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martedì 15 dicembre 2020

Non solo Guerra, per Speranza c’è un’altra grana. - Alessandro Mantovani

 

C’è l’inviato speciale dell’Oms, Ranieri Guerra, in conflitto con la direzione europea della stessa Organizzazione mondiale della sanità, che lo allontanerebbe da Roma se non fosse che il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus lo difende. E il segretario generale, il numero uno della struttura amministrativa del ministero, Giuseppe Ruocco, ai ferri corti con il viceministro M5S Pierpaolo Sileri, che ne ha chiesto le dimissioni perché è “sempre assente” al Comitato tecnico scientifico e perché è uno dei dirigenti a cui si deve, insieme agli ex ministri, la mancata revisione del piano pandemico antinfluenzale che risale al 2006, per quanto il sito del ministero lo dia per “aggiornato il 15 dicembre 2016”.

Era a capo della Prevenzione nel 2013, quando il Parlamento europeo ha dato disposizioni vincolanti e l’Oms ha modificato le linee guida. Nel 2014 arrivò Guerra, che a settembre 2017 lasciò scritto alla ministra Beatrice Lorenzin di rifare il piano, secondo le linee guida ulteriormente modificate dell’Oms, prima di trasferirsi proprio all’Oms quale assistente del direttore generale. Toccò poi a Claudio D’Amario, che nel 2018 istituì il gruppo di lavoro d’intesa con la nuova ministra Giulia Grillo del M5S, ricevette nuovo impulso da Speranza nell’autunno 2019 e lasciò una bozza a maggio, quando è andato a dirigere la Sanità dell’Abruzzo. Anni e anni non sono bastati per rifare il piano, anni di tagli fino alla tragedia sanitaria nazionale che, secondo la Procura di Bergamo, potrebbe essere stata favorita dalla parziale applicazione del vecchio piano e dei piani regionali, in primis quello lombardo: ritardi nella sorveglianza epidemiologica, negli approvvigionamenti e nei controlli su ospedali e laboratori, previsti fin dalla fase d’allerta nel piano del 2006. Questa, secondo alcuni, sarebbe cominciata il 5 gennaio con l’annuncio Oms di polmoniti sconosciute in Cina, seguito però – ricordano al ministero – da comunicazioni rassicuranti della stessa Oms. La definizione di “caso sospetto”, pure prevista dal piano, è stata indicata dal ministero fin dal 22 gennaio. Secondo fonti della Salute solo la dichiarazione d’emergenza dell’Oms, il 30 gennaio, obbligava a misure preventive, come il blocco dei voli dalla Cina (deciso sempre il 30) e lo stato d’emergenza (il 31). Le verifiche sui posti letto però sono state avviate solo il 12 febbraio dal Cts e gli interventi sugli ospedali a fine mese, quando c’erano mille positivi e 29 morti. Speranza e altri saranno ascoltati dai pm, come testimoni, a gennaio.

Chi ha parlato con Ruocco assicura che “non pensa a dimettersi”, che la sua assenza al Cts è “concordata con il ministro” e non ha niente da dire sui piani pandemici. Anche Guerra resta in Italia dopo lo scandalo sul ritiro del dossier del centro Oms di Venezia che criticava moderatamente la prima risposta italiana al Covid-19, pubblicato a maggio per poche ore con prefazione del direttore dell’Oms Europa Hans Kluge, nel quale proprio Guerra pretendeva fosse indicato l’aggiornamento del piano pandemico antinfluenzale nel 2016: il testo dice solo “riconfermato”. Guerra ne ha attribuito la frettolosa approvazione “condizionata” alla centrale europea di Copenaghen. Le email rese note da Report e dal Fatto raccontano di tensioni con il governo italiano, che però secondo l’Oms Europa non ha avuto alcun ruolo nel ritiro. Copenaghen assicura che, su richiesta, trasmetterà il rapporto ai media: una ripubblicazione che non farà piacere né a Guerra né a Ginevra. Kluge è in buoni rapporti con Speranza, farebbe a meno di Guerra a Roma, ma la missione dipende da Ginevra, non da lui. Speranza farebbe a meno di queste grane.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/15/non-solo-guerra-per-speranza-ce-unaltra-grana/6037141/

mercoledì 8 aprile 2020

Coronavirus, Gallera ammette: “Mancata zona rossa nella Bergamasca? Effettivamente una legge che consente alla Regione di farla c’è”. - Alberto Marzocchi

Coronavirus, Gallera ammette: “Mancata zona rossa nella Bergamasca? Effettivamente una legge che consente alla Regione di farla c’è”

Nello scambio di accuse tra Regione Lombardia e governo su chi dovesse adottare misure più stringenti tra Nembro e Alzano Lombardo, arriva l'ammissione dell'assessore al Welfare della Lega. Che però rispedisce la palla dall'altra parte: "Avremmo potuto farla noi? Sì, può essere. Ci aspettavamo che intervenisse l'esecutivo".
La legge lo consentiva e – ancora – lo consente. “Ho approfondito ed effettivamente la legge c’è“. Dopo più di una settimana di scarica barile tra Regione Lombardia e governo su chi avesse la responsabilità di istituire la zona rossa un mese fa tra Nembro e Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, l’assessore al Welfare, Giulio Gallera, ammette che la sua giunta aveva gli strumenti necessari per agire. Tuttavia, intervistato ad Agorà su Rai3, tiene a precisare: “Quando in Valle Seriana erano arrivate le camionette dell’esercito, il 5 marzo, eravamo convinti che” la zona rossa “sarebbe arrivata” e per questo “non avrebbe avuto senso, per noi, fare un’ordinanza”.
Ieri sera c’è stato uno scambio di vedute, a distanza, tra il presidente della Regione, Attilio Fontana, e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. “Non avevamo modo di intervenire dal punto di vista giuridico dopo il Dpcm dell’8 marzo“, sono state le parole del governatore leghista. Che però si è lasciato andare a un “ammesso che ci sia una colpa, è di entrambi“. La spiegazione data dal capo del governo, invece, è che “ci stavamo orientando a misure più rigorose per la Lombardia, una cintura rossa che coinvolgesse l’intera area”.
In Bergamasca, tra il 6 e il 7 di marzo, tutti si aspettano l’isolamento toccato due settimane prima ai dieci comuni del Lodigiano e a Vo’ Euganeo. A Verdellino si riuniscono decine e decine di carabinieri, pronti a entrare in azione. La statale della Valle Seriana è percorsa dall’esercito, mentre la polizia locale di Nembro riceve le telefonate dall’Arma per le dovute informazioni su strada da sigillare, checkpoint e valichi. “Eravamo in collegamento telefonico con il professor Silvio Brusaferro“, continua Gallera, “che mi diceva che avevano fatto la richiesta formale per l’istituzione della zona rossa”. Il riferimento dell’assessore è alle due note tecniche inviate al governo dall’Istituto superiore di sanità, che fa parte del Comitato tecnico-scientifico, il 3 e il 5 di marzo. “Avremmo potuto farla noi? Può essere, sì, ma ci aspettavamo che intervenisse l’esecutivo”.
Da settimane Gallera va ripetendo che la decisione del governo non è mai arrivata (lo ha fatto, per esempio, il 19 marzo a Sono le Venti intervistato da Peter Gomez). E anche stamattina, in un’intervista a La Stampa, ha parlato di “cerino in mano”, aggiungendo che “se ci avessero detto subito che non la volevano fare, ci saremmo mossi diversamente“. Sulla questione si è espresso anche il sindaco di Nembro, Claudio Cancelli: “Credo che i cittadini siano sconcertati dal continuo rimpallo di responsabilità tra Regione e governo, che dovrebbero entrambi garantire la sicurezza della nostra salute. Secondo me, dovevano intervenire entrambi”. Nel decreto-legge n.6 del 23 febbraio il governo ha messo nero su bianco, all’articolo 1, le leggi che consentono alle “autorità locali competenti”, cioè sindaci e presidenti di Regione, di adottare le misure che ritengono più opportune, in materia di emergenza sanitaria e igiene pubblica, per fronteggiare la diffusione del Covid-19. Insomma, gli strumenti normativi c’erano. Ora lo ammette anche la Regione. Come sono andate le cose, al di là di ciò, è sotto gli occhi di tutti.

venerdì 6 ottobre 2017

Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento. - Diego Pretini

Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento

Il Lìder Maximo impalla tutti, Speranza l'eterno futuro, Bersani indispensabile che ha già fatto il suo: così l'ex sindaco di Milano ha scoperto che non basta dire "uniamoci" per unire Pd e gli altri e da possibile federatore è diventato punchin-ball. Per questo il sogno proibito di Bersani sarebbe Grasso. Preferito perfino da Vendola.

Federatori che non federano, nuovo che non avanza, leader di talento ingombranti ma consunti dalla storia, assi nelle maniche abbottonate. A sinistra, presto, a sinistra: ma la macchina pare inceppata. Ex comunisti con ex socialisti, ex vendoliani con ex democristiani, scissionisti della prima ora con scissionisti della seconda che si uniscono a quelli della terza. Il campo della sinistra del centrosinistra che non c’è più è come un’aia di campagna, dove ogni galletto va a beccare in un posto diverso. Alt, avvertono tutti in coro nelle interviste, prima di tutto i programmi. Ma ora che ci provano – il superticket, la povertà nella legge di bilancio – si accapigliano parlando solo di matrimoni, divorzi, coppie scoppiate. In comune hanno l’assillo della discontinuità con le riforme di Renzi e più precisamente proprio con Renzi. 
Ma ciascuno ha un joystick diverso. Per dire: lo sforzo per una cosa semplice come far guidare a Pisapia la delegazione di Mdp a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni è stato immane. Ma Tabacci, uno dei pochi che può parlare a nome dell’ex sindaco, lo descrive come amareggiato perché – dice – dentro Mdp vogliono confinarsi a una sinistra di testimonianza con Fratoianni e “quelli del Brancaccio” (cioè Tomaso Montanari e Anna Falcone, i reduci della vittoria del No), “bravissime persone che però non c’entrano nulla con la prospettiva di un centrosinistra in grado di competere”. Dall’altra parte rispondono che il centrosinistra non esiste perché è morto sotto i molti colpi inferti da Renzi: l’ultimo quando si è alleato con Alfano per sostenere Micari alle Regionali in Sicilia. Così si affollano a sinistra dirigenti che però non si sa dove dirigono, che restano a mezza altezza per motivi diversi: da Bersani a D’Alema, da Speranza a Enrico Rossi, fino a Nicola Fratoianni e Pippo Civati. Fino a Giuliano Pisapia, il cui ruolo è ridotto al lumicino ogni volta che parla D’Alema, già da quella volta – a inizio settembre – in cui lo definì “l’ineffabile avvocato”. E un po’ più in là, fino ai sogni che non sembrano solide realtà: Piero Grasso e Emma Bonino. Di seguito i più in vista.

D’Alema, l’attaccapanni che precede tutti.


“Finché sarò vivo, Renzi non potrà stare sereno” disse a pochi mesi dal referendum costituzionale. Per Aldo Cazzullo (Corrieredi ieri) è il più anti-renziano di tutti. Per Angelo Panebianco (Corriere di molti anni fa), “i leader autentici sono sempre, in ogni Paese, e anche in Italia, pochissimi. E D’Alema è uno di loro”. Per Renzi era il primo da rottamare e invece ha fatto come l’alligatore: è rimasto sott’acqua finché è servito, finché non ha capito che uscendo dall’acqua avrebbe divorato la preda. Non solo Renzi, ma anche il nuovo partito che lui ha annunciato per primo. I dalemiani sono rimasti di là, hanno indossato nuove maschere: Anna Finocchiaro, Gianni CuperloNicola LatorreMarco MinnitiMatteo Orfini in ordine di crescente lealtà al nuovo capo. Lui non soffre di solitudine, capotavola è dove si siede lui, disse una volta. Dopo aver garantito che Speranza è un ottimo dirigente tra l’altro più giovane di Renzi e che chi sarebbe stato il capo si sarebbe deciso con le primarie, a luglio ha definito quella di Mdp una “gestione confusa e poco efficace”.
Ha dato la possibilità a Pisapia di sognare per un po’, di fare il federatore, sapendo già che avrebbe fallito. I due non sono diversi solo perché uno è figlio del partito e l’altro un borghese civico, come li ha descritti Cazzullo. Ma anche perché l’ex sindaco continua a inseguire i sogni, mentre l’ex presidente del Consiglio non ha mai cominciato, preferendo la disillusione. Per primo D’Alema ha annunciato che ci sarebbe stata la scissione dal Pd, per primo ha detto – andando ad ascoltare il discorso “di insediamento” di Pisapia – che alle elezioni avrebbero corso da soli e contro il Pd, per primo ha capito che una coalizione sarebbe stata impossibile. Per primo ha detto che con l’alleanza tra Pd e Alfano in Sicilia il centrosinistra era finito. Per primo ha chiesto a Pisapia “maggiore coraggio” per accelerare la nascita della forza a sinistra del Pd: un simbolo riconoscibile, temi ben chiari per segnare la “discontinuità” con il lavoro fatto dal governo delle intese medie negli ultimi 5 anni. In realtà non è mai chiaro se queste cose le dice per primo perché le prevede o perché poi le fa andare così lui. Per questo a Pisapia è partita la frizione chiedendogli di farsi da parte, subissato di fischi dei dalemiani rimasti e dal silenzio glaciale del Lìder Maximo.
Ha archiviato la terza via e il blairismo, nelle interviste cita Podemos e la Linke, se non fosse ambiguo si direbbe che si è radicalizzato. E’ una croce oltre che una delizia di un pezzo di sinistra perché il suo passato pesa e contro D’Alema se la prendono tutti, una specie di antistress: “E’ l’attaccapanni a cui attaccano tutte le tattiche avverse – ha detto Bersani qualche giorno fa – Ma lui è fatto così è una personalità ma le perplessità non si possono nascondere sempre dietro D’Alema”. Ma l’impresa è sempre spostarlo da davanti.
Bersani, quest’acqua qua.
Lo paragonano a Bertinotti. Lui con la stessa espressione piena di fatica, di preoccupazione e di concentrazione che offrì da presidente incaricato nel primo incontro in streaming con i capigruppo dei Cinquestelle, nel 2013, oggi fa ancora scrosciare applausi negli studi televisivi e – racconta uno dei suoi fedelissimi, Davide Zoggia – anche nelle piazze in Sicilia. Avrebbe voluto essere Papa Roncalli, ha detto una volta, ma sembra più Papa Montini: a volte un po’ in anticipo per non rimanere schiacciato dal presente. Se avesse vinto, anziché “non vinto”, come prima cosa da capo del governo – ha ricordato di recente – avrebbe fatto lo Ius soli, su cui ora Renzi non ha nemmeno il coraggio di mettere la fiducia. Come seconda, una “norma secca anticorruzione“. Dalla corsa per il leader si è autoeliminato da tempo: la moglie ha minacciato di cacciarlo da casa se si ricandiderà a premier, ma non c’è rischio, tanto più che a questo giro il massimo del risultato può essere il quarto posto.
Ma la sua assenza ha messo davanti agli occhi dell’elettorato le alternative tipo Speranza e la platea ne è uscita terrorizzata. Quindi “quel pezzo di Ditta qua”, che in realtà crede che la Ditta sia stata scippata da un rapinatore, si aggrappa di nuovo a lui, diventato finalmente leader dopo una vita politica da gregario di lusso, competente, rasserenante. “L’eterno delfino che a 57 anni ha deciso di nuotare da solo – lo definì Fabio Martini sulla Stampa prima del congresso che avrebbe incoronato Bersani, già tre volte ministro – A forza di nascondersi, a forza di dire ‘Obbedisco’ al suo amico Massimo D’Alema che in passato lo ha ripetutamente invitato a non candidarsi, la rinuncia stava diventando la sua cifra politica. L’Amleto di Bettola”. “Bersani è un uomo di governo capace ed è sempre stato fuori dai conflitti personali all’interno del centrosinistra”: sembra la definizione più adatta e l’unico sospetto nasce perché a pronunciarlo fu proprio D’Alema.
Da solo, senza D’Alema, è quello che ha combattuto di più le politiche di Renzi, rottamatrici delle idee più che delle persone. Non c’è riuscito quasi mai anche perché, appunto, ha criticato troppo presto quello che altri nel partito hanno contrastato più tardi, a tempo scaduto, tipo Orlando. Come D’Alema, però, Bersani si porta il fardello di chi dice cose già dette e vede cose già viste: gli elettori di sinistra sono da tempo un po’ suscettibili, diversi da quelli di Forza Italia che vedono solo Berlusconi. Lo prendono in giro, ma Bersani insiste a credere di parlare la lingua del popolo così le metafore non sono mai uscite dal suo breviario. L’ultima l’altro giorno, con gli animali: “Se anche in Italia si tira la volata alla destra scimmiottandoli, balbettando in modo più politicamente corretto le stesse ricette, ad esempio su fisco e immigrati, la sinistra rischia di fare la fine del coniglio davanti al leone”. La penultima alcuni giorni prima, quella dell’acqua: “Renzi ha governato tre anni con i voti che ho preso io, ed ha ribaltato quasi del tutto le cose che avevo promesso agli elettori. Se questo porterà avanti il centrosinistra e metterà sotto destra e 5 stelle, avrà avuto ragione lui; altrimenti dovrà far due conti di quello che è successo. Di noi non si preoccupi: noi porteremo acqua al centrosinistra”.

Pisapia, il punching-ball arancione.
“Giuliano Pisapia, convinto di essere un leader decisivo e destinato a saldare le varie sinistre di sorta, non sa che D’Alema non prevede per lui alcun ruolo, salvo quello di bella statuina”. Sembrava una cattiveria quella di Andrea Marcenaro sul Foglio di inizio estate. Quasi quattro mesi il basamento della statuina è quasi completato. Pisapia è stato posizionato sull’asta del gonfalone della sinistra che rimpiange Prodi e l’Ulivo, ma in realtà si ritrova a capo della Sinistra Arcobaleno. E forse nemmeno così a capo. Quando Bianca Berlinguer ha chiesto a D’Alema se è Pisapia il leader lui ha risposto: “Abbiamo detto di sì, il leader è lui”. Abbiamo detto di sì, noi, all’ineffabile avvocato, come l’ha chiamato una volta.
Altro che enzima che unisce tutto il centrosinistra, dai democristiani a Fratoianni. Piuttosto il punching-ball del luna park. A nulla è servita la lunga preparazione di Pisapia, iniziata con la scomparsa dalla scena politica alla Fanfani subito dopo aver la sciato Palazzo Marino. Credeva che tutti aspettassero qualcuno come lui che a Milano ha guidato la vittoria “arancione” e in Italia ne era il simbolo, senza accorgersi che quell’avventura è finita già da un pezzo, con lui, ZeddaDe Magistris e Orlando in ordine sparso. A Milano aveva vinto perché è una persona per bene, carattere che rischia di diventare un handicap quando sei in un ambientino pieno di tigri dai denti a sciabola. Credeva che bastasse un paciere, scoprendo che servirebbe un miracolo: l’euforia iniziale che ha unito al suo fianco l’ex rifondato Ciccio Ferrara e l’ex dc Tabacci senza i marxisti – e ha fatto aleggiare i padri nobili Enrico Letta e Prodi – è diventata ora una bell’arietta emo.
Prende schiaffi da tutti, come una comparsa di Altrimenti ci arrabbiamo. “Pisapia cambia posizione abbastanza spesso – ha detto Orfini alcune settimane fa – Perché quando ha fatto la riunione con Mdp ha firmato un documento in cui si definiva alternativo al Pd – e immagino non ci si voglia alleare con forze alternative – poi ha lanciato le primarie”. Nicola Fratoianni, capo di Sinistra Italiana, si dice “non interessato alle smentite di Pisapia” e che “il tempo è scaduto”. Irrita Roberto Speranza: “Noi stiamo aprendo le porte nella maniera più convinta possibile a Giuliano Pisapia. Dopodiché a me non convince un ragionamento in cui tutto si riduce a un gioco di personalità”. Fa sdubbiare perfino Bersani: “Nessuno qui vuol dei partitini. Vogliamo tutti un partitone. Non è quello”. Litiga di brutto con Nichi Vendola: “Ha ragione Pisapia: D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla destra. Per Pisapia è sufficiente dividere la sinistra” dice l’ex presidente della Puglia. “Si può cambiare idea, ma non dimenticare: hai governato la Puglia in variegata compagnia. A Milano non c’era destra in giunta” risponde l’ex sindaco.
Nonostante l’abbraccio a Maria Elena Boschi davanti al quale Mdp reagì come se avesse commemorato Farinacci, è stato quasi ignorato dal Pd che parla di lui solo nei retroscena, “da Calenda a Pisapia”, o nei sogni di Rosato, “da Alfano a Pisapia”. Per restare attaccato almeno a Mdp, i suoi comunicati stampa sono esercizi di acrobazia. Fa fatica a farsi ascoltare perfino dai senatori che si autoproclamano esponenti di Campo Progressista: parlano a titolo personale, dice un portavoce di Pisapia. “No – ha risposto uno di loro – io parlo a nome di Campo Progressista Sardegna”. Mettete da parte i personalismi, ripete da mesi a due poco interessati ai personalismi come Renzi e D’Alema. Lui si è già messo da parte per esempio in Sicilia dove non sostiene né Micari col Pd né Fava con la sinistra.
Speranza, l’eterno futuro.
L’eterno delfino, l’eterno futuro, l’eterno dialogante. Per Vauro “un giovane-vecchio”. A Roberto Speranza quasi tutti riconoscono che è serio, timido, mediatore, coerente, grande ascoltatore, persona perbene, che ha studiato, che ha fatto la gavetta. Più o meno così lo descriveva la Stampa già 4 anni fa, quando già lo indicavano come “futuro leader”. Nel frattempo risulta ancora difficile trovare chi lo consideri uno che riempie le piazze e le urne. Bersani se n’è dovuto andare per un po’ e poi è tornato e Speranza sempre lì è rimasto: sotto la sua ala protettiva. E’ lì sotto dal 2012 quando Speranza era uno dei coordinatori del comitato di Bersani alle primarie per le Politiche.
Spesso si sforza di essere incisivo: “Avevamo promesso più lavoro e stabilità e ci siamo ritrovati il boom dei voucher; avevamo promesso green economy e ci siamo ritrovati le trivelle e il ‘ciaone’; avevamo promesso equità fiscale e abbiamo tolto l’Imu anche ai miliardari”. Ma non se ne accorge nessuno. Fa cose di rottura, coraggiose: si dimise quando la Boschi pose la fiducia sull’Italicum che lui considerava incostituzionale (come poi confermò la Consulta). Ma non se lo ricorda nessuno.
Gli capita di prendere sberle a gratis anche quando non fa niente di che. “Hai la faccia come il culo” gli comunicò Roberto Giachetti quando a Speranza gli venne di proporre il Mattarellum. Mani tra i capelli di Renzi, grida in pé della senatrice Ricchiuti, via alla scissione. Un mesetto prima un tizio gli lanciò addosso un iPad durante la presentazione di un libro a Potenza: “Il Pd vende armi all’Isis!”. L’episodio più doloroso resta quando Repubblica chiese a Bersani se Speranza era l’anti-Renzi: “Lo stimo, non è un segreto. Ma al di là dei nomi serve un segretario che si occupi del partito sdoppiandolo dalla figura del premier e non escludiamo a priori di pescare da campi che non sono del tutto sovrapponibili alla politica. Qualcuno può escludere che in giro ci sia un giovane Prodi?”. Boom, Roberto, sei stato friendzonato. Sembra sempre il suo momento e il suo momento non arriva mai. Mesi fa aveva finalmente l’occasione per misurarsi (cioè schiantarsi) contro Renzi. Zampettava sui giornali e sulle televisioni dopo la vittoria del No al referendum, in quei giorni figlia del mondo intero. “Arriverà presto il congresso Pd e io ci sarò, mi batterò. Accetto la sfida e sono ottimista perché non sono solo”. E invece un attimo prima gli hanno tolto il partito, nel senso che i suoi tutori hanno deciso di andarsene a fare Mdp. Cos’è ora Speranza?, si chiedono ogni tanto l’un l’altro nelle redazioni. Capogruppo? Possiamo dire leader? No dai, leader no. Forse tipo coordinatore. Provate voi a coordinare ex vendoliani, ex bersaniani, pisapiani e D’Alema.
Grasso, che una mattina si svegliò “Metodo”.
Una volta, raccontò, si addormentò Pietro e si svegliò “metodo”. Il “metodo Grasso” di cui parlarono i giornali all’indomani della sua elezione era quello che aveva fatto diventare lui presidente del Senato (spaccando il gruppo M5s alla prima votazione) e Laura Boldrini presidente della Camera. Il metodo lo inventò Pierluigi Bersani al quale nel 2013 venne l’idea di proporre a Grasso l’inizio della carriera politica dopo una vita nella lotta a Cosa Nostra. Ora può accadere di nuovo. A Napoli, alla festa di Mdp, Bersani aveva gli occhi a cuoricino mentre sentiva la seconda carica dello Stato raccontare che si sente ancora “ragazzo di sinistra” e come tale chiede “alla sinistra di non fare passi indietro sui principi”.
C’è quella bazzecola da superare che si chiama presidenza del Senato che lo terrà ingessato fino a primavera, ma Grasso per la terza volta potrebbe essere la soluzione ai problemi di Bersani. Grasso ha le sembianze quei tiri di carambola di certi circoli del biliardo con cui la biglia butta giù i birilli, sponda dopo sponda. Autorevole per curriculum, dialogante per carattere, è legalitario, ma non securitario, la giustizia sociale accanto a quella dei tribunali. Dice cose di sinistra, pronuncia spesso parole di verità, gli piace il genere antifà. Negli ultimi dieci giorni ha detto che: lo Ius soli va votato, il codice antimafia deve rimanere così perché era nel programma (del Pd), la sinistra non deve fare passi indietro sui suoi principi, che la prima regola della politica è l’etica(bisogna saper scegliere i candidati prima che arrivino le condanne). Ha detto che i partiti devono smetterla di scrivere le leggi elettorali solo per convenienza e ha fatto incazzare Orfini. Ha detto che dobbiamo dare l’asilo anche ai migranti economici perché lo dice la Costituzione e ha fatto incazzare la Lega Nord. Fa incazzare spesso il Pd, come quando si mise seduto in Aula tutto sorridente e decise per conto suo di far votare la richiesta d’arresto di Antonio Caridi, primo parlamentare accusato di associazione mafiosa (il Pd voleva trastullarselo fino a dopo il ddl editoria).
Non si contano le volte che ha fatto incazzare il M5s: i senatori grillini perdono la testa soprattutto quando loro si agitano rossi in volto – come per abitudine – e lui gli risponde col tono di un bonzo tibetano, con lo sguardo disincantato. La spalla preferita è il senatore Lello Ciampolillo. Una volta segnalò dei “pianisti”, quelli di Forza Italia cominciarono a tirargli palline di carta. Grasso lo rassicurò sulla sua incolumità: “Senatore Ciampolillo, la presidenza ha visto tutto. Ha visto anche che non l’ha colpito”. Stimato da destra, Vendola lo preferisce a Pisapia. “Grasso è una grande personalità – dice D’Alema – E’ stato un giovane militante di sinistra, l’abbiamo candidato e eletto presidente del Senato. Non è certo una new entry”. Un ineffabile presidente, in altre parole.
C'è del caos in quel di .....sinistra! sempre che si possa definire sinistra una compagine che si adopera per proteggere Banche, Vaticano, potere economico.... e che si è posizionata così in centro che si è confusa e fusa con l'altro centro, quello di destra...