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mercoledì 17 aprile 2024
LA "MONTAGNA DI MARMO" -
lunedì 15 aprile 2024
Hubble ha scoperto una galassia vicina senza materia oscura!
Una galassia trasparente - credit: NASA/ESA |
È la prima volta che viene scoperta una galassia vicino alla Via Lattea priva di materia oscura. Ecco il motivo.
Utilizzando Hubble e diversi altri telescopi terrestri gli astronomi hanno trovato un oggetto astronomico unico: una galassia che sembra non contenere quasi materia oscura. Hubble ha contribuito a confermare con precisione che la distanza di NGC 1052-DF2 (questo il nome della galassia) è di 65 milioni di anni luce e ne ha determinato le dimensioni e la luminosità. Sulla base di questi dati il team ha scoperto che NGC 1052-DF2 è più grande della Via Lattea, ma contiene circa 250 volte meno stelle.
“Ho passato un’ora a fissare questa immagine”, ha detto il ricercatore capo Pieter van Dokkum dell’Università di Yale, quando ha visto per la prima volta l’immagine di Hubble. “Questa cosa è sorprendente: una massa gigantesca così sparsa che puoi vedere le galassie dietro di essa. È letteralmente una galassia trasparente.”
Senza materia oscura.
Ulteriori misurazioni hanno permesso al team di dedurre un valore approssimativo della massa della galassia, portando alla conclusione che NGC 1052-DF2 contenga almeno 400 volte meno materia oscura di quanto previsto dagli astronomi per una galassia della sua massa. Questa scoperta non è prevista dalle attuali teorie sulla distribuzione della materia oscura e sulla sua influenza sulla formazione delle galassie.
Il collante che tiene insieme le galassie.
“Si ritiene convenzionalmente che la materia oscura sia parte integrante di tutte le galassie, il collante che le tiene insieme e l’impalcatura sottostante su cui sono costruite”, spiega la coautrice dello studio Allison Merritt dell’Università di Yale. “Questa sostanza invisibile e misteriosa è di gran lunga l’aspetto più dominante di qualsiasi galassia. Trovare una galassia senza alcuna sostanza è del tutto inaspettato, mette in discussione le idee standard su come funzionano le galassie”.
Cosa possiamo dedurre da questa scoperta.
La scoperta di NGC 1052-DF2 dimostra che la materia oscura è in qualche modo separabile dalle galassie. Ciò è previsto dalla teoria solo se la materia oscura è legata alla materia ordinaria esclusivamente attraverso la gravità. Nel frattempo, i ricercatori hanno già alcune idee su come spiegare questa mancanza di materia oscura in NGC 1052-DF2. Forse un evento catastrofico ha spazzato via tutto il gas e la materia oscura? Oppure la crescita della vicina galassia ellittica NGC 1052 miliardi di anni fa ha condizionato NGC 1052-DF2? Per trovare una spiegazione, il team sta già cercando altre galassie carenti di materia oscura, vi terremo aggiornati con tutti i dettagli su questo argomento.
https://www.passioneastronomia.it/hubble-ha-scoperto-una-galassia-vicina-senza-materia-oscura/
domenica 14 aprile 2024
La grotta Veryovkina: record di profondità speleologica.
giovedì 11 aprile 2024
Cos’è il bosone di Higgs? La spiegazione chiara e semplice.
Ecco tutto quello che c’è da sapere sul bosone di Higgs. Un viaggio storico fino alla grandiosa rilevazione nel 2012.
Il bosone di Higgs è una particella estremamente importante per tutti i fisici ed è stata una scommessa, a quanto pare vinta, dei modelli che descrivono i mattoni fondamentali della materia e come essi interagiscono per formare le strutture che vediamo, dagli atomi alle stelle. A partire dagli anni 60 del secolo scorso, i fisici delle particelle avevano compreso che tutta la materia era formata dalla combinazione di alcune, poche, particelle fondamentali. A tal proposito fu compilata una tabella, una specie di tavola periodica delle particelle, detta modello standard. In questa speciale tabella trovano posto due gruppi di particelle fondamentali (particelle che non si possono più dividere): quark e leptoni sono chiamati fermioni e rappresentano le lettere dell’alfabeto attraverso le quali si costruiscono nuclei atomici e atomi. L’altro gruppo è composto dai bosoni, particelle estremamente particolari, che hanno il compito unico di trasmettere nello spazio le informazioni sulle proprietà dei fermioni.
Comunicazione tra particelle.
Possiamo immaginare i bosoni come particelle utilizzate dai fermioni per comunicare e interagire tra di loro. Quando un fermione si avvicina ad un altro e vuole interagire con esso, prende il telefono e comunica attraverso l’emissione di bosoni. Ma rispetto ad una classica telefonata, c’è qualcosa di diverso. A seconda del modo in cui due fermioni vogliono comunicare, utilizzano un determinato bosone. In tutto i bosoni a disposizione sono quattro: quattro modi di comunicare tra le particelle elementari. Questo numero non è di certo casuale. Le particelle elementari, in effetti, hanno solamente quattro modi possibili per interagire tra di loro. I fisici le chiamano le quattro forze fondamentali della Natura. In realtà non tutti i fermioni hanno a disposizione tutte e quattro le interazioni. Solamente i quark hanno piena libertà di scelta. I leptoni, a cui appartengono l’elettrone e gli sfuggenti neutrini, ne hanno a disposizione solamente 3. A prescindere da questa piccola differenza, le interazioni fondamentali sono: forza elettromagnetica, forza gravitazionale, forza forte e forza debole. Tutto l’Universo obbedisce a queste quattro forze fondamentali, dalle galassie a noi che spingiamo il carrello della spesa ostacolati dalla forza di gravità e dall’interazione elettromagnetica con il pavimento che causa l’attrito. Le prime due sono ben conosciute, le ultime un po’ meno, perché agiscono solamente su scala subatomica. Ma non è importante capire quale sia il significato delle interazioni, piuttosto è fondamentale aver chiaro che quando due particelle fondamentali “scelgono” il modo di interagire, emettono i bosoni relativi a quella determinata interazione, i quali trasmettono nello spazio tutte le informazioni necessarie per capire come dovrà essere portata avanti l’interazione.
Fin qui tutto bene.
Attraverso l’interazione forte, i quark generano le particelle costituenti dei nuclei atomici: protoni e neutroni. La combinazione tra protoni e neutroni dà luogo ai nuclei atomici tenuti insieme dalla forza forte, aiutati dalla forza debole responsabile di alcuni processi, come il decadimento beta. La combinazione dei nuclei atomici con gli elettroni dà vita agli atomi, grazie alla forza elettromagnetica. Gli atomi si combinano e danno origine a molecole, le quali danno vita a strutture più grandi, fino ai pianeti e le stelle, regolati dalla forza di gravitazione. Il modello così presentato sembra funzionare molto bene. Ogni particella è caratterizzata da un pacchetto di proprietà che ne costituisce la perfetta carta d’identità, tra cui possiamo citare la carica elettrica, lo spin, e molte altre che non ci interessano. La carta d’identità di ogni particella determina il comportamento ed il risultato una volta che sceglie di comunicare con un’altra particella attraverso l’emissione di bosoni. Tuttavia nella carta d’identità manca un dato fondamentale: la massa. Il modello descrive perfettamente le proprietà e le modalità di interazione di tutte le particelle, arrivando a giustificare la formazione di tutta la materia e l’esistenza stessa dell’Universo, ma senza considerare la massa. Questo è un gran problema: è come dire di essere in grado di prevedere alla perfezione il comportamento e le proprietà dell’Universo, a patto di affermare che gli oggetti non abbiano massa, che pianeti, stelle, esseri umani siano fatti di particelle senza peso, non materiali.
Per capire che questa è una grande contraddizione, non c’è bisogno di essere dei fisici: provate ad attraversare un muro e ditemi se non sentite la consistenza del cemento! La situazione era ancora più seria, in realtà, perché se si introduceva nel modello una nuova proprietà che in qualche modo teneva conto della diversa massa delle particelle, tutto il castello crollava su se stesso: le interazioni, addirittura l’esistenza stessa della materia, non erano più giustificabili. Com’è possibile tutto questo? Il modello è sbagliato? Ma allora perché prevede così bene la realtà, a patto di non considerare la massa delle particelle?
Il grande imbarazzo fu superato, almeno dal punto di vista teorico, da un fisico inglese, un certo Peter Higgs, negli anni 70. Il fisico britannico affermò che la massa è una proprietà esterna alle particelle, associata ad un campo, analogo a quelli responsabili delle quattro interazioni fondamentali, detto campo di Higgs. Il campo di Higgs può essere immaginato come una fitta trama gelatinosa che permea tutto lo spazio, nella quale le particelle si muovono e per qualche motivo incontrano una resistenza al moto. L’effetto osservato è del tutto equivalente a quello di una particella dotata di una massa intrinseca che si muove nello spazio, ma l’origine è ben diversa. Di fatto, questo modello ci dice una cosa sconvolgente: le particelle, quindi tutte le strutture dell’Universo, compresi noi, abbiamo massa, una consistenza, solamente perché ci muoviamo attraverso questa fitta rete gelatinosa che trattiene e regola i nostri movimenti. L’idea non è poi così assurda, se non altro perché il campo gravitazionale è responsabile di un effetto simile: trattiene a sé i corpi, regolando le proprietà dei loro movimenti. Introducendo in termini matematici l’idea di questo campo di Higgs ed integrandola al modello standard, tutto sembra funzionare alla perfezione. Come comunicano, però, il campo di Higgs e le particelle che lo devono sentire? È qui che entra in gioco il famoso bosone di Higgs. Sappiamo infatti che i bosoni sono i modi per comunicare una precisa interazione, quindi se esiste il campo di Higgs che dà massa alle particelle, deve esistere il suo messaggero, il bosone di Higgs. Per provare l’esistenza del campo, quindi, è necessario osservare il bosone di Higgs.
Rilevazione della particella.
Attualmente la gran parte degli sforzi dei fisici delle particelle si rivolge verso la rilevazione sperimentale di questa particella, che si pensa avere una massa circa 200 volte maggiore del protone. Per rilevare la sua presenza, occorre che gli acceleratori di particelle siano in grado di raggiungere un’energia di 200 GeV (Giga elettronVolt), teoricamente alla portata del nuovo acceleratore LHC (Large Hadron Collider) di Ginevra e del Fermilab di Chicago. E in effetti nell’estate del 2012 gli scienziati di LHC hanno annunciato di aver trovato le prove di questa importantissima e sfuggente particella. Sembra proprio, quindi, che la teoria era corretta. Per quanto possa sembrare strano, la Natura funziona in questo modo!
Articolo scritto in collaborazione con Daniele Gasparri.
https://www.passioneastronomia.it/cose-il-bosone-di-higgs-la-spiegazione-chiara-e-semplice/
Milioni di anni fa scomparve un intero continente. Ora sappiamo dov’è. - Lucia Petrone
Secondo un nuovo studio, il
continente Argoland, che apparentemente scomparve dopo essersi separato
dall’Australia 155 milioni di anni fa, è stato finalmente scoperto.
Le divisioni continentali di solito
lasciano tracce in antichi fossili, rocce e catene montuose. Ma fino ad ora gli
scienziati non erano riusciti a scoprire dove fosse finita l’Argolandia. Ora i
ricercatori dell’Università di Utrecht, nei Paesi Bassi, pensano di aver
scoperto la misteriosa massa continentale, nascosta sotto le isole orientali
del sud-est asiatico. La scoperta potrebbe aiutare a spiegare qualcosa noto
come la linea Wallace, che è un confine immaginario che separa la fauna del
sud-est asiatico e quella australiana. “Avevamo letteralmente a che fare con
isole di informazioni, motivo per cui la nostra ricerca ha richiesto così tanto
tempo. Abbiamo impiegato sette anni per mettere insieme il puzzle”, ha detto
l’autore dello studio Eldert Advokaat, geologo dell’Università di Utrecht, in
un comunicato stampa. Ci è voluto un attento lavoro investigativo per scoprire
dove fosse andata Argoland dopo essersi separata da quella che sarebbe
diventata l’Australia. Gli scienziati avevano trovato frammenti di “continenti
a nastro” attorno al Sud-est asiatico, ma non erano riusciti a rimetterli
insieme, ha detto Advokaat. Alla fine, hanno avuto un’illuminazione: e se
Argoland fosse iniziata come una serie di frammenti di continente, piuttosto
che come un pezzo solido? “La situazione nel sud-est asiatico è molto
diversa da luoghi come l’Africa e il Sud America, dove un continente si è
diviso nettamente in due parti”, ha affermato Advokaat nel comunicato stampa.
“Argoland si è frantumato in molti frammenti diversi. Ciò ha ostacolato la
nostra visione del viaggio del continente”, ha detto. Partendo da questa
ipotesi, hanno scoperto che l’Argolandia non era realmente scomparsa. Era
sopravvissuto come un “insieme molto esteso e frammentato” sotto le isole a est
dell’Indonesia. Con questo lavoro sono riusciti finalmente a riportare in vita
il viaggio dell’Argoland negli ultimi 155 milioni di anni. Puoi vedere
Argoland, in verde, alla deriva in basso.
Poiché non si tratta di una massa
solida, ma piuttosto di una serie di microcontinenti separati dal fondale
oceanico, Advokaat e il suo collega geologo dell’Università di Utrecht Douwe
van Hinsbergen hanno coniato un nuovo termine per definire l’Argoland più
precisamente: un “Argopelago”. Potrebbe anche aiutare gli scienziati a
comprendere meglio la bizzarra linea di Wallace , una barriera invisibile che
attraversa il centro dell’Indonesia e separa mammiferi, uccelli e persino le
prime specie umane nelle isole del sud-est asiatico, ha detto Advokaat. La
barriera ha lasciato perplessi gli scienziati a causa della netta separazione
tra la fauna selvatica dell’isola. A ovest della linea ci sono mammiferi
placentari come scimmie, tigri ed elefanti, che si trovano anche nel sud-est
asiatico. Ma questi sono quasi del tutto assenti a est, dove si possono trovare
marsupiali e cacatua, animali tipicamente associati all’Australia. Ciò potrebbe
essere dovuto al fatto che l’Argoland porta via la propria fauna selvatica dalla
futura Australia prima che si schiantasse nel sud-est asiatico. “Queste
ricostruzioni sono vitali per la nostra comprensione di processi come
l’evoluzione della biodiversità e del clima, o per la ricerca di materie
prime”, ha affermato van Hinsbergen.
Alternative sostenibili alla plastica ottenute dai batteri ingegnerizzati.
Queste alternative sostenibili alla plastica sono più resistenti dell’acido polilattico usato di norma.
(Rinnovabili.it) – Gli sforzi per trovare alternative sostenibili alla plastica convenzionale stanno raggiungendo nuovi traguardi. Il lavoro di ingegneri e ricercatori impegnati nella ricerca di soluzioni innovative è in crescita. Restano però alcune sfide aperte. Ad esempio, trovare un materiale che possa offrire le stesse prestazioni delle plastiche tradizionali evitando i loro impatti ambientali.
Oggi sappiamo che l’acido polilattico (PLA) è una delle alternative più promettenti. Si può produrre da fonti vegetali e plasmare con una certa efficienza. Tuttavia, presenta limitazioni legate alla sua fragilità e alla sua degradabilità. Per superare queste difficoltà, i bioingegneri dell’Università di Kobe, in collaborazione con la Kaneka Corporation, hanno sviluppato una tecnica innovativa. Mescolando l’acido polilattico con un’altra bioplastica chiamata LAHB, sono riusciti a ottenere un materiale con proprietà desiderabili, come la biodegradabilità e una maggiore lavorabilità.
Una fabbrica di batteri per produrre plastica biodegradabile.
Il processo ha richiesto l’ingegnerizzazione di ceppi batterici per produrre il precursore del LAHB, manipolando il loro genoma per ottimizzare la produzione. I risultati, pubblicati sulla rivista ACS Sustainable Chemistry & Engineering, indicano la creazione di una “fabbrica di plastica batterica” che produce catene di LAHB in quantità elevate, utilizzando solo il glucosio come materia prima. Con la manipolazione genetica dei batteri, dicono gli scienziati, è possibile controllare la lunghezza delle catene e quindi le proprietà della plastica risultante.
Il materiale ottenuto, chiamato LAHB ad altissimo peso molecolare, è stato aggiunto all’acido polilattico per creare una plastica altamente trasparente, più modellabile e resistente agli urti rispetto all’acido polilattico puro. Inoltre, questa nuova plastica si biodegrada nell’acqua di mare entro una settimana. Potrebbe essere l’anello mancante tra la sostenibilità e la versatilità delle bioplastiche?
Il team che lo ha sviluppato ci crede e guarda al futuro con ambizione. Tra le ipotesi di lavoro future c’è l’uso della CO2 come materia prima per la sintesi di plastiche utili.