mercoledì 5 agosto 2020

Foreste, il professor Vacchiano: “Non basta piantarli, gli alberi vanno aiutati a resistere”. - Elisabetta Ambrosi

Foreste, il professor Vacchiano: “Non basta piantarli, gli alberi vanno aiutati a resistere”

"I boschi mettono in atto strategie di adattamento e resilienza proprie, ma anche noi possiamo aiutarle, prevenendo mortalità, incendi e parassiti".
Assorbono le nostre emissioni, ci danno acqua, cibo e ristoro spirituale. Eppure le foreste, in epoca di cambiamento climatico, sono sottoposte a fortissimi stress e dunque sono anch’esse a rischio. Molto però si può fare, come spiega Giorgio Vacchiano, docente di Gestione e pianificazione forestale alla Statale di Milano e autore di La resilienza del bosco. Storie di foreste che cambiano il pianeta (Einaudi). “Non solo i boschi mettono in atto strategie di resilienza e resistenza proprie, ma anche noi possiamo aiutarle ad adattarsi meglio, prevenendo mortalità, incendi e parassiti”.
Professore, perché senza boschi non potremmo vivere?
Le foreste ci danno il necessario per la sopravvivenza: un miliardo e mezzo di persone dipendono da loro per avere acqua e ottocento milioni per l’approvvigionamento diretto di cibo. Inoltre, in un’epoca di cambiamento climatico, gli alberi assorbono un terzo delle nostre emissioni. Infine, grazie alle foreste integre le popolazioni non sono in contatto con gli animali e si abbassa la possibilità dello spillover, il salto del virus da uomo e animale.
Qual è lo stato delle nostre foreste?
Ci sono due tendenze contrastanti. Da un lato c’è un aumento della superficie forestale spontaneo nei terreni abbandonati dall’agricoltura o nelle zone marginali non più economicamente utilizzate. Parliamo di 50.000 ettari ogni anno in Italia e 800.000 in Europa. Tuttavia, non sempre si tratta di una notizia positiva, perché è un fenomeno che andrebbe governato altrimenti si rischia, ad esempio, un aumento degli incendi. C’è però un altro lato oscuro.
Quale?
Molto spesso all’aumento delle nostre foreste corrisponde un aumento della delocalizzazione degli impatti, perché di terra e legna abbiamo bisogno. E così invece di deforestare a casa nostra, come si faceva fino al 1700, importiamo legno dal Sudamerica o dall’Indonesia, dove aumenta il prelievo e la conversione della foresta ad usi agricoli per produrre prodotti che servono ai paesi occidentali. Il fatto è che oggi è tutto legato e quindi se scompaiono le foreste in Sud America comunque noi ci andiamo di mezzo.
Come incide il cambiamento climatico sulle nostre foreste?
Nel mio libro parlo dei meccanismi incredibili di risposta e adattamento degli alberi a questi eventi estremi: il problema è se il numero e l’intensità di questi eventi cambiano troppo rapidamente, anche se dipende molto dai vari ecosistemi e dal tipo di foreste. Prendiamo gli incendi in Australia: ci sono sempre stati, ma bisogna vedere con che intensità e con che frequenza. Se prima una certa zona bruciava ogni cento anni le piante avevano il tempo di ricolonizzare ,se accade ogni venti si può superare la capacità di resilienza delle piante, rischiando un cambiamento di escosistema fatto di arbusti ed erbe. Un altro esempio: nel 2018 c’è stata una delle peggiori siccità degli ultimi due secoli in Europa centrale e ci sono state ampie zone di mortalità degli alberi a causa della siccità.
Esiste quindi “un punto di non ritorno” per i boschi?
Esistono vari studi sui cosiddetti “tipping point” per quanto riguarda la foreste tropicali. E non parliamo solo delle giungle piovose, ma anche delle foreste tropicali aride, dove basta una piccola differenza nella quantità di piogge per mandare in crisi l’ecosistema. Ma anche le foreste dell’Amazzonia sono un ecosistema fragile, perché il suolo è povero di sostanze nutritive e l’equilibrio si regge su un ciclo chiuso di materia organica prodotta dagli alberi stessi. Gli alberi sono enormi pompe d’acqua a ciclo chiuso che “sparano” il vapore in atmosfera in modo da formare la pioggia. Se questo ciclo viene disturbato, eliminando definitivamente anche solo un quarto dell’area disboscata, verrebbe a mancare l’acqua in atmosfera necessaria per formare la pioggia e la foreste potrebbe trasformarsi in savana.
Ma quali sono le capacità di reazione dei boschi?
Sono tantissime. Gli alberi sono cresciuti da sempre in un mondo che proponeva loro degli stress enormi, il fuoco è esistito sulla terra da quando ci sono gli alberi. Le piante hanno sempre convissuto con le fiamme, sviluppando strategie di resilienza, come la corteccia della quercia che è isolante. Nel libro racconto dei pini la cui pianta adulta muore, ma le cui pigne si aprono per il calore e spargono semi. Ma anche un castagno tagliato ricresce dal ceppo. Insomma nei modi di riprodursi gli alberi sono maestri molto più di noi, sanno ricrescere da una singola gemma.
Si fa molta retorica sulla “riforestazione” e sulla necessità di piantare alberi. È una cosa che serve?
È una cosa necessaria ma non sufficiente. Non basta piantare nuovi alberi, se voglio che l’albero agisca, cioè assorba carbonio, devo curarlo nei primi anni in cui è più fragile. Inoltre piantare monoculture in un ambiente di foresta mista biodiversa potrebbe essere negativo, come negativa potrebbe la piantumazione di alberi nelle zone polari perché rendendo più scuro il paesaggio potrebbero avere un effetto di riscaldamento. Pensi che ci sono in corso ricerche sulle modifiche genetiche, ad esempio della soia, che potrebbero schiarire le piante.
Come si gestiscono i boschi?
Sono scelte non facili, perché non sempre le cose che si devono fare sono omogenee, anzi ci possono essere obiettivi che richiedono strategie discordanti. Ad esempio la conservazione della biodiversità rispetto alla produzione di legno su scala industriale. Io penso che il segreto per armonizzare queste funzione sia la pianificazione: si prende come riferimento una regione, una vallata o un comune e si decide quali foreste ti devono dare che cosa, tenendo conto che quando prendi lo devi fare a un rimo più lento della velocità di ricrescita e tenendo conto del cambiamento climatico. Ma come dicevo, oggi è quanto mai necessario avere uno sguardo globale, perché qualsiasi cosa facciamo ha delle conseguenze altrove. Se conserviamo troppo qui vuole dire che prendiamo troppo altrove, ma occorre evitare la sindrome “nimby” (not in my back yard).
Come scrive nel suo libro, in molti casi anche tagliare è utile e anche praticare incendi mirati.
A volte tagliare alcuni alberi significa fare la differenza e impedire a tutti di morire, il diradamento è una forma praticata di adattamento. Si usa come prevenzione dalla siccità oppure per prevenire attacchi di insetti. L’assorbimento delle emissioni delle piante, ripeto, dipende anche dalla salute delle piante. Anche per la protezione del dissesto può essere necessario intervenire quando la foresta attraversa fasi meno adatte a stabilizzare il suolo o trattenere massi e valanghe e anche qui, come dicevo prima, le strategie possono essere diverse. La Svizzera ha fatto enormi investimenti sulla manutenzione delle foreste, che se lasciate a se stesse potrebbero non essere compatibili con la protezione del dissesto.
Come l’Italia sta proteggendo i boschi e quanti fondi servirebbero?
A Giugno si è conclusa la consultazione pubblica della nuova Strategia Forestale Nazionale, il documento che sarà alla base della gestione forestale per i prossimi vent’anni nel nostro Paese. La Strategia contiene molte novità interessanti, incoraggiando la mappatura di tutte le foreste che ci proteggono dal dissesto e delle foreste “vetuste” a più alto contenuto di biodiversità, il ripristino dei boschi degradati o colpiti da eventi estremi, gli interventi di prevenzione antincendi boschivi e per l’aumento della resistenza delle foreste alle tempeste, incentivando l’acquisto da filiere corte e di prodotti legnosi certificati, prevedendo programmi formativi per tutti gli operatori boschivi, e chiedendo a chi redige i piani forestali di effettuare una analisi puntuale delle vulnerabilità climatiche e di progettare interventi di mitigazione e adattamento. Per ogni azione, la strategia indica a quali risorse si potrebbe attingere per realizzarla, nella speranza che questi “suggerimenti” servano per “indirizzare” al meglio la tipologia di interventi ammessi a ricevere finanziamenti dai fondi pubblici comunitari e nazionali.
Parliamo del verde urbano. Le foreste urbane sono il nostro futuro? Ma come mantenere ciò che abbiamo?
Le foreste urbane hanno senso e non solo per assorbire carbonio. Le città sono luoghi dove gli impatti del calore sono più forti, dove si sfogano gli eventi metereologici estremi perché il suolo è impermeabile, dove gli effetti dell’inquinamento sono massici. Gli alberi possono fare tanto, per prevenire i danni da alluvione, assorbire il particolato che genera infezioni respiratorie e rinfrescare le temperature. Molte città sono partite con piani di riforestazione, non solo Milano, ma anche Napoli. Nel decreto clima di sono 30 milioni da spendere su questo fronte, poi sono tantissime anche le iniziative dal basso. Noi abbiamo lanciato la fondazione Alberitalia.it, https://www.alberitalia.it per dare consulenza scientifica a chiunque abbia progetti di impianto, per capire come e dove ripiantumare.
Quali comportamenti singoli aiuterebbero?
Il primo problema è quello della deforestazione dei paesi tropicali con perdita della biodiversità ed effetti sul clima, quindi il primo punto è non importare, né mangiare, prodotti responsabili di questo fenomeno. Nel Green Deal ci saranno strategie per mettere un freno all’importazione di questi prodotti. Sul legno già oggi i consumatori possono cercare il bollino di gestione sostenibile.
Quanto la preoccupa personalmente il cambiamento climatico?
Io vedo tantissime soluzioni a portata di mano e non mi riferisco solo alle foreste ma
soprattutto ai trend incoraggianti sull’energia rinnovabile, sulla decarbonizzazione dei trasporti e sull’economia circolare. Molte aziende ormai hanno capito che la conservazione del capitale naturale è parte integrante del loro business, e non un accessorio a cui dedicare rimasugli di bilancio o azioni di CSR di mera facciata. Se poi dovesse arrivare, come credo, una tassa sul carbonio le cose miglioreranno ulteriormente, ma già oggi è tecnicamente possibile una alimentazione energetica al 100% da fonti rinnovabili, anche in Italia (www.thesolutionsproject.org) . Arrivarci non è più tanto una questione di convenienza economica quanto di volontà politica. E il grande movimento popolare dei giovani per la lotta al cambiamento climatico potrebbe fornire la spinta che finora è mancata.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/08/04/giorgio-vacchiano-non-basta-piantare-alberi-le-foreste-vanno-aiutate-a-resistere/5887082/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=fatto-for-future&utm_term=2020-08-04

L’ascia o raddoppia. - Marco Travaglio

Sondaggi elettorali Piepoli: taglio parlamentari, 81% italiani per ...
Mi unisco al grido di dolore che si leva dalle spiagge di tutta Italia, raccolto da Antonio Padellaro con giusta trepidazione. Dall’Alpi al Lilibeo è tutto un allarme, uno sgomento, un’insonnia per la nuova legge elettorale che sciaguratamente non c’è e per la tirannide contiana che invece purtroppamente c’è (il premier pretende financo di confermare i capi dei servizi segreti, anziché farli nominare da Amadeus e Milly Carlucci, per dire come siamo messi). Ma c’è di più e di peggio, come mi faceva notare ieri mattina la sora Augusta in ciabatte che dava da mangiare ai piccioni a Trastevere: “Adesso non vorranno mica tagliare il numero dei parlamentari, che sono appena un migliaio? Io ne vorrei almeno diecimila! E la democrazia rappresentativa, dove la mettiamo? E poi a me chi mi rappresenta? La prego, lei che può faccia qualcosa contro la deriva populista, antipolitica e antidemocratica. Basta un niente e ci ritroviamo un Orbán e un Bolsonaro a Palazzo Chigi, che poi sarebbe tanto di guadagnato dopo il führer Giuseppi!”.
Attorno a lei, oltre ai piccioni, si è radunata una piccola folla plaudente. Chi recitava a memoria l’ultima intervista di Goffredo Bettini, da queste parti più popolare del fornaio e del pizzicagnolo (“Senza una nuova legge elettorale, dimezzare il numero dei parlamentari può persino diventare pericoloso per il regime democratico”). Chi sventolava l’editoriale di Stefano Folli su Repubblica: “Il pasticcio del referendum”, “disastro incombente”, “operazione temeraria”, “taglio cervellotico”, “un Parlamento a macchia di leopardo, alcune parti d’Italia sono rappresentate più di altre e qualcuna non lo è per nulla”, “Parlamento scardinato nelle sue funzioni istituzionali”, “amputazione fatta per motivi demagogici, per dare una lezione alla ‘casta’”, “scarsa o nulla considerazione della democrazia rappresentativa”, “nel Pd è troppo tardi per cambiare idea, visto che ci si è consegnati al patto di governo con Conte e i 5S”. Chi sbandierava il Buongiorno di Mattia Feltri su La Stampa: “I partiti più piccoli sparirebbero, i parlamentari sarebbero soldatini agli ordini del capo, il governo schiaccerebbe le Camere e farebbe come gli pare più di quanto faccia ora” e i parlamentari passerebbero per “cialtroni, scaldapanche, mangiapane a ufo e pure ladri”. C’era persino un lettore de Il Dubbio, guardato con comprensibile curiosità dagli altri, che declamava un pezzo di Mario Lavia, l’ex Sallusti di Renzi: “Il No al referendum fa proseliti nell’area del centrosinistra”, “la battaglia dei grillini e della destra sensibile alla gran litania dell’anticasta”, “accarezzano gli umori popolari dalla parte del pelo”.
Fortuna che “il ‘carfagnano’ di FI Cangini è fra i leader del comitato per il No assieme al dem Nannicini”, al grande Gori, ma soprattutto – e qui al passante brillavano gli occhi – “a cattolici democratici come Pierluigi Castagnetti”. Al nome Castagnetti, si levava in piazzetta un grido di giubilo, accompagnato da trombette e tricchetracche. Quando poi si apprendeva, sempre dal discepolo di Lavia, che “il manifesto e il Domani, oltre all’Espresso già in battaglia, faranno campagna per il No”, due fra i più giovani accendevano petardi e fuochi d’artificio per una piccola festa di quartiere che rischiava di arrostire un piccione. E diventava assembramento alla notizia che “si opporranno Sabino Cassese, Paola Severino, Angelo Panebianco e Leonardo Becchetti”, ma solo “probabilmente”. “Senza escludere pronunciamenti di peso e fortemente evocativi: Prodi, Arturo Parisi, Claudio Petruccioli, Claudia Mancina” e altri trascinatori di folle, non so se mi spiego. Gli astanti, incuranti della canicola, costituivano lì su due piedi un comitato del No al referendum di settembre.
Io avrei voluto rammentare alcune cosette: di ridurre gli eletti si parla molto autorevolmente da 40 anni; abbiamo le Camere più pletoriche, costose e improduttive d’Europa; molti attuali alfieri del No erano per il Sì alla controriforma Renzi-Boschi-Verdini del 2016 (che tagliava i parlamentari, ma solo al Senato, abolendone l’elettività e riducendolo a una cameretta-dopolavoro per consiglieri regionali e sindaci a mezzo servizio); la democrazia rappresentativa non dipende dal numero di eletti, che sono una convenzione, non le tavole della legge affidate da Dio a Mosè sul Sinai (sennò sarebbero antidemocratici gli Usa, che hanno 435 deputati e 100 senatori col quintuplo e più di abitanti, e la Germania, che ha 172 parlamentari meno e 20 milioni di abitanti più di noi); col taglio di un terzo (da 315+5 senatori a 200+5 e da 630 deputati a 400) avremmo 0,7 deputati ogni 100mila abitanti, in linea con la media dei grandi Paesi d’Europa (1 nel Regno Unito, 0,9 in Germania e Francia, 0,8 in Spagna); l’antipolitica e l’antiparlamentarismo escono indeboliti da una riforma così popolare; l’asservimento degli eletti ai capi-partito dipende dalle leggi elettorali fatte dalle destre (Porcellum), dal Pd (Italicum) e da Pd, FI e Lega (Rosatellum) che riempiono il Parlamento di nominati anziché di eletti e non impongono dimissioni a chi passa da sinistra a destra o viceversa. Ma l’entusiasmo in piazza mi ha contagiato: così ho lanciato l’idea di raddoppiare i parlamentari dagli appena 945+5 a 1890+10. Così la democrazia raddoppia e i problemi dell’Italia si dimezzano. Mi hanno fatto la ola.

I test della DiaSorin e quelle strane fatture della società leghista. - Antonio Massari e Davide Milosa

I  test della DiaSorin e quelle strane fatture della società leghista

Intrecci - All’attenzione dei pm i rapporti tra la Servire Srl (presidente del cda il salviniano Gambini) e la multinazionale degli esami sierologici.
Il Covid-19 oltreché un’emergenza sanitaria si è rivelato un affare per molti. Soprattutto in Lombardia. Accordi opachi, affidamenti diretti senza gare pubbliche, il tutto grazie alla politica che ha fatto da volano per il giro del denaro. In questo contesto si inserisce la non chiarita vicenda dell’accordo tra la multinazionale DiaSorin e l’ospedale San Matteo di Pavia per la commercializzazione dei test sierologici. Poi acquistati grazie a un affidamento diretto per due milioni dalla giunta del governatore Attilio Fontana. In questa storia, deflagrata dopo le perquisizioni del 22 luglio disposte dalla Procura di Pavia e l’iscrizione nel registro degli indagati dei vertici del San Matteo e di DiaSorin con le accuse di peculato e di turbata libertà nella scelta del contraente, si innesta oggi una novità di rilievo che rischia di terremotare la Lega. Il partito padano, stando agli atti delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Mario Venditti, appare il vero convitato di pietra.
Gli accertamenti della Procura proseguono soprattutto sulla figura di Andrea Gambini (perquisito ma non indagato), leghista della prima ora, già commissario provinciale del partito a Varese e titolare di diversi incarichi, dall’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano di cui è presidente alla direzione generale della Fondazione Istituto Insubrico di Gerenzano (Varese) che ha sede all’interno dell’Insubrias Biopark così come anche la Servire srl di cui Gambini è presidente del Cda. Sempre a Gerenzano si trova una seconda sede di DiaSorin. Ed è proprio sui rapporti commerciali tra Servire e DiaSorin che gli inquirenti puntano la lente. L’obiettivo è analizzare le fatture emesse dalla società di Gambini verso DiaSorin per capire quanto siano reali. Secondo i primi accertamenti molte causali allegate alle fatture risultano troppo generiche. Quasi tutte, secondo gli inquirenti, hanno le indicazioni “servizi vari”. Un elemento che se pur ancora da confermare ha messo la procura di Pavia sulla pista investigativa di fatture false per operazioni inesistenti. Al momento però nessun nuovo capo di imputazione è stato aggiunto. Di certo i rapporti tra Servire e DiaSorin sono molto stretti. Con le fatture emesse tra il 2019 e il 2020 si arriva a circa 1,5 milioni di euro. Nel solo 2019 la cifra è stata di 1,2 milioni a fronte di un volume d’affari dichiarato dalla società del leghista di 1,3 milioni. Dai numeri si comprende come DiaSorin sia quasi l’unico cliente di Servire. C’è poi da capire come la società di Gambini, con appena sette addetti dichiarati al 30 marzo, riesca a fornire servizi a DiaSorin per oltre un milione di euro. Giorno dopo giorno si capisce come l’accordo tra la multinazionale e il San Matteo sia stato orchestrato tra la Regione e la Provincia di Varese, vera culla leghista. Non pare un caso se i vertici del San Matteo e in particolare il presidente Alessandro Venturi (indagato) a partire dal 5 febbraio affidino un incarico legale a un penalista che lavora presso lo studio varesino dell’avvocato Andrea Mascetti, nome noto del cerchio magico leghista, vicino all’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti e, pur mai indagato, più volte citato negli atti dell’inchiesta “Mensa dei poveri” sul sistema delle tangenti gestito dall’ex coordinatore provinciale di Fi a Varese Nino Caianiello. Fino al 2018 Mascetti è stato vicepresidente della Fondazione Istituto Insubrico, nato nel 2006 grazie all’allora presidente della Provincia di Varese, il leghista Marco Reguzzoni. E così l’avvocato dello studio Mascetti, dopo una riunione con i vertici del San Matteo, lavora alla stesura di un esposto, firmato da Venturi, col quale si chiede alla Procura di indagare eventuali illeciti nel ricorso al Tar fatto dalla società Technogenetics esclusa dopo l’affidamento a DiaSorin.
L’esposto viene depositato un mese dopo la sentenza del Tar e dieci giorni prima che il Consiglio di Stato annulli la sospensiva per DiaSorin. E se i vertici del San Matteo si rivolgono a uno studio legale vicino alla Lega, le intercettazioni fissano i contatti tra alcuni vertici dell’ospedale indagati e Giulia Martinelli (non indagata), capo segreteria di Fontana nonché ex compagna di Matteo Salvini. Si tratta di colloqui sui quali la Procura sta facendo approfondimenti. Sul fronte, invece, dell’accordo San Matteo-DiaSorin la Procura si sta concentrando sui giorni precedenti il 20 marzo, data della firma. Per farlo ha acquisito le mail tra il virologo Fabio Baldanti (indagato) e la multinazionale. Tra le mail interne all’ospedale c’è poi quella di una funzionaria che il 16 marzo scrive al direttore scientifico Giampaolo Merlini (indagato) sollevando dubbi sulla bozza dell’accordo, a suo dire troppo sbilanciato a favore di DiaSorin. La donna è già stata sentita dai pm che vogliono capire da chi arrivò la bozza e chi ne decise il contenuto.

Borghesi, l’uomo che sussurra ai contabili di Capitan Salvini. - Stefano Vergine

Borghesi, l’uomo che sussurra ai contabili di Capitan Salvini

Il senatore - Con Manzoni, Di Rubba e il tesoriere Centemero, è socio della Mdr Stp che ha ricevuto mezzo milione di euro dalla Lega.
Martedì 14 luglio, ore 22. La mattina dopo, a Milano, la Guardia di finanza fermerà Luca Sostegni in procinto di scappare in Brasile. La Procura lombarda lo accuserà di essere un prestanome usato dai commercialisti della Lega, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, per sottrarre alla Regione Lombardia 800mila euro attraverso la compravendita di un immobile a Cormano. Poche ore prima che Sostegni inizi a parlare con i magistrati, nel centro storico di Roma, in piazza di San Clemente, due uomini sulla quarantina passeggiano. E parlano. Uno di loro è Manzoni. L’altro è Stefano Borghesi, bresciano di Lumezzane, commercialista come Manzoni, ma soprattutto uomo del cerchio magico di Matteo Salvini, vice del Capitano ai tempi della segretaria della Lega Lombarda, senatore e presidente della commissione permanente Affari costituzionali.
Un fedelissimo del Capitano a colloquio con Manzoni, nei giorni caldi dell’inchiesta su cui Salvini continua a definirsi “assolutamente tranquillo” e Manzoni “completamente estraneo”. Cosa si dicevano Manzoni e Borghesi? Lo abbiamo chiesto a Borghesi, ma nel momento in cui il giornale va in stampa il senatore non ci ha ancora risposto.
Borghesi non è indagato per la vicenda della Lombardia Film Commission. Il suo legame con i commercialisti leghisti finiti sotto il faro della Procura è però un fatto documentato. Quarantatre anni, laurea in Economia e commercio, un paio di nomine nei consigli di revisione contabile di società a controllo pubblico (Agea e gruppo Poste Italiane), Borghesi è in affari con Manzoni e Di Rubba. E anche con Giulio Centemero, l’ex assistente personale di Salvini diventato tesoriere del partito.
I quattro condividono infatti le quote azionarie della Mdr Stp Srl. È la piccola società che, fra il 2018 e il 2019, ha ricevuto 39 bonifici da Lega per Salvini Premier, Lega Nord e Radio Padania. Un totale di quasi mezzo milione di euro bonificato dalle casse del partito – gravato dal debito dei 49 milioni di euro frutto della truffa sui rimborsi elettorali ottenuti presentando bilanci falsi – e arrivato a quelle dell’impresa privata dei suoi esponenti. Motivo? Servizi contabili: questo almeno è l’oggetto sociale della società dei commercialisti di fede salviniana.
“Al di là della cifra, sono tranquillo, perché tutti i soldi sono tracciati e l’attività è stata svolta ed è sotto gli occhi di tutti”, ha spiegato ieri Manzoni all’AdnKronos in merito ai bonifici ricevuti dalla sua impresa privata. Di sicuro il suo socio Stefano Borghesi è una figura importante nella ragnatela finanziaria leghista costruita dopo l’avvento di Matteo al potere. Devono averlo pensato anche Manzoni e Di Rubba quando hanno scelto di mettersi in società con lui e Centemero. Questione di date e di ruoli. La Mdr Stp Srl è infatti un’azienda di recente costituzione. È stata fondata nell’ottobre del 2018, quando i giornali avevano già raccontato di strani giri di soldi che dalla Lega erano finiti a società legate a Di Rubba e Manzoni. Ne aveva scritto L’Espresso per la prima volta nel giugno del 2018.
Perché i due commercialisti, appena venuti alla ribalta delle cronache, pochi mesi dopo decisero di creare una nuova impresa con dei parlamentari leghisti, rischiando di attirare su di essa l’attenzione mediatica che infatti è arrivata? Le quote della Mdr Stp peraltro non sono distribuite in modo equo: Di Rubba e Manzoni detengono il 96% dell’azienda, mentre Borghesi e Centemero sono titolari del 2% ciascuno. Insomma, degli eventuali utili aziendali i due parlamentari beneficerebbero in minima parte. Una spiegazione potrebbe trovarsi fra le norme che regolano le perquisizioni. Che succede se la polizia giudiziaria deve perquisire gli uffici di una società privata tra i cui soci ci sono dei parlamentari? Succede che non basta presentarsi con un decreto firmato da un giudice.
Se infatti un parlamentare (e qui sono due) ha il suo ufficio personale all’interno dell’azienda, la faccenda si è molto più complicata. Serve il voto della giunta per le autorizzazioni, cioè l’ok da parte degli stessi colleghi in Parlamento. Lo sa bene Roberto Maroni, che in virtù di questa garanzia nel ’96 evitò una perquisizione giudiziaria per la vicenda della “Guardia nazionale padana”. Ma non è sicuramente con questo obiettivo che Borghesi & C. hanno creato un’impresa.

Riaperto al traffico il nuovo ponte di Genova.

Il nuovo ponte Genova San Giorgio

Il viadotto Genova-San Giorgio, sulla A10, inaugurato lunedì e' stato riaperto al traffico veicolare al termine delle verifiche compiute dalla Direzione di Tronco di Genova di Aspi e dopo che la struttura commissariale è intervenuta per rifare un piccolo tratto di asfalto. L'apertura è avvenuta alle 22:04, due ore dopo rispetto a quanto era stato ipotizzato. Ora il ponente e il levante della città sono 'ricuciti'.

Sono transitate le prime auto sul ponte San Giorgio. C'è già un flusso regolare. Le auto hanno salutato l'apertura suonando i clacson mentre i motociclisti hanno fatto il segno della vittoria con una mano. Il traffico sta scorrendo in entrambi i sensi di marcia.
 Ponte Genova-San Giorgio, il viadotto tutto d'acciaio, è finalmente aperto alle auto, ai grandi tir che vanno verso il porto, aperto all'Italia e all'Europa del Nord Ovest.

Dopo la cerimonia di inaugurazione di lunedì, alla quale - vuoi per la pioggia, vuoi per pudore nei confronti dei familiari delle vittime - è mancata la caratteristica della festa, oggi l'ufficio del Commissario straordinario per la ricostruzione del viadotto sul Polcevera ha pronunciato la sua ultima parola di questa storia infinita, cedendo a Autostrade per l'Italia l'esercizio della viabilità sul nuovo viadotto. Un passo necessario, dopo il certificato di agibilità di Anas, per far riprendere la circolazione dei mezzi su quel nastro lungo 1.067 metri e fatto di acciaio e bitume che tanto vogliono dire per il traffico cittadino e interregionale, per l'economia di una regione e per il saper fare del Paese. Dopo la cessione dell'esercizio, Aspi ha compiuto i suoi primi passi - passi veri prima e passi burocratici poi - sul quel ponte che una volta sgombrato da gonfaloni e bandiere sembra sempre di più il ponte di una nave. Il Direttore di Tronco Mirko Nanni, assieme a alcuni tecnici e ingegneri specializzati, ha effettuato un sopralluogo per vedere se il tratto di autostrada dove ieri è stata allestita la zona per la cerimonia fosse tornato alla normalità, se i guardrail che erano stati rimossi fossero stati rimessi a posto, se il fondo stradale non avesse subìto i danni. Al termine della verifica, steso e firmato un verbale di sopralluogo secondo le procedure previste. è stato dato il via libera.

Intanto vanno avanti le indagini nate dal crollo del viadotto. La procura di Genova ha acquisito le due lettere di contestazione che l'ispettore Placido Migliorino ha inviato ad Aspi nelle quali si parla di un "grave inadempimento" per i cantieri sulla rete genovese e "i termini di attuazione del cronoprogramma dei lavori e delle ispezioni delle gallerie liguri". Le missive erano state inviate ai pm dal Mit.

Aspi scrive al governo, in due lettere cambia rotta - In una prima lettera del 14 luglio un meccanismo con una scissione proporzionale, un aumento di capitale riservato a Cdp e l'ingresso di nuovi soci, con risorse da riservare agli investimenti e al ripianamento del debito, prima di arrivare alla quotazione. In una seconda missiva, con la data di oggi, due diverse proposte che prevedono da una parte un processo di vendita competitivo, al quale Cdp "potrà" partecipare oppure un processo di scissione con la creazione di una società da quotare creando una public company. E' il cambio di rotta deciso, che modifica lo schema iniziale, quello contenuto in due lettere che l'ANSA ha potuto visionare che Autostrade per l'Italia ha inviato agli interlocutori di governo. Tra le due scadenze, certo, un confronto che non ha ancora portato ad un accordo.

Genitori di una vittima: 'La festa aumenta il nostro dolore' - "Altro che festeggiamenti, altro che orgoglio nazionale. Il nuovo ponte di Genova non è una rinascita, ma il simbolo del fallimento e di 43 vite ingoiate da un ponte fatiscente che qualcuno ha permesso crollasse in qualche modo". Lo hanno detto Franco e Daniela Fanfani, in un'intervista al quotidiano La Nazione: sono i genitori di Alberto Fanfani, medico morto a 32 anni nel crollo del ponte Morandi insieme alla fidanzata Marta Danisi, 29 anni, mentre lui la accompagnava ad Alessandria dove aveva ottenuto in ospedale il posto a tempo indeterminato come infermiera. Le celebrazioni per l'inaugurazione del nuovo ponte 'Genova San Giorgio', ha affermato Franco Fanfani, "è insopportabile per chi come noi ha perso un proprio caro. Serve solo a aumentare il dolore che mia moglie e io portiamo dietro, come tutte le altre famiglie coinvolte. Non è una una rinascita, non c'è niente da celebrare. Altro che sfilate dei politici". Daniela Fanfani ha parlato di "pianto e dolore. Ogni ponte che vedo mi si chiude lo stomaco. Altro che passerelle. I politici e gli amministratori avrebbero dovuto mettersi sotto il ponte, chinare la testa e vergognarsi di ciò che è successo". La madre di Alberto ha ricordato che il figlio "stava accompagnando" la fidanzata "a Alessandria, all'ospedale dove aveva ottenuto il contratto a tempo indeterminato come infermiera. Lui stava per prendere la specializzazione in medicina. 'Potrò fare il medico come sogno da sempre' mi aveva detto con orgoglio. Avevano anche fissato la data delle nozze: 25 maggio 2019. Erano felici. Erano insieme. E insieme sono morti in quel maledetto crollo".

martedì 4 agosto 2020

Il Colle e Conte contro i Benetton: il ponte United Colors arcobaleno. - Lorenzo Giarelli

Il Colle e Conte contro i Benetton: il ponte United Colors arcobaleno

Al taglio del nastro commozione per le 43 vittime, poi le accuse ai concessionari: “I responsabili hanno nomi e cognomi”.
Mezz’ora prima dell’arrivo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Renzo Piano passeggia a lungo sul ponte Genova San Giorgio. L’ombrello in mano lo ripara dal diluvio, mentre sussurra a chi gli si avvicina i segreti del viadotto che ha regalato alla sua città e che a meno di due anni dal crollo del Morandi – era il 14 agosto 2018 – restituisce finalmente un collegamento alla Val Polcevera. È l’immagine che anticipa la sfilata delle più alte cariche dello Stato a Genova, nel giorno in cui si inaugura il nuovo viadotto.
Lo ripetono tutti: questa non è una festa. Lo ha detto Mattarella ai familiari delle vittime, che hanno preferito non partecipare alla cerimonia incontrando in privato il capo dello Stato in prefettura. Lo ribadiscono dal palco sul ponte il sindaco di Genova Marco Bucci, il governatore ligure Giovanni Toti, il già citato Renzo Piano e poi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Prima dei discorsi di rito suonano l’inno nazionale e il silenzio militare, poi vengono scanditi i nomi di chi perse la vita sul Morandi. È il momento più toccante del pomeriggio. “La prima cosa che mi viene in mente è il ricordo per le vittime e le loro famiglie”, esordisce Bucci. Toti sceglie le sue parole d’ordine: “‘Mai più’ e ‘sempre così’, perché nessuno deve morire più in questo modo e perché ogni infrastruttura dovrebbe essere realizzata così come è stato realizzato il nuovo ponte”. Renzo Piano ripropone la metafora che più gli è cara: “Ho immaginato il ponte come un vascello bianco”. Storia di mare, come nella Crêuza de mä di Fabrizio De André, rivisitata per l’occasione da 18 artisti.
Il discorso del premier, che arriva quando in cielo è comparso un arcobaleno, è quello più politico, con l’orgoglio per la decisione di sottrarre il controllo delle autostrade ai privati: “Il governo ha ritenuto doveroso promuovere il complesso procedimento di contestazione degli adempimenti che hanno causato il crollo del ponte. Questo procedimento si è concluso con l’accordo di ridefinire i termini della convenzione, con la possibilità di garantire in modo più efficace gli investimenti per la manutenzione”. Tradotto: il ponte viene consegnato ai Benetton (attuali concessionari), ma presto tornerà allo Stato. Non è un caso che Conte ne parli. Poco prima Mattarella, nell’incontro in Prefettura, era stato chiaro: “Le responsabilità non sono generiche, hanno sempre un nome e un cognome. E sono sempre frutto di azioni o omissioni, quindi è importante che ci sia un accertamento severo, preciso e rigoroso delle responsabilità”.
E se Renzo Piano spera in un ponte “amato perché semplice e forte come la città”, Conte menziona Piero Calamandrei e la sua rivista Il Ponte: all’epoca “il ponte” era tra le macerie della guerra e il futuro, oggi può “creare una nuova unità dopo la frattura del crollo”.
Il taglio del nastro e le frecce tricolori concludono la cerimonia facendo lentamente smaltire gli ospiti. Tra loro, come detto, non c’è l’associazione dei parenti delle vittime, ma c’è Emmanuel Henao Diaz, che nel crollo perse il fratello: “Mi sento in dovere di partecipare per dimostrare a mio fratello che non faccio finta di niente, come invece chi doveva pensare alla sicurezza di quel ponte”. Per il resto, tra le centinaia di invitati ci sono giuristi, dirigenti e soprattutto politici.
L’inaugurazione dà modo a tutti di esultare: al governo, ma anche a Bucci, peraltro commissario straordinario per la ricostruzione, e Toti, governatore in campagna elettorale, che in mattinata incontra la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Con loro c’è mezzo governo (Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Luciana Lamorgese, Paola De Micheli) e l’ex ministro Danilo Toninelli, coi presidenti delle Camere, la presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia e i vertici di Fincantieri. Non manca la retorica del “Paese che si rialza” e di “Genova che riparte”, ma per una volta sembrano crederci tutti.

Trattativa ferma tra Cdp e Atlantia Slitta pure l’intesa sulla concessione. - Cdf

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Che il governo non si sarebbe presentato a Genova con lo scalpo ottenuto dell’uscita dei Benetton era noto da giorni. Ieri però si è aggiunto l’ulteriore allungamento dei tempi. La ministra dei Trasporti Paola De Micheli ha ammesso che domani non ci sarà la firma con Autostrade per l’Italia (Aspi) per il rinnovo del Piano economico finanziario e del nuovo “Atto aggiuntivo”. È un passo fondamentale per riequilibrare la concessione a favore della parte pubblica in base all’accordo sancito col governo. Serviranno diversi incontri tecnici per capire se le proposte di Aspi sono coerenti con il nuovo modello tariffario voluto dall’Autorità dei Trasporti. L’intesa necessita poi di un parere dell’Avvocatura e dovrà infine passare al vaglio degli organi tecnici, a partire dal Cipe.
L’accordo è fondamentale per dare un valore ad Autostrade e sbloccare la trattativa tra Atlantia e la Cassa Depositi e Prestiti. Ieri gli uomini della holding controllata dai Benetton hanno chiesto un rinvio a metà settimana dell’incontro previsto in giornata. La distanza tra le parti è notevole. Nei piani del governo Cdp dovrebbe assumere il controllo con un aumento di capitale che la porti al 33% di Aspi, Atlantia venderebbe poi a investitori graditi alla Cassa un altro 22%, infine Aspi verrebbe scissa dalla holding e quotata permettendo ai soci, in primis i Benetton, di uscire. Manca però l’accordo su due punti fondamentali. Il primo è il valore di Aspi (sotto i 6 miliardi Altantia non avrebbe perdite a bilancio, sopra ci guadagnerebbe pure). La holding vuole anche un meccanismo compensativo in caso il valore della quotazione di Aspi risulti superiore a quello di ingresso di Cdp. Il secondo è la manleva legale chiesta da Cdp: Atlantia non ne vuole sapere.