venerdì 7 agosto 2020

“Quaranta nuove atomiche Usa entro tre anni in Italia”. - Stefania Maurizi

“Quaranta nuove atomiche Usa entro tre anni in Italia”

È il bombardamento che ha cambiato per sempre la Storia. Settantacinque anni fa, la città giapponese di Hiroshima veniva distrutta dalla prima bomba atomica. Uccise istantaneamente 70mila persone – appena 4 mesi dopo erano 140mila – e aprì una nuova era: l’era nucleare, in cui l’uomo acquisì la capacità di sterminare l’intera specie umana in un colpo solo. Tre giorni dopo Hiroshima, toccò a Nagasaki: nei due bombardamenti furono uccise circa 300mila persone e da allora si affermò “il tabù nucleare”. A oggi non sono mai state più usate in combattimento. Ma ne sono state costruite decine di migliaia: nel pieno della Guerra fredda, ce ne erano almeno 70.300. Secondo l’esperto americano Stephen Schwartz, si stima che, dagli anni 40 al 1996, gli Usa da soli abbiano speso 5.800 miliardi di dollari in valuta del 1996 per queste armi. Quanti sono 5.800 miliardi? Se prendiamo banconote da un dollaro e le mettiamo una sopra l’altra arriviamo fino alla Luna e torniamo indietro. E oggi? Il Fatto Quotidiano ha intervistato l’autorità in materia di questi armamenti: Hans Kristensen della Federation of American Scientists.
Settantacinque anni dopo Hiroshima e Nagasaki, quante armi nucleari ci sono nel mondo?
Dalle nostre stime, ne risultano circa 13.400.
Nel novembre scorso, lei ha pubblicato una ricerca secondo cui gli Usa hanno 150, forse 100, ordigni nucleari stoccati in Europa e l’Italia rimane il paese europeo col più alto numero di bombe e l’unico con due basi nucleari: Aviano e Ghedi. Lei ha stimato che ci siano 20 armi nucleari ad Aviano e 20 a Ghedi. Queste cifre sono ancora attuali?
Sì, sono le mie stime aggiornate.
Le vecchie bombe stoccate ad Aviano e Ghedi sono le B61-3 e B61-4, ma verranno presto rimpiazzate dalle nuove: le B61-12. Quante ne arriveranno e cosa avranno di diverso?
A meno che la Casa Bianca non dia nuove disposizioni, il numero rimarrà lo stesso di quelle già oggi presenti e la potenza sarà la stessa delle B61-4: la nuova bomba B61-12 usa la stessa struttura in termini di testata nucleare. Il potenziamento, dal punto di vista militare, non è da ricercare nella testata, ma nel kit di coda che triplicherà la precisione della bomba.
Che cosa sappiamo dell’accordo Usa-Italia che consente agli americani di stoccare le loro armi nucleari nel nostro Paese?
L’accordo bilaterale è segreto, ma è noto da anni col nome in codice Stone Ax. A meno che non siano intervenuti, rimane quello. Contiene le regole che Usa e Italia hanno concordato per lo stoccaggio, la custodia e, potenzialmente, l’uso. L’accordo disciplina in particolare come vengono custodite le bombe nelle basi di Aviano e Ghedi.
L’Italia aderisce al più importante strumento per limitare le Atomiche: il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Tnp). La loro presenza sul territorio italiano è legalmente compatibile con esso?
Sì, il Tnp non limita in alcun modo né regola il dispiegamento delle armi nucleari. Tuttavia, proibisce il trasferimento diretto o indiretto di questi ordigni da una potenza nucleare a una non nucleare. Poiché, però, il trasferimento delle bombe Usa all’Italia e le intese di condivisione di queste armi risalgono a un periodo precedente alla data in cui il Tnp fu firmato, né lo stoccaggio né le intese violano il Trattato dal punto di vista legale. Detto questo, però, poiché questi ordigni sono stati consegnati per essere usati dall’Italia in caso di guerra e poiché l’Aeronautica militare italiana è stata dotata di essi ed è stata addestrata al loro uso, a mio avviso, non c’è dubbio che le intese violino eccome lo spirito del Trattato, nonostante da un punto di vista strettamente legale non sia così.
Quando arriveranno le nuove bombe in Italia?
Probabilmente tra il 2022 e il 2023.
Chi le sta costruendo?
Tutte le armi nucleari vengono prodotte negli Usa: la testata nucleare viene costruita e gestita dal Los Alamos National Laboratory, le componenti non nucleari sono sviluppate dal Sandia National Laboratories e assemblate al Kansas City Plant, e il kit di coda verrà prodotto dalla Boeing. Una volta pronte tutte le componenti, le bombe vengono assemblate al Pantex Plant in Texas.
Se le truppe americane e gli F-16 verranno spostati dalla Germania, la decisione avrà impatto sulle armi nucleari americane stoccate in Italia?
No. Lo squadrone di F-16 che verrebbe spostato dalla base di Spangdahlem ad Aviano non è assegnato a missioni nucleari. Quel ruolo è assegnato a due squadroni di F-16 che si trovano già ad Aviano.

Soldi mai spesi, bonifiche ferme e rimpallo di responsabilità: e Brindisi è ancora (troppo) inquinata. - Maria Cristina Fraddosio

Soldi mai spesi, bonifiche ferme e rimpallo di responsabilità: e Brindisi è ancora (troppo) inquinata

Una delle più ampie discariche di scarti industriali - con un danno ambientale stimato in 200 milioni di euro - è da trent'anni in attesa di una soluzione. Ma finora si sono registrati solo tumori, malattie cardiovascolari e respiratorie e malformazioni alla nascita.
Era l’8 marzo 1959 quando l’allora presidente del Consiglio, Antonio Segni, si recò a Brindisi, in Puglia, per deporre la prima pietra del polo petrolchimico di proprietà della società Montecatini. Disse che quella doveva essere “una pietra lanciata in uno stagno che (avrebbe dovuto allargarsi, ndr) in cerchi di benessere”. Nessuno immaginava che quell’area si sarebbe trasformata in una delle più grandi discariche di scarti industriali. Nel ’61 gli impianti entrarono in funzione. Veniva trattato il petrolio grezzo e si avviò la produzione di materie plastiche. Nel frattempo i rifiuti venivano sversati in prossimità degli impianti, nell’area a ridosso del mare che successivamente prese il nome di Micorosa dall’azienda subentrata in uno degli innumerevoli passaggi societari.
Fanghi di idrossido di calcio, acetilene, cloruro di vinile, dicloroetano si accatastarono al suolo, compromettendo anche la falda. Ma il sogno industriale continuò, fino al boato che la notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1972 stravolse la città. Lo scoppio dell’impianto di cracking causò la morte di tre operai e 50 feriti. Negli anni gli impianti passarono di società in società, ovvero da Edison a Eni, con un breve intervallo nel ’92 della srl Micorosa, poi fallita. Nel ’90 Brindisi fu dichiarata area ad alto rischio di crisi ambientale. Qualche anno dopo i nomi di circa 200 operai morti di cancro finirono agli atti della Procura. Il processo al petrolchimico durò un decennio e si concluse con l’archiviazione per l’infondatezza della notizia di reato (Allegato 3).
Il piano di risanamento (Allegato 1) e l’istituzione del Sito di interesse nazionale vennero approvati nel ’98. La perimetrazione per la bonifica fu fatta nel 2000 e incluse più di 11mila ettari, 5.700 di terra e 5.600 di mare. Ad oggi la caratterizzazione, ovvero la ricostruzione dettagliata della contaminazione, risulta effettuata per l’89% e i progetti di messa in sicurezza approvati riguardano il 16% della falda e il 12% della terra. In entrambi i casi si è concluso meno del 10%. All’interno del Sin vi è l’area industriale, il porto, 30 chilometri quadrati di costa, il petrolchimico e la centrale termoelettrica a carbone Enel di Cerano. Vi è pure un’ampia zona agricola, attraversata dall’asse attrezzato per il trasporto del carbone, che è stata oggetto di una lunga vicenda giudiziaria. E un Parco naturale regionale “Saline di Punta della Contessa”, istituito nel 2002, al cui interno c’è la discarica Micorosa. Un paradosso venuto alla ribalta nel 2014.
In quest’area di circa 50 ettari, l’unica al momento soggetta a bonifica, che in realtà consiste in un confinamento dei rifiuti, si calcolano 1,5 milioni di metri cubi di fanghi a cielo aperto fino a 5 metri di profondità. Con l’Accordo di Programma del 2007 (Allegato 4) si decise che lo Stato avrebbe realizzato la messa in sicurezza “rivalendosi sui soggetti obbligati che non vi provvedano direttamente o non richiedano di usufruire dei benefici del presente accordo”. Si stimò un danno ambientale di 200 milioni di euro, 135 sarebbero serviti per gli interventi di risanamento. Il costo sarebbe stato ripartito tra le società sulla base delle superfici di cui erano proprietarie e del livello di contaminazione. Le somme sarebbero state corrisposte al ministero dell’Ambiente “in 10 anni senza interessi”. “Vorremmo avere un chiarimento su dove siano finite, dovrebbero ammontare a 70 e 80 milioni,”, annuncia il sindaco di Brindisi e presidente della Provincia, Riccardo Rossi. Anche Il Fatto Quotidiano ha chiesto lumi al ministero, ma né il ministro Sergio Costa, né il sottosegretario Roberto Morassut si sono espressi. All’accordo del 2007 è seguita una convenzione tra Regione, Ministero e Sogesid, la società in house del suddetto dicastero, a cui è stata affidata la redazione dello studio di fattibilità, il progetto preliminare e il progetto definitivo della bonifica di Micorosa.
Nel 2013 a Brindisi vengono destinati 40 milioni di euro. Con lo Sblocca Italia diventano 48,6. Nel 2015 altri 25. Tutti fondi pubblici da recapitare al Comune attraverso la Regione. In città – dichiara il responsabile unico del procedimento, l’ingegnere Gaetano Padula – “ne sono arrivati 4, non ancora spesi del tutto”. L’unica società, proprietaria di 323 ettari di Sin di cui un centinaio all’interno del petrolchimico, che sta eseguendo la messa in sicurezza a proprie spese nell’area esterna a Micorosa, è Eni (Allegato 5). “Le operazioni di risanamento – fa sapere il colosso petrolifero – hanno raggiunto un avanzamento complessivo pari a circa il 65%. L’impegno economico sostenuto è pari a circa 90 milioni di euro. Si prevede il completamento della bonifica della falda tra circa 10 anni e del progetto Micorosa in 2”.
Una battuta d’arresto, però, potrebbe essere causata dallo stop ai lavori nella parte interna a Micorosa, gestita dallo Stato, giacché le operazioni di risanamento dovrebbero procedere di pari passo. Il contratto tra il Comune e il consorzio Co.me.ap, che si è aggiudicato la gara d’appalto nel 2014, è stato rescisso dal primo il 14 luglio. Sulla società aggiudicataria le polemiche non si sono mai placate. Ha fatto molto discutere quel 74% di ribasso con cui è stata scelta: la bonifica è stata aggiudicata per 17.637.966 di euro. “Abbiamo mandato tutto alla Procura e lo abbiamo segnalato all’Anac”, fa sapere Doretto Marinazzo, presidente di Legambiente Brindisi (Allegato 9). L’associazione ambientalista aveva espresso perplessità anche sulle spettanze del Comune e della Sogesid. Ambedue oggi sono considerati dal consorzio i responsabili del ritardo dei lavori, che non raggiungo il 10%: “C’è un errore nel progetto – avverte il Co.me.ap – la quantità di materiale per stabilizzare i rifiuti è inferiore a quella necessaria”. Ma Sogesid che l’ha realizzato assicura: “Il progetto definitivo è passato al vaglio della segreteria tecnica bonifiche del ministero dell’Ambiente”. Le motivazioni sono anche altre: “Abbiamo contestato alla stazione appaltante (ovvero il Comune, ndr) – chiarisce il consorzio – di non poter riprendere i lavori per i mancati piani di sicurezza conformi al Covid. Abbiamo fatto un’azione civile per inadempimento contrattuale”. La versione del Comune è diversa: “Dopo aver appreso che il costo del telo di copertura era sottodimensionato e che i volumi di terreno vegetale sono mutati, ci siamo visti notificare un ricorso – spiega Gaetano Padula – la nostra attività è monitorata dal Noe, abbiamo fatto un ordine di servizio paventando il reato di omessa bonifica e abbandono di cantiere”. Ora toccherà interpellare le altre società che avevano partecipato alla gara, per capire se vi sia disponibilità a lavorare con lo stesso ribasso.
Nel 2013 la Provincia ha stabilito che Edison, Eni, le sue due controllate Versalis e Syndial, e la curatela fallimentare Micorosa Srl avrebbero dovuto “attuare le misure di prevenzione necessarie” e procedere alla bonifica (Allegato 6). Tutti hanno presentato ricorsi al Tar di Lecce, che li ha accolti: la discarica è di competenza ministeriale, ma “è corretto affermare che sussiste la responsabilità delle imprese” (Allegato 7). L’unica a vederselo respinto è stata Edison, che nel 2014 si è appellata al Consiglio di Stato che ancora non si è espresso (Allegato 8). Al Fatto il colosso dell’energia ha chiarito: “L’area è nella proprietà, disponibilità e gestione delle società del Gruppo Eni”. Nel 2013 cinque cittadini che riconducono le loro patologie all’esposizione a idrocarburi policiclici aromatici hanno presentato un esposto contro Eni e Montedison, con successiva integrazione. Le indagini sono ancora in corso. Nel 2014, anche il comitato No al carbone e il Forum nazionale dei movimenti per l’acqua si sono rivolti alla Procura e hanno pubblicato un dossier (Allegato 12).
I rifiuti, anche a lavori di confinamento ripresi, resteranno comunque lì perché – spiega il primo cittadino – “costa troppo rimuoverli e non si saprebbe dove portarli”. Dopo anni di incertezze i dati sullo stato di salute della popolazione parlano chiaro. Li si possono consultare nell’ultimo rapporto del Progetto Sentieri, lo studio epidemiologico nazionale (Allegato 10), nello Studio di coorte del 2017 e all’interno della ricerca “Congenital anomalies among live births in a polluted area. A ten-year retrospective study”. Tumori, malattie cardiovascolari e respiratorie, malformazioni alla nascita sono alcune delle incidenze rilevate. Ci sono familiari, come Rosangela Chirico, che non hanno mai smesso di lottare nelle aule dei tribunali.

Incompetenza e omissioni, in Sicilia la gestione dei rifiuti sembra la “Disneyland” della mafia. - Giuseppe Lo Bianco

Incompetenza e omissioni, in Sicilia la gestione dei rifiuti sembra la “Disneyland” della mafia

La commissione antimafia della regione segnala una lunga lista di omertà, disattenzioni e sottovalutazioni da parte di politici e tecnici. L'assessorato all'Ambiente in mano a dirigenti incompetenti pilotati dagli interessi dei proprietari delle discariche. "Gestione approssimativa e improvvisata, senza alcuna pianificazione".
Rossana Interlandi, Giuseppe Sorbello e Mario Milone si sono alternati al vertice dell’assessorato siciliano Ambiente, ma le variazioni miliardarie di cubatura dei rifiuti che hanno riempito le tasche dei ras delle discariche siciliane decise in quelle stanze, i primi due le hanno apprese dai giornali, il terzo “non l’ha ritenuto importante’’. Il direttore Gaetano Gullo, morto due anni fa, ha ammesso la propria totale incompetenza (“sono stato nominato d’emblée, sono arrivato nel 2013 al dipartimento Ambiente, materia che peraltro non avevo mai affrontato e alquanto complessa. Il codice è di 650 pagine. Riuscire a digerirlo richiede tempo”). Un altro direttore, Sergio Gelardi, ha preferito dare di sé l’immagine di un’Alice nel Paese delle Meraviglie della gestione rifiuti: “Non ero adeguato ed ero stato messo lì in quanto soggetto inadeguato – ha detto – però non ho avuto mai impressione che ci fossero degli affairs sul tema rifiuti’’. E quando Fava gli ha replicato che non era credibile che non si fosse accorto di nulla, Gelardi ha candidamente replicato: “la sincerità mi porta anche a denigrare la mia intelligenza”.
Il governatore Nello Musumeci ha definito nei giorni scorsi i dipendenti regionali per l’80 per cento “gratta pancia”, ma dalle 170 pagine della relazione della commissione regionale antimafia presieduta da Fava sui rifiuti viene fuori un campionario di omertà, distrazioni, omissioni e sottovalutazioni di politici e burocrati regionali preposti alla gestione dei rifiuti con il risultato di far evaporare ogni responsabilità che hanno fatto scrivere a Fava: “per anni i processi decisionali del governo regionale sono stati dettati da una sorta di regia esterna, nonostante la presenza in giunta di nomi autorevoli sul fronte della legalità. Si è, inoltre, provveduto a gestire un settore strategico come quello dei rifiuti senza attuare alcuna pianificazione, ma in maniera del tutto approssimativa ed improvvisata, con evidenti ripercussioni negative su tutto il territorio”.
Una sorta di Disneyland (come l’ha definita lo stesso Fava) siciliana del controllo burocratico sulla raccolta indifferenziata infiltrata dalla mafia, dove da oltre vent’anni, oltre dieci dei quali in regime commissariale, va in scena l’emergenza rifiuti che inghiotte miliardi di euro, tra costi esorbitanti, impianti rimasti incompiuti, differenziata decollata in ritardo, scelte mai adottate, rischi pesantissimi di inquinamento ambientale e nuove voragini nei conti pubblici. Tra il 2009 e il 2011, ha accertato la commissione Fava, il governo autonomista di Raffaele Lombardo amplia cinque discariche: una pubblica, a Bellolampo, sopra Palermo, le altre quattro private: a Siculiana (Agrigento), gestita dalla famiglia Catanzaro, a Lentini (Siracusa) della famiglia Leonardi (Sicula Trasporti), nel catanese, tra Misterbianco e Motta della famiglia Proto (Oikos) e a Mazzarrà Sant’Andrea, nel messinese, già di proprietà della società in liquidazione Tirreno Ambiente.
Autorizzazioni per circa un miliardo e 200 milioni di euro gestite, ha raccontato Sergio Gelardi, senza porsi il problema dell’impatto ambientale, senza alcuna valutazione strategica, “apponendo una firmetta”: “facevo passare quello che vedevo firmato da Zuccarello (Natale, ingegnere responsabile del servizio Via/Vas, ndr), poi l’ho saputo dopo che di fatto Zuccarello faceva passare tutto quello che gli portava Cannova”. Quest’ultimo, condannato a 9 anni per corruzione insieme con uno dei proprietari della Oikos, destinatario “di regalie (spese di viaggio e di soggiorno per lui e la famiglia in hotel) e somme di denaro e in più di un’occasione anche all’organizzazione di incontri con prostitute”, era definito dai colleghi un “ruba galline”: “Lo definivamo ‘ruba galline’ – dice Antonio Patella, dirigente del dipartimento acqua e rifiuti – perché avevamo l’impressione che fosse uno che si prendesse la tangente, però non si immaginava una cosa di questa portata…”. E quando l’ennesimo assessore, Mariella Lo Bello, decide di cacciare “160 dipendenti, sia quelli chiaccherati, che quelli che stavano nelle stanze dei chiaccherati’’ viene smentita da uno dei dirigenti, Giovanni Arnone: erano 100 i trasferiti, ha detto alla commissione, ma “non si parlò di chiacchierati! Chi erano questi chiacchierati? Di questo non è stata fatta assolutamente menzione, né in via formale, né in via informale. Completamente”.
Rifiuti come patate.
Per vigilare sulle scelte e sorvegliare le procedure a novembre del 2014 al vertice dell’assessorato Ambiente arriva un pm della Procura di PalermoVania Contraffatto. E al dirigente Domenico Armenio chiede i criteri di ripartizione dei rifiuti in discarica: “vado in Assessorato, lo chiamo immediatamente, lo convoco in stanza e gli dico ‘scusa, Armenio, me lo dici secondo quale criterio tu decidi che tot va in questa discarica, tot va in quell’altra discarica e gli altri invece se lo tengono a casa? Io avevo una busta davanti, prende questa busta, cioè un foglio A4, la gira dall’altra parte e con la penna inizia a dire ‘cinquecento vanno qua, quattrocento vanno qua, mille vanno qua…’. Io ho detto ‘scusa, ma stiamo parlando di patate? Non l’abbiamo un piano? Non c’era niente, Presidente, assolutamente niente. Questo dirigente gestiva improvvisando”.
Il pm a Crocetta: “Continua così e finirai in prigione”
In quel periodo, dice la Contraffatto alla commissione, “Crocetta (presidente della Regione, ndr) mi esautorò del tutto… veniva in assessorato e si andava a sedere al decimo piano nella stanza del dirigente generale e lì faceva le riunioni, come se fosse lui il dirigente generale”. Al punto che il suo nuovo dirigente, Maurizio Pirillo, era “uno che eseguiva quello che gli diceva Crocetta e basta, senza valutare se le cose si potevano fare, non si potevano fare… fino a quando poi alzavo il telefono, chiamavo Crocetta e gli dicevo che, continuando su questa strada, sarebbe andato a finire in prigione… e che venga arrestato un Presidente della Regione mentre ci sono io come suo assessore che quantomeno due cose di diritto le so e cerco di metterti in guardia…”.

Verbali del comitato scientifico pubblicati sul sito della Fondazione Einaudi, ecco cosa c’è scritto negli atti che erano segreti. - Martina Milone e Giovanna Trinchella

Verbali del comitato scientifico pubblicati sul sito della Fondazione Einaudi, ecco cosa c’è scritto negli atti che erano segreti

Nel verbale del 7 marzo gli scienziati individuano nella Lombardia e in 11 province le zone dove applicare misure di contenimento del virus "più rigorose" rispetto al resto d'Italia. Ma i contagi salgono rapidamente, e in tanti "fuggono" dal nord prendendo d'assalto i treni. Il governo due giorni dopo decide che quelle misure devono essere applicate in tutta Italia: ed è il lockdown.

Cinque verbali del comitato tecnico scientifico sono ora consultabili online, compreso uno sui cui era stato posto il segreto. Nei testi ci sono raccomandazioni e consigli per gestire l’emergenza coronavirus. Sono oltre 200 pagine che seguono, almeno per quanto riguarda i testi desecretati, le misure messe poi in campo dal governo per limitare la diffusione dell’epidemia e iniziano fin dai primi giorni, quando cioè a Codogno viene individuato il “paziente 1”, Mattia. Tutti vengono richiamati negli stessi decreti emenati dall’esecutivo. Il primo documento è del 28 febbraio, poi uno del 1 marzo, e poi, ancora del 7 marzo del 30 e infine un verbale del 9 aprile. I pareri degli esperti vanno dalla necessità di istituire zone rosse, ma non c’è il testo relativo alla mancata zona rossa in Val Seriana, al divieto di abbracci, fino al suggerimento di chiudere le scuole e di sospendere gli eventi pubblici e quelli sportivi.
I documenti sono stati pubblicati dalla Fondazione Einaudi che aveva chiesto l’accesso ai verbali ad aprile. Accesso negato che ha scatenato una battaglia legale finita davanti ai giudici del Consiglio di Stato. Nel testo del 28 febbraio, una settimana dopo l’individuazione del primo caso, il comitato suggerisce già di rivedere le misure per tre regioni “Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto”, dove c’è, si legge, “una situazione epidemiologica complessa”. Due giorni dopo l’esecutivo adotta un dpcm che riprende quella raccomandazione e quindi blocca in quelle regioni eventi e manifestazioni sportive, a meno che “non si svolgano a porte chiuse”, vieta la trasferta dei tifosi, sospende l’attività scolastica, ma, per esempio, riapre musei e luoghi di culto, come suggerito dagli stessi esperti, a condizione che “assicurino modalità di fruizione contingentata o comunque tali da evitare assembramenti di persone e sospende”. Mancano ancora 10 giorni alla chiusura adottata per la Lombardia e altre 14 province, e 11 al lockdown del 10 marzo. Proprio sul momento del lockdown fa luce un altro dei documenti desecretati, quello del 7 marzo su cui è riportata la scritta “riservato”. In quella data, infatti, il comitato tecnico scientifico suggerisce misure più rigorose proprio per la Lombardia e le province (11 non 14) di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti, ma non per tutta Italia. A distanza di 48 ore, però dopo un primo dpcm in cui l’esecutivo segue la differenziazione suggerita dal comitato, il governo ne emana un altro, quello del 9 marzo entrato in vigore il 10 che dà inizio al lockdown su scala nazionale fino al 3 aprile. Un’accelerazione, spiega Conte nella conferenza stampa per il secondo dpcm, che serve “a contenere l’avanzata del virus”. In un solo giorno, infatti, sono 1797 i nuovi positivi, contro i 1326 del giorno precedente. E, inoltre, nelle stesse ore, dopo l’annuncio della chiusura della Lombardia, centinaia di persone prendono d’assalto i treni per “fuggire” verso sud. Corrono a Porta Garibaldi per cercare di prendere l’Intercity Notte diretto a Salerno e in stazione Centrale a Milano la polizia ferroviaria è costretta ad intervenire per mantenere la calma.
Palazzo Chigi ha consegnato i verbali alla onlus dopo che ieri anche il Copasir ha chiesto di renderli pubblici. “Per noi è importante sottolineare l’approccio non partigiano alla questione. Si trattava di una battaglia di trasparenza e non giudichiamo nel merito le scelte. C’è stata – dice l’avvocato Rocco Todero che ha seguito tutto l’iter legale – la più grande limitazione delle libertà individuali durante un lungo periodo ed è giusto che i cittadini sappiano quali erano le ragioni scientifiche, oggettive ed epidemiologiche alla base”. L’onlus aveva chiesto, il 14 e il 18 aprile, l’accesso ai documenti degli scienziati che sono stati richiamati in tutti i Dpcm emanati per la gestione dell’emergenza sanitaria, compreso il lockdown.
Il verbale del 28 febbraio  I primi due verbali sono brevi e non riportano la dicitura riservato. Nel primo quello del 28 febbraio il team di scienziati reputava “complessa” la situazione epidemiologica in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, a differenza di Friuli-Venezia Giulia, Liguria e Piemonte dove non si erano verificati casi “con modalità di trasmissione non note”. Per queste ultime quindi la raccomandazione era quella di adottare l’ordinanza tipo del ministero della Salute. “Le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto presentano, invece, una situazione epidemiologica complessa attesa la circolazione del virus – si legge nel verbale – tale da richiedere la prosecuzione di tutte le misure di contenimento già adottate, opportunamente riviste come segue: sospensione di tutte le manifestazioni organizzate, di carattere non ordinario e di eventi in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo o religioso, anche se svolti in luoghi chiusi, ma aperti al pubblico (es: grandi eventi, cinema, teatri, discoteche, cerimonie religiose). Si propone che tale misura sia prorogata sino all’8 marzo 2020″. Tra le misure, anche la “sospensione degli eventi e delle competizioni sportive di ogni ordine e disciplina, in luoghi pubblici o privati e “il divieto di trasferta organizzata dei tifosi residenti nelle tre regioni per la partecipazione ad eventi e competizioni sportive che si svolgono nelle restanti regioni”. È in questo verbale che compare la conferma di “tutte le misure previste per la cosiddetta ‘zona rossa’, ovvero per gli undici comuni di Lombardia e Veneto dove si stava maggiormente diffondendo la pandemia da coronavirus. Gli undici comuni, indicati dal dpcm del 23 febbraio precedente, erano Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione D’Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini in Lombardia e Vò Euganeo in Veneto. Due giorni dopo il governo emana un dpcm, quello del 1 marzo, in cui, di fatto, recepisce queste raccomandazioni.
Il verbale del 1 marzo e il divieto degli abbracci  Nel verbale successivo è arrivata la raccomandazione che più ha colpito all’inizio l’immaginario collettivo con la “la raccomandazione generale che la popolazione, per tutta la durata dell’emergenza, debba evitare, nei rapporti interpersonali, strette di mano e abbracci”. Il 9 marzo, poi, il premier avrebbe annunciato il lockdown. Nel verbale c’è il riferimento alle strutture private: “L’utilizzo delle strutture private accreditate dovrà essere valutato prioritariamente per ridurre la pressione sulle strutture pubbliche mediante trasferimento e presa in carico di pazienti non affetti da Covid 19″. Erano i giorni in cui gli ospedali ricevevano malati, anche già gravissimi, e stavano esaurendo i posti nelle terapie intensive.
Il verbale del 7 marzo, le zone gialle e le scuole  Dalla sospensione degli eventi sportivi, alla chiusura delle palestre, fino alla sospensione dell’attività scolastica. All’interno del verbale del 7 marzo tutte le misure indicate dal Comitato tecnico scientifico vengono seguite dalla Presidenza del consiglio dei ministri che poche ore dopo emana un decreto, quello dell’8 marzo che il 9 diventa esecutivo per tutta Italia. All’interno, il Paese viene “diviso in due”, come suggerito dal Comitato. Nel documento, infatti, viene proposto “di rivedere la distinzione tra cosiddette ‘zone rosse’ (gli undici comuni della Lombardia e del Veneto già isolati dal 1 marzo, ndr) e ‘zone gialle'” da istituire in “Emila Romagna, Lombardia e Veneto, nonché le province di Pesaro Urbino e Savona”, e gli esperti condividono la necessità di definire due ‘livelli’ di misure di contenimento da applicarsi l’uno, nei territori in cui si è osservata ad oggi maggiore diffusione del virus; l’altro, sull’intero territorio nazionale”. Le zone dove effettuare un contenimento più rigido, sono l’intera Regione Lombardia e le province di Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia, Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti.
Sono ore concitate, di riunioni e tavoli di confronto. La bozza del decreto viene prima divulgata dai giornali, e Conte fa una conferenza stampa notturna per annunciarlo. Tra i suggerimenti dei tecnici e quanto deciso dall’esecutivo c’è solo una discrepanza. Mentre da una parte il comitato propone di attuare tutte le misure di contenimento fino al 3 aprile, compresa la chiusura degli Istituti scolastici su tutto il territorio nazionale, l’esecutivo decide di fermare l’attività didattica fino al 15 marzo. Fanno eccezione la Lombardia e 14 province considerate zone più a rischio, dove invece l’attività didattica è da subito sospesa fino al 3 aprile. Si vocifera già da subito di un possibile prolungamento della chiusura, ma la decisione definitiva viene presa il giorno dopo, con un successivo dpcm, quello del 9 marzo, esecutivo dal 10, che, di fatto, blinda l’Italia nel lockdown, estendendo tutte le misure per le zone a rischio all’intero territorio nazionale.
Il verbale del 30 marzo, la proroga pasquale e i test sierologici – Nel verbale del 30 marzo il comitato tecnico scientifico parla ancora di misure di contenimento per la diffusione del contagio e cita la Fase 2, un modello ancora da delineare per “il ritorno nell’ordinario“. Nel testo gli esperti sottolineano la “necessità di mantenere le misure attualmente in essere almeno fino a tutto il periodo Pasquale”. Ma non solo. Chiedono anche di effettuare un'”analisi strutturata” di diversi aspetti, tra cui l’azione sui medici di medicina generale, lo sviluppo e l’implementazione del contact tracing, il mantenimento del distanziamento sociale ma anche un’analisi sull’utilizzo delle mascherine anche tra la popolazione e sulle problematiche legate al contagio intrafamiliare. Il comitato, nello stesso documento, rileva inoltre che “alcune raccomandazioni e/o norme tecniche o circolari” nonostante l’emanazione sui territorio “non vengano prontamente recepite dal territorio” per questo si chiede “l’eventuale emanazione di ‘ordinanze di protezione civile’ avente maggior forza normativa.
Nel documento si citano anche i test sierologici. Il cts “ribadisce l’opportunità di validarli quanto prima” sia “per condurre studi di sieroprevalenza” sia per “elaborare strategie atte a identificare soggetti che possono essere considerati protetti dal rischio di acquisire l’infezione” da coronavirus. Nel testo si analizzano anche i dispositivi di protezione individuale, e si classifica il loro uso, come già lo conosciamo con la differenziazione tra mascherine di tipo chirurgico, quelle facciali filtranti, e le “altre mascherine” che non sono da considerarsi “dpi”. Nel testo anche alcune raccomandazioni per i bambini e per mantenere la loro qualità di vita nonostante il lockdown.
Il braccio di ferro tra Fondazione e governo –La questione giuridica era delicatissima perché il centro di ricerca torinese, che ha come mission promuove la conoscenza e la diffusione del pensiero politico liberale, ritiene che le misure del governo abbiano compresso diritti e libertà di rango costituzionale e che quindi quei verbali con i pareri degli scienziati debbano essere noti. La onlus aveva presentato la richiesta fatta alla Protezione civile, ma con due comunicazioni, del 4 e del 13 maggio, la risposta è stata negativa. Quindi il 26 maggio è stato presentato il ricorso al Tribunale amministrativo che ha accolto le ragioni della Fondazione. Contro il verdetto del Tar (22 luglio) il governo ha presentato ricorso (28 luglio) opponendo di fatto il segreto perché si tratta di atti amministrativi e perché devono essere tutelati “la sicurezza pubblica” e “l’ordine pubblico”. Il confronto fino a ieri pendeva davanti ai giudici del Consiglio di Stato che il 10 settembre avrebbe deciso se i verbali dovevano essere pubblici oppure no.
La sospensiva del Consiglio di Stato e la citazione del Freedom of information act – Ma nelle sospensiva tecnica firmata dal presidente della III sezione, Franco Frattini, si intuiva in quale direzione sarebbe andato il verdetto. Per il giudice i decreti e di conseguenza i verbali “sono caratterizzati da assoluta eccezionalità, e auspicabilmente, e unicità”. Ma per il magistrato “non si comprende, proprio per la assoluta eccezionalità di tali atti perché debbano essere inclusi “nel novero di quelli sottratti alla generale regola di trasparenza e conoscibilità da parte dei cittadini, giacché la recente normativa – ribattezzata freedom of information act sul modello americano – prevede come regola l’accesso civico” e come eccezione la non accessibilità. Quei provvedimenti “hanno costituito il presupposto per l’adozione di misure volte a comprimere fortemente diritti individuali dei cittadini, costituzionalmente tutelati ma non contengono elementi o dati che la stessa appellante abbia motivatamente indicato come segreti”, “le valutazioni tecnico-scientifiche si riferiscono a periodi temporali pressocché del tutto superati” e”la stessa Amministrazione, riservandosi una volontaria ostensione fa comprendere di non ritenere in esse insiti elementi di speciale segretezza da opporre agli stessi cittadini”. Quindi era concessa la sospensiva perché fosse un collegio a decidere nel merito. Ma a questo punto l’udienza non sarà più necessaria. “La trasparenza è un principio imprescindibile delle liberal-democrazie, che impone la pubblicazione di tutti gli atti riguardanti la compressione, più o meno incisiva, di diritti e libertà di rango costituzionale – si legge in una nota – In tal senso, la Fondazione Luigi Einaudi auspica che il governo compia l’ulteriore passo sulla strada della trasparenza e pubblichi autonomamente tutti gli altri verbali del comitato tecnico scientifico, utilizzati a supporto dei vari Ddpcm adottati dal Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, nel corso della pandemia da Covid 19″.
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