarà un caso. 
3) Il 9 maggio 2019 Palamara cena con Pignatone. Sarebbe interessante sapere cosa si dissero il procuratore che ambiva a scegliersi il successore e il potente membro del Csm che poteva orientare Unicost nell’una o nell’altra direzione 13 giorni prima del voto in commissione. Purtroppo, vedi la combinazione, l’aggeggio che intercetta tutto 24 ore su 24 rimane spento dalle ore 16, quando Palamara annuncia la cena a un’amica: qualcuno l’ha disattivato, o si è provvidenzialmente guastato. Ed è strano, perché durante la cena risulta una telefonata di Palamara intercettata, ma non depositata: quindi il trojan avrebbe potuto funzionare anche quella sera, ma captò solo conversazioni telefoniche e non ambientali. E qui le coincidenze diventano davvero troppe. Anche perché la Procura di Roma, per errori ben più veniali, indagò per falso in atto pubblico e fece espellere dall’Arma il capitano del Noe Gian Paolo Scafarto, che indagava su Consip per conto dei pm napoletani Woodcock e Carrano e poi di quelli capitolini; e, non contenta, tolse le indagini all’intero Noe per affidarle al Ros di Roma.
Che aveva fatto di tanto grave Scafarto, a parte beccare l’imprenditore Alfredo Romeo e il galoppino di Tiziano Renzi, Carlo Russo, mentre trattavano favori in Consip in cambio di 50 mila euro al mese per “T.” e 2,5 per “C.R.”? Nel rapporto investigativo, aveva invertito i nomi di Romeo e del suo consulente Italo Bocchino, attribuendo al primo anziché al secondo la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato”. Che, in bocca al primo, portava a babbo Tiziano e a Consip; in bocca al secondo, provava solo normali colloqui politici fra Matteo e l’ex braccio destro di Fini. Un errore neutro (le prove di almeno un incontro Romeo-Tiziano già c’erano) e involontario (nelle trascrizioni delle telefonate allegate al rapporto Scafarto, la frase era attribuita a Bocchino, dunque sia gli avvocati sia i magistrati avrebbero scoperto facilmente la svista). Eppure Scafarto, indagato e privato della divisa, fu sputtanato dall’Innominabile e dai giornaloni al seguito come carabiniere “deviato” e “falsificatore di prove”, per dimostrare che Consip era un “complotto” e un “colpo di Stato”. Poi il Riesame e la Cassazione reintegrarono Scafarto e il gup respinse la richiesta di rinvio a giudizio, prosciogliendolo con formula piena da quell’errore in buona fede. Ora la domanda è semplice: che farà la Procura di Roma coi finanzieri che scambiano “Pignatone” per “carabinieroni”, non sentono “Mattarella” ed “Erbani” e piazzano trojan intermittenti che si spengono quando Pignatone cena con Palamara? Si accettano scommesse.

giovedì 11 giugno 2020

Ecce bombo. - Massimo Erbetti

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Ma ve lo ricordate il film di Nanni Moretti?:
"No, veramente non mi va, ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è, non è che alle dieci state tutti a ballare in girotondo, io sto buttato in un angolo, no...ah no: se si balla non vengo. No, no...allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: "Michele vieni in là con noi dai..." e io: "andate, andate, vi raggiungo dopo...". Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no. Ciao, arrivederci Nicola.
Dopo le dichiarazioni di Salvini, mi è venuto in mente Moretti "... Mi si nota di più se vengo o non vengo?...".


Ma cerchiamo di capire come sono andate le cose riguardo agli Stati Generali organizzati da Conte, all'inizio il deputato della Lega Claudio Durigon, aveva detto di non apprezzare l’iniziativa, ma aveva assicurato la partecipazione della Lega. Anche Salvini non aveva chiuso, poi l'inversione di tendenza, si vede che in quel momento gli è venuto in mente il film di Nanni Moretti. “Da Conte ho ricevuto un messaggino. Diceva: ‘Venite a esporre le vostre idee'"... “Cerchiamo di capire com’è, dov’è, di cosa si parla, con chi… E’ bizzarro: gli italiani pagano il Parlamento non le ville. Rispondo per educazione: ti faremo sapere chi viene quando ci spiegherete cos’è”...“Gli italiani non hanno bisogno di altri show e passerelle, c’è bisogno subito della cassa integrazione per milioni di lavoratori, soldi veri per imprenditori e famiglie, scuole aperte e sicure” ha detto Matteo salvini, che poi ha ribadito: “Il luogo del confronto e della discussione è il Parlamento, non sono le ville o le sfilate. 60 milioni di persone non possono dipendere dall’umore di Rocco Casalino“.
A parte il fatto che Villa Pamphili è una sede istituzionale di alta rappresentanza della Presidenza del Consiglio e se vuoi far partecipare personalità ed esperti di alto livello internazionale, non lo fai in Parlamento, ma tralasciando questo, quello che più mi stupisce delle dichiarazioni di Salvini è la parte in cui parla di "show e passerelle" che detto da uno che sta in TV 24 ore al giorno, che suona campanelli, che bacia salami e che senza alcuna vergogna, specula anche sulla morte dei martiri delle forze dell'ordine, farebbe anche sorridere, se non ci fosse veramente da piangere.
Comunque la Mossa del centro destra è chiarissima, non partecipa agli stati generali, primo, perché non ha idea di cosa fare e secondo, perché politicamente è molto più remunerativo attaccare le scelte degli altri senza portare soluzioni, che partecipare... "mi si nota di più se vengo o non vengo?..." a voi la risposta.


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Uscito da Palazzo Chigi Giuseppe Conte concede alcune domande ai giornalisti.

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Processi somari. - Marco Travaglio

Magistratura democratica - Tag: Riccardo De Vito
Avete presente il cosiddetto caso Bonafede-Dap-scarcerazioni? E due mesi di “Non è l’Arena, è Salvini” sul ministro, su Basentini e sui loro parenti vivi o morti fino al sesto grado? E i processi al Guardasigilli&C. nel question time, nella mozione di sfiducia e in inutili audizioni in quella parodia di commissione Antimafia ridotta a succursale di casa Giletti (ma senza Salvini, latitante da due anni per non rispondere sui rapporti con Siri e Arata, socio occulto di Nicastri amico di Messina Denaro)? Bene, buttate pure tutto nel cestino. Erano tutte balle, fuffa, armi di distrazione di massa per colpire il ministro che ha bloccato la prescrizione e affibbiargli la colpa delle scarcerazioni di 350 mafiosi e malavitosi (50 già tornati dentro), che ovviamente sono responsabilità esclusiva dei giudici di sorveglianza che le hanno firmate. Basta leggere l’ordinanza di quello di Sassari che ha riesaminato, alla luce del decreto anti-scarcerazioni, gli arresti domiciliari da lui stesso concessi a Pasquale Zagaria il 23 aprile in piena pandemia. E li ha confermati, sollevando questione di legittimità costituzionale contro il decreto. È Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, che ha un’idea del carcere opposta alla nostra. Ma ha il merito di rivendicare le sue decisioni e convinzioni senza incolpare gli altri né inventare scuse. Viva la faccia.
Da tre mesi chi vuole liberarsi di Bonafede starnazza che le scarcerazioni sono colpa sua, dell’ex capo del Dap Basentini e di una circolare del 21 marzo che avrebbe dato la stura al “liberi tutti”. Circolare che non parla mai di scarcerazioni: si limita a chiedere i nomi dei detenuti affetti da patologie che li espongano a conseguenze letali in caso di contagio per metterli in sicurezza (con isolamenti, esami, precauzioni varie: non certo per scarcerarli, visto che si rischia il Covid molto più fuori che dentro). Dunque le scarcerazioni con la circolare non c’entrano nulla, anche se molti giudici se ne sono fatti scudo per dare sfogo ai loro uzzoli decarceratorii. Non è il caso di De Vito che, già nell’ordinanza che mandava a casa (a Brescia, epicentro del Covid) il camorrista Zagaria, chiariva di averlo fatto in base al Codice penale e all’Ordinamento penitenziario. Certo, aveva chiesto al Dap di indicare un centro di cura penitenziario e il Dap, con un’imperdonabile gestione burocratica (giustamente pagata da Basentini con le dimissioni), non aveva risposto in tempo. Ma il giudice chiariva che Zagaria l’avrebbe scarcerato lo stesso, perché riteneva le sue condizioni di salute (neoplasia vescicale, da poco operata con postumi gravi) incompatibili con cure in qualunque struttura penitenziaria.
E ora lo ripete con ancor maggiore nettezza nell’ordinanza che conferma i domiciliari. Zagaria deve restare a casa nel Bresciano e curarsi nell’ospedale del posto: non per le mancate risposte del Dap, che nel frattempo ha indicato strutture alternative (nell’ospedale Belcolle di Viterbo) a quelle che prima erano inutilizzabili in Sardegna (occupate da casi di Covid e ora di nuovo disponibili); ma perché non il Dap, non Basentini, non la circolare, non Bonafede, ma il giudice, nella sua insindacabile “discrezionalità”, ha deciso che la “patologia grave non è fronteggiabile con strumenti diagnostici-terapeutici in ambiente carcerario”; e perché la “Corte d’appello di Napoli in data 22.1.2015” ha definito Zagaria “non più pericoloso”. E l’ha mandato a casa in base al “bilanciamento discrezionale tra diritto alla salute e sicurezza sociale”, visto che il detenuto non può ricevere “adeguate cure mediche in ambito carcerario”. Punto. Chiunque sia il ministro o il capo del Dap, con o senza il decreto, il giudice di Sassari non cambia idea. Solo alla “scadenza del termine individuato” (5 mesi) da lui, e non di quello indicato nel decreto (“immediatamente”), opererà la “rivalutazione della persistenza delle ragioni del differimento e della detenzione domiciliare” in base “all’evoluzione della patologia”. Né quando adottò il provvedimento, né ora il giudice si lascia influenzare dalla “comunicazione del Dap in ordine alla disponibilità delle strutture protette”, dai pareri della Dna e delle Dda “favorevoli al ripristino della detenzione”. Né dal nuovo decreto, che ritiene incostituzionale perché “sconfina nella sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria”, cioè a lui.
Cosa sarebbe accaduto se il Dap gli avesse risposto per tempo, prima del 23 aprile? “L’idoneità dei reparti di medicina protetta tempestivamente comunicati dal Dap avrebbe dovuto essere valutata da questo tribunale con riferimento all’intervento diagnostico che lo Stato non era riuscito ad assicurare” con l’intervento chirurgico. Ma non sarebbe bastata neppure allora a evitare la scarcerazione: infatti neanche ora è “possibile valutare l’idoneità delle strutture indicate a evitare il pregiudizio per la salute del detenuto”. Ciò sarà possibile solo in caso di “guarigione e idoneità delle cure”. Cioè non ora, neppure in presenza di strutture penitenziarie: “una rivalutazione improvvisa… prevalentemente indirizzata al ripristino della detenzione, comporta una violazione del diritto alla salute”. Chissà se i mitomani in Parlamento, in Antimafia, nei giornali e nei tele-pollai leggeranno l’ordinanza e la pianteranno. Ma c’è da dubitarne: non c’è peggior mitomane di chi non vuol capire.

Saltato il dg Luigi Cajazzo, ora Gallera è accerchiato. - Gianni Barbacetto

Saltato il dg Luigi Cajazzo, ora Gallera è accerchiato

Le dimissioni dell’assessore Giulio Gallera aleggiano da giorni sul Pirellone. Sono il sale e il fiele del dibattito politico in Regione Lombardia. Tutti ne parlano, nessuno vuole e può farle scattare. Alla Lega non dispiacerebbero, ma sarebbero il segnale contrario del “rifaremmo tutto, non abbiamo sbagliato niente” che tutti ripetono, ai piani alti di Palazzo Lombardia.
Così la zarina della Regione, Giulia Martinelli, capo segreteria del presidente Attilio Fontana (nonché ex moglie di Matteo Salvini), da sempre in conflitto con Gallera, ha trovato la soluzione: ci teniamo l’assessore, via il direttore generale. Per ora: poi si vedrà. Così è saltato Luigi Cajazzo, il capo dei tecnici della sanità lombarda, che fino a ieri declamava: “Noi abbiamo svolto un lavoro tecnico che difendo e di cui sono assolutamente orgoglioso”.
Saltato. Saltato verso l’alto, però, promosso a un posto formalmente più prestigioso (e meglio pagato): vicesegretario generale della Regione, e per di più “con delega all’integrazione sociosanitaria”, cioè con l’incarico di preparare la riforma del sistema sanità che ha fatto della regione più ricca d’Europa anche quella con più morti e contagiati dal virus. Sì, saltato verso l’alto: anche perché farlo saltare verso il basso non sarebbe stata una buona idea per i vertici politici regionali, visto che Cajazzo dovrà passare le prossime settimane a girare le Procure della Lombardia, per rispondere alle tante domande dei pm sulla gestione dell’emergenza Covid. Per Fontana e Gallera è meglio avere un Cajazzo promosso, piuttosto che rimosso. Ed è meglio averlo non troppo arrabbiato con i politici che hanno scaricato su di lui, tecnico, i cortocircuiti del coronavirus. È stato il fusibile che è saltato.
Sostituito con un altro tecnico che è un grande ritorno al passato. Cajazzo era un poliziotto, non un manager sanitario. Più bravo a inviare email paracadute in vista di future contestazioni, che non a dirigere concretamente la sanità. Che in parte è stata gestita dai politici, Fontana, Gallera e anche Davide Caparini, il leghista assessore al Bilancio che tiene i cordoni della borsa e fa fronte d’acciaio con la zarina Martinelli. In parte è andata per conto suo, gestita dal vento feroce che soffiava a febbraio su Alzano Lombardo, su Nembro, sulle residenze per anziani, sull’ospedale in Fiera da costruire, sui test sierologici da cercare, sulle mascherine da distribuire, sui camici da reperire.
Il nuovo direttore generale invece è un vecchio volpone della sanità. Marco Trivelli ha fatto il manager all’ospedale Niguarda di Milano, al Sacco, agli Spedali civili di Brescia. Cinquantasei anni, bocconiano, viene dal mondo di Comunione e liberazione, era tra gli uomini-sanità di Roberto Formigoni, ai tempi del suo celeste impero. Se oggi arriva a Palazzo Lombardia con la missione di far dimenticare la gestione dell’emergenza più disastrosa d’Europa è segno che, da una parte, la sua competenza manageriale è sopravvissuta al naufragio del Celeste; dall’altra, che né la Lega di Martinelli-Caparini, né la Forza Italia “laica” di Gallera e soci hanno uomini da mettere nei posti più delicati. C’è già profumo di Cl ai vertici di aziende regionali importanti come Aler e Trenord, ora anche in quello della sanità. Le opposizioni intanto scalpitano. Il Pd, con Pietro Bussolati, apprezza che almeno una testa sia saltata, seppur come “capro espiatorio tecnico di responsabilità che sono politiche”. I Cinquestelle sottolineano il ritorno al passato: “Si scrive Trivelli si legge Formigoni”, dice Gregorio Mammì, consigliere regionale M5s. “La sanità lombarda va riformata cancellando la riforma di Roberto Maroni, togliendo le mani dei partiti dalle nomine, garantendo più risorse alla sanità pubblica e al sistema territoriale”.

mercoledì 10 giugno 2020

LA TRAGEDIA ALL’ITALIANA TRA COGNATI E “BIDONI” - Antonio Padellaro

I magliari(Francesco Rosi,1959) – LettereDiTransito

Nella tragedia all’italiana vista su Report l’intervista al citofono con il cognato di Attilio Fontana potrebbe essere il sequel Covid di “Un eroe dei nostri tempi”. E se anche (purtroppo) non c’è più Alberto Sordi, ritorna pur sempre l’eterna maschera del cognato, che da Pillitteri (Bettino Craxi) a Tulliani (Gianfranco Fini) è il parente fatale, figura incuneata tra famiglia e politica con effetti non sempre positivi per entrambe. Rispetto ai Monicelli e ai Dino Risi in più abbiamo il citofono, apparecchio oltremodo a rischio per chi chiama (Salvini al Pilastro: “Lei spaccia?”), e se lo sventurato risponde. Infatti, uno si chiede cos’è che il cognato di Fontana (che sembra interloquire dalla cucina con uno strofinaccio sulla bocca) vuole nasconderci? I rubinetti d’oro? La vasca dei coccodrilli per giornalisti ficcanaso? O il quintale di camici che gli sono rimasti sul groppone? Nel cinema vero di Report spiccano gli “amici miei” di Matteo Salvini con l’assessore trentino che promuove le settimane bianche a epidemia incombente (infatti è pure albergatore). E le conoscenze della non diversamente leghista Donatella Tesei, presidente di quella Regione Umbria che paga 150 mila euro in più del prezzo di mercato una partita di test sierologici procurati da un imprenditore, immortalato accanto a essa in una cena elettorale (del tutto casualmente s’intende). E se fosse una pellicola neorealista che titolo daremmo all’accordo tra il Policlinico San Matteo di Pavia e la Diasorin, annullato dal Tar: i test acquistati dalla Regione Lombardia per gli screening di massa (mezzo milione senza gara a 4 euro l’uno)? Il Bidone? Presto, con i 170 miliardi e rotti che stanno per planare dall’Europa sull’Italia avremo, vedrete, una stagione cinematografica pimpante. Un paio di remake: “ I Magliari”, “Finché c’è virus c’è speranza”. E l’“Audace colpo dei soliti noti”. Che in sintonia con lo spirito del tempo si chiamerà: “Ce la faremo”.

Le 2 sorprese Lagarde e Georgieva (Fmi) Invitati Piano e Fuksas- Salvatore Cannavò

Le 2 sorprese Lagarde e Georgieva (Fmi) Invitati Piano e Fuksas

Anche la Nobel Esther Duflo, grande esperta di povertà.
A differenza del cacao, Vittorio Colao non è meravigliao. Il suo piano, fitto di analisi e proposte dettagliate, non scalda i cuori. Nemmeno di quelli che invece dovrebbero trovarci sostegno e rappresentanza, basti guardare allo spazio risicato che gli ha riservato Il Sole 24 Ore.
Il punto è che al suo piano manca l’idea-forza, quello spunto che possa scaldare gli animi e indicare una strada. Ora Conte, con il programma dei “suoi” Stati generali, compie uno scarto rispetto alla task-force di Colao pur senza giungere a una sconfessione. Il manager sarà presente agli Stati generali, ma ci saranno talmente tanti e variegati attori economici, sociali, intellettuali da modificare ampiamente il campo di gioco.
La mossa a sorpresa è la presenza di Christine Lagarde accanto a Ursula von der Leyen, oltre alla direttrice del Fmi, Kristalina Georgieva. Il governo Conte era nato nel segno di “Ursula” con il premier che si spese in prima persona per favorire il voto del M5S alla nuova presidente della Commissione europea. Ma, finora, l’aiuto più diretto e concreto all’Italia è giunto dalla Bce che, dopo l’iniziale gaffe di Lagarde – “Non siamo qui a chiudere lo spread” – ha iniettato miliardi di euro sui mercati obbligazionari per rastrellare titoli del debito pubblico. E dopo la decisione di aumentare il piano anti-pandemia, Pepp, di 600 miliardi oltre i primi 750, lo spread tra i Btp italiani e il Bund decennale tedesco si è effettivamente ridotto.
Lagarde è l’emblema della politica europea che serve a qualche cosa. Il suo ruolo è invocato anche dai sovranisti che spingono per la monetizzazione del debito. Conte riesce nell’impresa di farsi accompagnare così da due figure chiave dell’attuale snodo europeo e la loro presenza agli impegnativi Stati generali serve a sostenere le ragioni italiane. La presenza viene condita dall’invito rivolto anche alla Georgieva e al segretario dell’Ocse, l’Organizzazione di cooperazione sociale ed economica composta da 36 membri, Angel Gurrìa. Sia la Georgieva sia Gurrìa sono esponenti di un pensiero liberale e conservatore, ma Conte ha voluto pure Olivier Blanchard, già capo economista del Fmi negli anni più duri della crisi post-2008, esponente di un pensiero mainstream che però ha dovuto recitare in seguito più di un mea culpa. Invito ancora più interessante quello rivolto al premio Nobel, Esther Duflo che ha ricevuto il riconoscimento grazie agli studi sulla povertà globale.
Conte vuole parlare con tutti, le opposizioni, gli interlocutori internazionali, tutte le organizzazioni sociali. Per capirsi: non solo Confindustria e i tre sindacati principali. E dunque Confcommercio, Confapi ma anche, in linea con l’invito alla Duflo, l’Alleanza contro la povertà, con esponenti del Terzo settore e molte altre realtà di società civile.
Accanto a Carlo Bonomi, presidente di Confindustria e finora duro avversario del governo, ci saranno molti esponenti delle più importanti industrie nazionali, a partire da Eni, Enel o Poste, singoli imprenditori. Come a dire, l’impresa è più ampia dell’attuale Confindustria. Anche sulle personalità si gioca su un fronte più largo: sono invitati Renzo Piano, ma anche gli architetti Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas.
Conte punta così a spazzare via le polemiche degli ultimi e ai presunti screzi con i Dem: agli Stati generali, del resto, ci saranno anche Paolo Gentiloni e David Sassoli, esponenti del Pd in Europa. In tal modo il partito di Zingaretti avrà meno occasioni di smarcarsi.
Se ricostruzione deve essere, però, servirà uno scatto, un’idea-forza, un orizzonte. In questi giorni è uscito il libro di Thomas Piketty in cui l’economista fa una proposta shock: tassare i patrimoni per erogare una “dote” di 120 mila euro a tutti i giovani di 25 anni. Magari Piketty è troppo socialista, la sua proposta è irrealizzabile e non è di questo che si parla. Ma la sua idea è di quelle che esattamente esprimono un’idea-forza. Anche al governo ne servirà una.