giovedì 20 settembre 2012

Il secondo tragico Marchionne. - Marco Travaglio


C’è un che di irresistibile nel dialogo (si fa per dire) a distanza fra il duro Sergio Marchionne e gli omuncoli gelatinosi del governo, dei partiti e dei sindacati moderati (Cisl e Uil). Lui, il duro che non deve chiedere mai perché viene ubbidito prim’ancora che dia gli ordini, annuncia che dei 20 miliardi di investimenti promessi, col contorno di 1 milione e 400 mila auto e altre supercazzole che potevano essere credute solo in Italia, non se ne fa più nulla. Perché? Perché no. E gli impavidi ministri, sindacalisti e politici che fanno? Gli chiedono di “chiarire”. I più temerari aggiungono “subito”, ma sottovoce, vedimai che s’incazzi e li prenda a sberle. Ora, tutto si può rimproverare a questo finanziere scambiato per un genio dell’automobile, tranne la carenza di chiarezza: è dal 2004 che dice ai quattro venti che dell’Italia non ne vuole sapere, molto meglio i paesi dell’Est, dove la gente lavora per un tozzo di pane e non chiede diritti sindacali perché non sa cosa siano, e gli Usa dove Obama paga e Fiat-Chrysler incassa.
Ma quelli niente, fingono di non capire, chiedono chiarimenti, approfondimenti, spiegazioni, aprono tavoli, propongono patti, invocano negoziati, lanciano penultimatum, attendono il messia dei “nuovi modelli” naturalmente mai pervenuti. Ma in quale lingua glielo deve spiegare, Marchionne, che dell’Italia e dell’auto con bandierina tricolore non gliene frega niente? In sanscrito? Sentite Passera: “Voglio capire meglio le implicazioni delle sue dichiarazioni”. Un disegno di Altan potrebbe bastare. Sentite la Fornero, quella col codice a barre in fronte: “Non ho il potere di convocare l’amministratore delegato di una grande azienda” (solo quello di entrare con la scorta armata ai gran premi di F1), però vorrebbe “approfondire con Marchionne cosa ha in mente per i suoi piani di investimento per l’occupazione”. Ma benedetta donna: niente ha in mente, te l’ha già detto in musica, che altro deve fare per cacciartelo in testa? Infilare l’ombrello nel coso di Cipputi? Sentite Fassino: “L’ho sentito, mi ha dato rassicurazioni”. Ci parla lui. Sentite Bonanni, quello con la faccia da Bonanni che firmò tremante gli accordi-capestro a Pomigliano e Mirafiori: “Marchionne ci convochi subito e chiarisca se il Piano Fabbrica Italia lo mantiene e lo utilizza quando riprende il mercato o no”. Ma certo: i 20 miliardi li tiene lì sotto il materasso in attesa che la gente si compri tre Cinquecento e quattro Duna a testa, poi oplà, li sgancia sull’unghia per la bella faccia di Bonanni.
Ma che deve fare quel sant’uomo per far capire che i 20 miliardi non esistono e ha preso tutti per i fondelli? Fargli una pernacchia sarebbe un’idea, ma poi quelli replicherebbero: “Vorremmo capire meglio il significato profondo del gesto, Marchionne apra al più presto un tavolo per fornirci le necessarie e ineludibili delucidazioni atte a chiarire il senso recondito, anche tra le righe, della pernacchia”. Se non ci fossero di mezzo decine di migliaia di famiglie, ci sarebbe da scompisciarsi per queste scenette da commediola anni 80, dove il marito trova la moglie a letto con un altro e la interroga tutto compunto: “Cara, esigo un chiarimento sulla scena cui ho testè assistito”. O da film di Fantozzi. La sua Bianchina, con a bordo la signorina Silvani, viene affiancata dall’auto di tre energumeni che afferrano un orecchio del ragioniere. La Silvani li insulta. Quelli estraggono dall’auto Fantozzi a forza e lo massacrano di botte, mentre lui li apostrofa con fierezza: “Badi come parla!”. Pugno in faccia. “Vorrei un momento parlamentare con voi”. Setto nasale. “Lo ridichi, se ha il coraggio”. Spiaccicato sul tettuccio. “Badi che se osa ancora alzare la voce con me…”. Giacca squarciata. “Bene, mi sembra che abbiamo chiarito tutto, allora io andrei…”. Lo finiscono a calci e lo lanciano come ariete nel parabrezza. Ora Fantozzi fa il ministro tecnico e il sindacalista moderato. Tanto le botte le prendono i lavoratori.

La moglie di Dell’Utri accusata di riciclaggio: “I magistrati sono impazziti”. - Beatrice Borromeo


berlusconi dell'utri e la moglie


La moglie del senatore del Pdl Miranda Ratti: "Non mi risulta che ci sia nulla di male a comperare una casa all’estero. Che reato è? Con i miei soldi faccio quello che voglio. E Marcello è un ostaggio politico: è l'uomo più straordinario che abbia mai incontrato".


“Io indagata? Sono impazziti. È una cosa talmente folle che la prendo come tutte le follie di questo mondo”. Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell’Utri, risponde con gentilezza al telefono. Col tono di chi, dopotutto, se l’aspettava. E sull’accusa di riciclaggio aggravato per quei 15 milioni di euro transitati sul suo conto e poi partiti (quasi tutti) alla volta di Santo Domingo, proprio alla vigilia della sentenza di Cassazione che avrebbe potuto mandare in carcere il marito per 7 anni, risponde: “Non mi risulta che ci sia nulla di male a comperare una casa all’estero. Che reato è?”. Solo che lo shopping della signora Ratti – sospettano i pm – è stato fatto con soldi estorti a Silvio Berlusconi e mirava pure a garantire una latitanza dorata al marito.
Secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, la nuova villa dei Dell’Utri si trova nel complesso turistico Casa De Campo: un lussuoso resort a quattro chilometri dal centro La Romana, nella Repubblica Dominicana. Una località che si estende lungo le bianchissime spiagge che costeggiano il sud-est dell’isola, con alberghi, ville in affitto, abitazioni private, campi da golf e tennis, piscine e pure una pista d’atterraggio privata. Dove Marcello Dell’Utri, appena sceso da un volo charter di Air Italy, è stato avvistato lo scorso 29 luglio, cioè poco dopo la fine dei lavori di ristrutturazione della nuova dimora, costata svariati milioni di dollari.
Ora i pm di Palermo stanno preparando una rogatoria internazionale per scovare il tesoretto caraibico, incuranti della signora Ratti che ribadisce : “Con i miei soldi faccio quello che voglio”. Soldi che però – stando alla Procura – sono stati estorti a Silvio Berlusconi gonfiando di almeno 10 milioni il prezzo della casa di Torno in cambio del silenzio di Dell’Utri sui rapporti tra l’ex premier e Cosa Nostra. L’altra lettura è che il senatore avrebbe fatto da tramite per pagare i mafiosi: 40 milioni di euro in 10 anni. Anche perché regalare 40 milioni solo per “stima e riconoscenza a Marcello”, questa la versione di Berlusconi, sembra un po’ eccessivo. Non a Dell’Utri, che mentre difende la consorte(“stiamo subendo una vessazione giudiziaria”), dice: “Che ragionamenti del cavolo fa? Chi lo dice che 40 milioni sono troppi?”.
Ma la signora Ratti, nata a Monza nel 1950, architetto dall’età di 31 anni, più che dall’indagine sembra infastidita da Berlusconi, che ha giustificato quei bonifici apostrofandola come una “spendacciona”: lei, telegrafica, avverte che “anche di questo si occuperanno i miei avvocati”. Di più non dice, e non è una novità. Da sempre riservata (per altri è solo snob), viene descritta da chi la conosce bene come una donna colta, intelligente, e soprattutto molto innamorata. Tanto che nel 2006 è stata condannata per aver diffamato i magistrati (sempre) di Palermo che avevano allora chiesto l’arresto del marito. Definirli “omuncoli bisognosi di perizia psichiatrica” le costò 20mila euro per ognuno dei sei pm (tra cui Gian Carlo Caselli) che le avevano fatto causa.
“Marcello è un ostaggio politico. É l’uomo più straordinario che abbia mai incontrato. E ho avuto la fortuna di sposarlo”, diceva la Ratti al Corriere all’indomani dell’arresto di Dell’Utri, poi condannato per false fatture ed evasione fiscale. L’ha difeso davanti ai pm di Torino che indagavano sui conti gonfiati di Publitalia ed è andata a prenderlo nel penitenziario di Ivrea quando l’hanno scarcerato. Sempre all’ombra del marito, per quanto possibile. Caratteristica , questa, che sta alla base della sua storica amicizia con Veronica Lario, con la quale passò pure qualche guaio. “Se la signora Palli si è venduta le sue amicizie con me e Veronica, millantando un possibile nostro interessamento per i suoi affari, io non ne so nulla”, disse deponendo a un processo per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra.
Processo in cui era imputata l’imprenditrice milanese Daniela Palli (poi prescritta), che aveva aiutato il latitante Vito Roberto Palazzolo a stabilire un contatto con Dell’Utri proprio tramite la consorte. In odore di mafia anche un altro personaggio vicino ai Dell’Utri, Filippo Rapisarda, finanziere discusso (ora morto) e amico dei boss. Nel 1989 la Ratti fa la madrina al battesimo della figlia di Rapisarda, Cristina. Berlusconi liquiderebbe l’incidente dicendo che “a Palermo è difficile distinguere i mafiosi dalle persone perbene”. Ora però la storia di Miranda Ratti, sempre più intrecciata a quella (anche processuale) del marito, la vede, suo malgrado, protagonista. Col rischio, in caso di condanna, di passare in carcere dai 4 ai 12 anni.

Casa de Campo La Romana

mercoledì 19 settembre 2012

Dell'Utri va a Santo Domingo. - Lirio Abbate ed Emiliano Fittipaldi



L'ex braccio destro di Berlusconi sta traslocando nella Repubblica dominicana, di cui ha già ottenuto il passaporto. A fine anno arriva la sentenza d'appello per mafia e l'estradizione diventerebbe difficilissima.

Il senatore Marcello Dell'Utri è diventato cittadino di Santo Domingo, il paradiso caraibico dove nei mesi scorsi ha acquistato una splendida villa a La Romana, la terza città dell'isola, a 130 chilometri dalla capitale. 
Secondo fonti de "l'Espresso", Dell'Utri, amico intimo di Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia e già condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, ha  già il nuovo passaporto e sta traslocando sull'isola, che ha eletto a suo buen ritiro. 
Entro fine anno dovrebbe arrivare la sentenza d'Appello dopo che la Cassazione ha annullato in parte il giudizio di secondo grado.
Dell'Utri avrebbe ottenuto il documento dominicano qualche tempo fa e ha già spedito nella nuova abitazione vista mare parte della sua preziosa collezione di libri antichi. 
I viaggi della famiglia Dell'Utri nell'isola si sono in questi ultimi anni via via intensificati grazie anche agli affari che il politico avrebbe in Centro America. 
Alla vigilia della decisione della Cassazione in cui rischiava di finire in carcere ha venduto la sua magione sul Lago di Como a Berlusconi. Parte dei 21 milioni ricavati dalla cessione - secondo i pm di Palermo che hanno indagato Dell'Utri anche per estorsione al Cavaliere - sono poi finiti proprio su un conto aperto a Santo Domingo. 
Un deposito intestato alla moglie di Marcello, Miranda Anna Ratti, che l'8 marzo scorso, dopo aver incassato dall'amico Silvio parte del malloppo avrebbe girato 14 milioni di euro nella banca dei Caraibi. Ora la Ratti è indagata per riciclaggio aggravato. I magistrati sospettano che il denaro servisse al senatore, in caso di condanna definitiva, per trascorrere una latitanza di lusso.
Santo Domingo è non solo uno dei paradisi fiscali più gettonati del pianeta, ma anche uno dei rifugi preferiti di chi ha guai con la giustizia italiana. Le regole per ottenere l'estradizione sono ancora molto rigide. Non solo: il governo dell'isola non ha mai riconosciuto il reato di associazione mafiosa, né ha siglato patti internazionali per le rogatorie.


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/dellutri-va-a-santo-domingo/2191469

Intercettazioni, Consulta dice sì ad ammissibilità ricorso Quirinale.


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La Corte Costituzionale esaminerà la questione nel merito nei prossimi mesi rispondendo al quesito se spettasse o meno ai pm omettere di distruggere le telefonate tra Mancino e Napolitano. Di Matteo: "Andiamo avanti, siamo convinti di avere agito nel rispetto della legge".

Come previsto ed era prevedibile. E’ arrivato il via libera all’ammissibilità del conflitto sollevato dal Quirinale contro i pm di Palermo sulle intercettazioni che coinvolgono il Capo dello Stato. Lo ha deciso la Corte Costituzionale che esaminerà la questione nel merito nei prossimi mesi. Le intercettazioni, disposte nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia, riguardano indirettamente Giorgio Napolitano, che parla al telefono con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, su cui pende una richiesta di rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Dodici le cause a ruolo oggi per la Corte: la penultima iscritta era quella che riguarda il Capo dello Stato. 
Oggi la Corte Costituzionale doveva decidere solo sull’ammissibilità, cioè doveva verificare se il ricorso aveva i requisiti oggettivi e soggettivi perché si possa passare, nelle prossime settimane, all’esame nel merito: i giudici, in questo primo vaglio, devono stabilire se Quirinale e Procura sono poteri dello Stato e se il conflitto è fondato. Due i giudici che hanno l’incarico di relatori: Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo, il primo eletto nel giugno 2005 su indicazione del centrosinistra, il secondo nell’ottobre 2008 su proposta del centrodestra.
L’esame nel merito della questione si svolgerà in tempi rapidi: la Corte, infatti, avrebbe l’intenzione di dirimere al più presto il nodo dell’intercettabilità del Capo dello Stato. Nel ricorso, firmato dagli avvocati dello Stato, Ignazio Francesco CaramazzaAntonio Palatiello e Gabriella Palmieri, si chiede alla Corte Costituzionale di sancire che “non spettava ai pm di Palermo omettere di distruggere le intercettazioni del Presidente”. Questo, sulla base di quanto previsto, in particolare, dall’articolo 90 della Costituzione, che stabilisce che “il Presidente non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. Tesi che, secondo gli avvocati dello Stato, sarebbe confermata anche dall’articolo 7 della Legge 219/1989.
Le telefonate al Presidente sono state registrate intercettando le conversazioni telefoniche dell’ex ministro Mancino, la cui utenza era stata messa sotto controllo su mandato dei magistrati palermitani, e le registrazioni non sono state distrutte. Il Presidente della Repubblica, ritenendo lese le proprie prerogative garantite dall’articolo 90 della Costituzione, ha promosso un ricorso alla Consulta. La Procura di Palermo sostiene invece che per procedere alla distruzione delle intercettazioni è necessaria, in base al codice di procedura penale, un’apposita udienza, in contraddittorio, davanti al gip.
”Non siamo sorpresi. La valutazionedi ammissibilità è un passaggio processuale, serve a stabilire se ci sono i presupposti astratti del conflitto di attribuzione. Ma non ha nessuna incidenza su fondatezza dei contenuti, quindi sul ricorso” ha detto il procuratore di Palermo Francesco Messineo. “La questione – ha aggiunto – sarà adesso analizzata nel merito, sarà esaminata nei dettagli, ancora la vicenda è tutta da decidere. Vedremo cosa succederà nell’udienza che ha fissato la Corte. Lì si capirà davvero qual’è l’orientamento dei giudici”. Per Messineo “si tratta di una valutazione solo formale, se astrattamente sussistono i presupposti, non significa che dall’analisi della vicenda non possa emergere con chiarezza che il nostro operato è stato corretto”.
“Andiamo avanti nel nostro lavoro, nell’inchiesta e nel processo. Siamo convinti di avere agito nel pieno rispetto della legge in vigore” ha commentato il pm di Palermo Nino Di Matteo, uno dei magistrati del pool che si occupa dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia. I pm adesso dovranno stabilire se difendersi da soli, come pure è teoricamente possibile, o se nominare gli avvocati costituzionalisti, ammessi a patrocinare davanti alla Consulta, con i quali sono gia’ stati presi contatti nelle scorse settimane.

LA MOGLIE DI GESÙ IN UN FRAMMENTO ANALIZZATO A HARVARD.


Gesù moglie

Un frammento di papiro scritto in lingua copta, analizzato da alcuni storici della prima cristianità di Harvard, parla di Gesù che si rivolge ai discepoli parlando di sua "moglie".
La professoressa di teologia Karen L. King ha mostrato il piccolo frammento di papiro (solamente 8 centimetri di larghezza per 4 di altezza) in un meeting internazionale di studiosi di lingua copta a Roma.

Il New York Times riporta la notizia: il pezzo di papiro riporta, tra le altre, le frasi “Gesù disse loro: 'Mia moglie'” e “Ella potrà essere mia discepola”. Finora il proprietario del frammento lo aveva consegnato alle mani della professoressa King, e questa lo aveva mostrato solamente a professori di Harvard esperti di lingua copta e di papirologia, che hanno concluso che molto probabilmente è un frammento reale e non un falso: il frammento è scritto in copto saidico, un dialetto dell’Egitto del Sud, e le lettere sono scritte dalla mano di una persona non troppo colta, e il papiro e il tipo di inchiostro utilizzato fanno presumere risalga attorno al quarto secolo dopo cristo. Il modo di scrivere sembra ricondurre a una scrittura “non professionista”, compilata da una mano di credenti che si sarebbero tramandati la dottrina cristiana in epoca di persecuzione. 
La professoressa associata di teologia alla Princeton University, AnneMarie Luijendijk, dichiara che “Sarebbe impossibile falsificarlo”, anche per via del retro del papiro che riportasegni di deterioramento notevole e solamente pochissime lettere visibili e frammenti di parole. Un falsario dovrebbe essere esperto di grammatica copta, scrittura manuale, teologia e cultura dell’epoca in determinate zone dell’Egitto.
L’autrice della diffusione del frammento non vuole, però, utilizzare il frammento a mezzo strumentale e afferma, ironica: “Questo non prova che Dan Brown avesse ragione”.

Il Times cerca di focalizzare l’attenzione sull’importanza della “scoperta”, visto che l’eventuale configurazione di una moglie di Gesù e la possibilità di “allievi” femminili potrebbero aprire gli orizzonti dell’organizzazione cristiana, come riporta anche Vittorio Zucconi durante la sera del 18 settembre. Tuttavia, alcune testate come “the Atlantic” hanno già cercato di “smontare” l’articolo del NYT: sia il nuovo, che l’antico testamento parlano di “moglie” riferita a profeti. Nel vecchio testamento la “moglie” dei profeti è la terra d’Israele, mentre nel nuovo testamento la moglie di Gesù è raffigurata come la Chiesa.
La bellezza di internet sta nel confronto, e nei commenti all’articolo dell’Atlantic compare una ragazza che fa presente come la trascrizione delle fonti e le traduzioni dalle lingue antiche a quelle moderne siano inappropriate e possano esistere più termini atti a rappresentare la figura della moglie simbolicamente o fisicamente.

A parere dello scrivente, stando fuori dalle conseguenze che può avere un eventuale dibattito teologico, nel caso il frammento dovesse rivelarsi reale fornirebbe un tassello per incorniciare i mutamenti reali di una religione nel tempo e nello spazio. Ma questo non farebbe vendere copie al New York Times.

Consulta: ammesso conflitto Napolitano-pm Palermo


  

ROMA - La Consulta ha giudicato ammissibile il ricorso del Quirinale contro la Procura di Palermo. Il Colle aveva presentato ricorso dopo le intercettazioni indirette di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato effettuate nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. L'ordinanza della Corte sarà depositata domani.
I giudici della Consulta riunitisi in camera di consiglio per il primo vaglio del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, lo hanno ritenuto fondato sotto il profilo soggettivo, perché Capo dello Stato e Procura di Palermo sono qualificabili come poteri dello Stato, e sotto il profilo oggettivo, rispetto cioè al conflitto sollevato. Il Colle sostiene che il Presidente non poteva essere intercettato e le registrazioni andavano distrutte; secondo i pm la distruzione può essere disposta solo da gip.

Sanità, Tagliacozzo batte Regione e Governo: l’ospedale non sarà chiuso. - Gabriele Paglino


Ospedale Tagliacozzo


I comitati locali vincono al Tar e al Consiglio di Stato contro i provvedimenti del presidente dell'Abruzzo Chiodi e del governo Berlusconi. Le sentenze potrebbero ora essere utilizzate da qualunque paese che ha una struttura a rischio taglio.

Un importante precedente giuridico, grazie al quale potrebbe essere scongiurata l’eventuale chiusura – già paventata in estate – di tutte le piccole strutture ospedaliere, presenti sul territorio italiano. Il caso destinato a far da apripista ad una serie di ricorsi, da parte di quei tanti piccoli centri che potrebbero vedersi chiudere i loro ospedali, è quello di Tagliacozzo (in provincia dell’Aquila).
Nel 2010 il presidente della Regione Abruzzo e commissario ad acta per la Sanità, Gianni Chiodi, predispone un nuovo “programma operativo” per ristrutturare la sanità abruzzese. In altre parole, tentare di rientrare da un debito di 360 milioni di euro, accumulato negli ultimi dieci anni. E questo significa altri tagli – in aggiunta a quelli effettuati già in passato dalla precedente giunta, guidata da Ottaviano Del Turco –, a partire dalle “strutture ospedaliere che non risultano coerenti, sotto un profilo sia quantitativo sia qualitativo, con il fabbisogno di prestazioni della popolazione”. Tra queste rientra anche l’ospedale del comune di Tagliacozzo, che serve un bacino di circa 30mila persone (frazioni e paesini limitrofi compresi). Non tantissime.
Ma, se si considera il notevole afflusso turistico nel periodo estivo e soprattutto il fatto che quello è l’ospedale di riferimento di una zona montuosa mal collegata con il resto della regione, l’esistenza dell’Umberto I diventa essenziale. E così gli abitanti del territorio, supportati dall’amministrazione comunale, si organizzano immediatamente in un comitato per salvare la struttura.
Iniziano presidi e manifestazioni di protesta, ma la posizione del governatore Chiodi è inamovibile: “Il piano non si tocca” e poco importa se i cittadini dissentono. Loro però vanno avanti e insieme al Comune presentano ricorso al Tar dell’Abruzzo. A dicembre del 2010 arriva il primo importante risultato: il Tar sospende la “deliberazione per l’attuazione del piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario della Regione Abruzzo”.
Incoraggiati in qualche modo dalla (prima) vittoria ottenuta da Tagliacozzo, decidono di ricorrere al tribunale amministrativo anche gli altri piccoli comuni abruzzesi, che hanno visto la scure dei tagli regionali abbattersi pure sui loro nosocomi. Nei mesi successivi i pronunciamenti contro il piano Chiodi arrivano uno dopo l’altro. Le principali motivazioni sono due: nel tentativo di risanare i conti, il “programma operativo 2010” non tiene in considerazione il diritto della salute dei cittadini. L’altra motivazione mette invece in discussione il ruolo stesso del commissario, nominato per esercitare poteri amministrativi e non legislativi-normativi. Perciò il nuovo piano sanitario non può sostituire quello del 2008, approvato – al contrario del piano Chiodi – con legge regionale.
Vedendosi bloccato, Chiodi tenta di correre ai ripari e si rivolge direttamente al Governo. In pochi mesi da Roma arriva la soluzione per mettere in cassaforte – e quindi al riparo da ricorsi – il programma di tagli del commissario-governatore. Nonostante le varie bocciature arrivate dal Tar, il superministro Giulio Tremonti inserisce infatti il controverso “programma operativo della sanità abruzzese” nel decreto 98 del 2011, concernente la stabilizzazione finanziaria, che dopo pochi giorni viene convertito in legge. “Il Commissario ad acta per la sanità della regione Abruzzo – si legge nella manovra approvata a luglio 2011– dà esecuzione al programma operativo 2010 che è approvato con il presente decreto”.
Gli stop del Tar sono superati e adesso il piano sanità di Chiodi è una legge di stato. Ma i comitati non si arrendono. Ricorrono nuovamente al Tar, stavolta contro quell’articolo, contenuto nella manovra di Tremonti, che “sana” i provvedimenti in materia di sanità presi da Chiodi. E vincono, un’altra volta: per il giudice amministrativo abruzzese, la norma del governo si pone in contrasto con ben sette articoli della Costituzione nonché con la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. Gli atti quindi passano alla Consulta, che dovrà decidere sull’incostituzionalità della legge.
Nel frattempo però la Regione Abruzzo ha adottato un nuovo atto aziendale (relativo alla Asl Avezzano-Sulmona-L’Aquila) che riguarda “i provvedimenti tecnici attuativi per la razionalizzazione della rete ospedaliera”, contenuti in quel famoso programma operativo 2010: il nosocomio di Tagliacozzo è trasformato in un presidio territoriale di assistenza, privo persino di pronto soccorso. Il braccio di ferro continua e il comitato pro-ospedale presenta l’ennesimo ricorso al Tar, che dà loro ragione anche questa volta. “E’ necessario assicurare la piena funzionalità del pronto soccorso dell’ospedale”, si legge nell’ordinanza pronunciata dal tribunale amministrativo lo scorso maggio.
La Regione Abruzzo non si dà per vinta e propone appello davanti al Consiglio di Stato. Per il supremo organo di giustizia amministrativa non è però “ravvisabile alcuna ragione” per l’annullamento dell’ordinanza del Tar. Ospedale e pronto soccorso rimangono dunque aperti. “E’ un’ordinanza storica quella arrivata poche settimane fa– afferma il legale del comitato pro ospedale, Paolo Novella, contattato da ilfattoquotidiano.it – Anche perché visto che c’è ancora in pendenza la questione di incostituzionalità, per evitare dei conflitti solitamente si aspetta il parere della Corte Costituzionale. E invece sia il Tar che il Consiglio di Stato non hanno indugiato a pronunciarsi”.
Ma soprattutto è un’ordinanza che costituisce un principio giurisprudenziale, al quale potrebbe rifarsi qualsiasi altro ospedale – di qualsiasi altra regione – che rischia la chiusura. Come ad esempio i tanti nosocomi calabresi. Non sembrerebbe un caso che nei giorni scorsi la Presidenza della Regione Calabria abbia contattato l’avvocato Novella, per aver informazioni dettagliate in merito al provvedimento. “Presumo che se, come qui, stanno portando avanti una politica di tagli – fa notare l’avvocato Novella – cercheranno di capire perché è stata bocciata la delibera di Chiodi, per poi riscriverne una diversa che non rischi la bocciatura”. Insomma meglio giocare di anticipo.