mercoledì 21 giugno 2017

"Traccie" maturità, il Miur si scusa per il refuso sul sito.



Il ministero dell'Istruzione ha rapidamente corretto l'errore, ma le immagini incriminate hanno già fatto il giro dei social network.

"Traccie" per l'esame di maturità: questo errore ortografico è comparso per alcuni minuti sul sito del ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca (Miur), scatenando polemiche e ilarità su diversi social network. Fra le critiche piovute sul dicastero, non si osservano solo quelle scaturite dagli studenti, ma anche da esponenti del mondo politico.

Le scuse del ministero.
"Abbiamo visto il refuso sul sito degli Esami di Stato e siamo subito intervenuti per farlo correggere. Si tratta di un errore di battitura, di un errore materiale che, naturalmente, non doveva esserci, tanto più su una pagina che riguarda gli Esami", si legge in una nota di spiegazione pubblicata sul sito del Miur. L'annuncio incriminato, infatti, si riferiva alle tracce per la prima prova scritta della maturità. Tracce, per l'appunto, e non "traccie" come erroneamente riportato. Per questa 'i' di troppo "il fornitore tecnico che gestisce l'inserimento dei contenuti sul sito del Ministero", chiarisce il Miur, "ci ha fatto pervenire una lettera di scuse per l'episodio accaduto che arreca un danno d'immagine alla nostra istituzione".
I precedenti.

Non è la prima volta che il ministero dell'istruzione si rende protagonista di figuracce proprio in occasione della maturità: un caso che ebbe ampio risalto fu quello della traccia d'italiano assegnata nell'esame datato 2008. Era stato richiesto agli studenti di spiegare il "ruolo salvifico e consolatorio della figura femminile" prendendo le mosse da "Ripenso il tuo sorriso", una poesia che Eugenio Montale aveva in realtà dedicato a un uomo (il danzatore russo Baris Kniaseff).

In altre occasioni era stato lo stesso ministro dell'Istruzione a rendersi protagonista di gaffe poco adatte alla sua posizione: si ricordano, ad esempio, l'accento sbagliato "egìda" pronunciato in Aula da Mariastella Gelmini (2008) o l'inesistente "tunnel fra il Cern e il Gran Sasso" (2011). Sino ad arrivare ai giorni nostri con la polemica sui titoli di studio attribuiti al ministro Valeria Fedeli, "un diploma di laurea in Scienze sociali", che in realtà laurea non era e all'errore di storia in occasione di un intervento pronunciato al Premio Cherasco Storia, il 27 maggio scorso, quando la ministra ha attribuito l'armistizio di Cherasco (1796) a Vittorio Emanuele III, il re d'Italia il cui nome è legato alle vicende del Ventennio fascista, oltre un secolo dopo. 

http://tg24.sky.it/cronaca/2017/06/20/miur-scuse-refuso.html

Napoli, scoperto al Tigem il modo di inibire le cellule tumorali. - Walter Medolla



Ballabio e De Luca presentano la ricerca. «Passo avanti».

È made in Naples l’ultimo scoperta in ambito oncologico. 
Dall’istituto Tigem di Pozzuoli, infatti, arriva un’importante risultato, frutto del lavoro di ricerca del team guidato da Andrea Ballabio direttore dell’Istituto e professore ordinario di genetica medica all’Università Federico II di Napoli.

La ricerca riguarda la descrizione di un meccanismo biologico la cui inibizione porta al blocco della crescita delle cellule tumorali. Un importante risultato ottenuto dallo studio dei lisosomi, piccoli organelli che si trovano all’interno delle nostre cellule, coinvolti in un ampio gruppo di malattie genetiche rare. «La funzione dei lisosomi - ha spiegato Andrea Ballabio, direttore del Tigem- è quella di ripulire le cellule. Ecco, noi abbiamo scoperto che questo meccanismo serve alle cellule a produrre energia per proliferare e per crescere. Quindi i lisosomi non servono solo a ripulire le cellule, ma anche a produrre energia che serve a crescere. Questo è un meccanismo fisiologico che è presente in tutti noi e purtroppo, però, serve anche alle cellule tumorali e gli serve per crescere e per proliferare. Noi abbiamo dimostrato che inibendo questo meccanismo siamo in grado di bloccare la crescita tumorale in particolare in tumori come Melanoma, tumore del pancreas e anche del rene. Il prossimo step - ha detto Ballabio - è cercare di trovare il modo migliore per inibire completamente questo meccanismo e farlo senza causare conseguenze negative alle cellule sane, farlo in maniera molto specifica e selettiva».

Andrea Ballabio
Andrea Ballabio

Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Science , dimostra che proprio l’inceppamento di questo meccanismo porta alla replicazione e alla crescita delle cellule tumorali, come nel caso dei melanomi e dei tumori del rene e del pancreas. I ricercatori del Tigem anno quindi dimostrato che l’inibizione di questo meccanismo blocca la crescita tumorale, suggerendo così una nuova strategia per la terapia dei tumori.
«Le possibilità terapeutiche dipenderanno soprattutto dagli approfondimenti che faremo – dice Chiara Di Malta, prima firmataria della ricerca -. Questo è un passo importante, perché ovviamente abbiamo scoperto un meccanismo nuovo che prima non si conosceva. Ora però dobbiamo concentrarci su come utilizzare le conoscenze che abbiamo ricavato per ottenerne ancora di più, per individuare delle alternative terapeutiche valide per questi tipi di tumore».
Parole di ammirazione per il lavoro svolto sono arrivate anche dal presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca: «Sosterremo senza condizioni questa ricerca - ha detto il governatore - che è di tale valore che merita veramente tutto il sostegno finanziario necessario. Ci siamo ritrovati sulla stessa scelta che la Regione ha fatto un anno fa quando ho deciso di investire 100 milioni di euro sulla ricerca contro il cancro».
Il lavoro, finanziato da Fondazione Telethon al quale si è aggiunto un contributo dell’Airc, è frutto dell’intensa attività di ricerca che quotidianamente si svolge nei laboratori del Tigem, una grande eccellenza del nostro territorio di cui andare veramente fieri.

Pensioni: Poletti, opportunità di uscita per 60.000 in difficoltà.

Il ministro Poletti © ANSA


Il ministro del Lavoro: "Potenziali effetti positivi sul ricambio generazionale in azienda".

"Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei decreti per l'Ape sociale ed i lavoratori precoci, viene data l'opportunità a lavoratori in condizioni di difficoltà, per quest'anno stimati in circa 60.000, di anticipare fino a tre anni e sette mesi l'età di pensionamento, con potenziali effetti positivi sul ricambio generazionale in azienda e quindi sulle opportunità di ingresso al lavoro per i giovani". Lo afferma il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.
Diventa operativo - prosegue - "un altro degli interventi sul sistema previdenziale definiti dal Governo che poggiano su una consistente dotazione di risorse, previste nella legge di bilancio 2017, volti ad introdurre elementi di flessibilità ispirati ad un principio di equità e, nello stesso tempo, rispettosi degli obiettivi e degli equilibri di finanza pubblica".
Il Ministro conclude ricordando che "sono già operative altre norme che attuano un insieme articolato di interventi oggetto di un confronto approfondito con le organizzazioni sindacali, come ad esempio il cumulo gratuito dei periodi di contribuzione previdenziale maturati in gestioni diverse, l'eliminazione definitiva delle penalizzazioni previste in caso di pensionamento anticipato prima dei 62 anni di età e l'aumento e l'estensione delle quattordicesime per i pensionati con redditi più bassi".
60mila lavoratori in difficoltà vanno in pensione anticipatamente a quali condizioni?
Io dico che il governo dà la possibilità ai datori di lavoro di liberarsi di 60mila lavoratori a tempo indeterminato che costano il doppio di una parte dei 60mila che assumerebbero a metà costo e con turni doppi. E il tempo mi darà ragione.

lunedì 19 giugno 2017

Scoperta in Cappadocia un'immensa città sotterranea.


Scavata nel tufo nel sottosuolo di Nevsehir, in caso di pericolo poteva dare rifugio a migliaia di persone.

Kayseri, in Turchia 

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 Il complesso di tunnel e ambienti sotterranei è stato trovato sotto una fortezza bizantina. Fotografia di Murat Kaya, Anadolu Agency/Getty
Scavata nel tufo nel sottosuolo di Nevsehir, in caso di pericolo poteva dare rifugio a migliaia di persone.
Quando arrivavano gli invasori, gli abitanti della Cappadocia sapevano dove nascondersi: nel sottosuolo, in uno dei 250 rifugi che avevano scavato nel friabile tufo vulcanico di cui è fatta la loro terra.

Oggi i lavori di un cantiere potrebbero aver portato alla luce il più grande nascondiglio sotterraneo mai scoperto in questa regione al centro della Turchia, già celeberrima meta turistica grazie alle sue chiese rupestri, alle case dai bizzarri camini e alle intere città scavate nella roccia.

Scoperto a Nevsehir, la capitale della provincia, sotto un castello d'età bizantina costruito in cima a una collina, il sito è ancora in gran parte inesplorato. Ma le prime ricerche fanno pensare che possa rivaleggiare, per dimensioni e caratteristiche, con la città ipogea di Derinkuyu, che poteva ospitare 20 mila persone. 
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Nel 2013, gli operai che stavano demolendo alcune modeste case che circondavano il castello scoprirono una serie di ingressi che portavano a una rete di tunnel e stanze sotterranee. Il comune bloccò il progetto e chiamò un team di archeologi e geofisici che cominciò a indagare. Esaminando 300 anni di corrispondenza tra gli amministratori locali e le autorità dell'Impero Ottomano, gli studiosi hanno trovato indizi su dove cercare: "Dai documenti risultava l'esistenza di una trentina di tunnel per l'acqua in questa regione", spiega Hasan Ünver, sindaco della città. 
Partendo da quei tunnel, nel corso del 2014 gli scienziati hanno scoperto un insediamento su più livelli, che comprendeva abitazioni, cucine, cantine, cappelle, scalinate e bezirhane, frantoi dove venivano spremuti i semi di lino per ricavarne olio per l'illuminazione della città sotterranea. Gli oggetti ritrovati - macine, croci di pietra, ceramiche - mostrano che la città è stata utilizzata dall'epoca bizantina fino alla conquista ottomana. 
A quanto pare, proprio come Derinkuyu, si trattava di un grande complesso autosufficiente, con pozzi per l'aria e canali per l'acqua corrente. Quando incombeva il pericolo, i cappadoci si ritiravano sottoterra, bloccavano i tunnel d'accesso con grosse porte di pietra rotonda e si chiudevano dentro con provviste e bestiame finché la minaccia non era passata.
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Tra le prime regioni ad abbracciare il Cristianesimo - l'apostolo Paolo arrivò qui nel I secolo, e nel IV secolo i suoi vescovi rivestirono molta autorità quando l'Impero adottò la nuova religione - la Cappadocia subì le prime invasioni musulmane alla fine dell'VIII secolo. Più tardi arrivarono i turchi Selgiuchidi, e infine gli Ottomani che nel Quattrocento completarono la conquista dell'Anatolia abbattendo l'Impero Bizantino. 
Quanto è grande? I geofisici dell'Università di Nevsehir hanno condotto sondaggi sistematici su un'area di circa quattro chilometri quadrat,i usando tecniche come la misura della georesistività e la tomografia sismica. Dalle 33 misurazioni indipendenti effettuate, si stima che il sito debba avere un'area di quasi 460 mila metri quadrati, e che si addentri fino a 113 metri nel sottosuolo. Se le misure sono esatte, la città di Nevsehir dovrebbe superare di un buon terzo quella di Derinkuyu.
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Ma sono solo ipotesi, precisa Murat Gülyaz, direttore dell'università e archeologo a capo delle operazioni. "Finora non è possibile dire quanto fosse grande la città. Ma data la sua posizione, le difese di cui era dotata e la vicinanza alle riserve d'acqua, è molto probabile che si estendesse su un'area molto vasta". 

"Questa scoperta si aggiunge come una nuova perla, un nuovo diamante, un nuovo gioiello d'oro" alle ricchezze della Cappadocia, si entusiasma il sindaco, che sogna di costruire "il più grande parco archeologico del mondo":  hotel di lusso e gallerie d'arte in superficie, percorsi turistici e un museo nel sottosuolo. "Vogliamo anche riaprire le chiese ipogee", dice. "Siamo tutti molto emozionati".

L'équipe di archeologi continuerà a ripulire i tunnel dalle macerie e esplorare il sottosuolo: un'operazione rischiosa, visto che il tufo crolla facilmente. "Quando la città sarà tutta scoperta", sostiene Gülyaz, "è quasi certo che la classifica delle destinazioni turistiche della Cappadocia cambierà drasticamente".

Sensazionale Scoperta in Messico! Trovate in una grotta le “Pietre del Primo Incontro” tra gli Extraterrestri e i Maya.

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Residenti che si trovano nella perfieria di Puebla, vicino Veracruz (Messico), hanno trovato delle pietre di giada con misteriose incisioni che sembrano rappresentare alcuni esseri dall’aspetto umanoide con grandi teste, simili a veri e propri Alieni.




Questa scoperta era stata fatta nel mese di Marzo 2017, e la notizia era stata rilasciata via Twitter dal giornalista Javier Lopez Diaz che lavora a CincoRadio, dove sono state pubblicate alcune immagini delle pietre che stanno per essere studiate e analizzate da esperti. Quello che si può vedere inciso sulle due pietre potrebbe rappresentare un vero “contatto” con esseri provenienti da altri mondi, avvenuto durante lo sviluppo della Civiltà Maya.
L’autenticità dei reperti trovati in una grotta nella periferia tra Puebla e Veracruz, sembra essere confermata grazie alla ispezione della grotta dove sono stati trovati altri reperti, tra cui petroglifi di importanza storica che riproducono delle vere e proprie scene di un Inontro tra esseri di Altri Mondi e rappresentanti del Popolo Maya. Infatti le pietre ritrovate sono state chiamate le “Pietre del Primo Incontro”.
La spediazione nella grotta
Dopo poco più di tre mesi dalla scoperta delle pietre, una spedizione di ispezione è stata fatta dal gruppo “Treasure Seekers” dove il ricercatore della JAC Detector José Aguayo, il Maestro Manuel, insieme a Rangel Vigueras, Asrael, Héctor Pavón, Claudia Vázquez e qualche altro collaboratore, hanno trovato per caso una pietra scavata nella grotta dove ci sono dei disegni impressi con forme aliene. L’ispezione nella grotta è avvenuta per ben 2 volte, la prima a Maggio e la seconda il 12 Giugno 2017.
Dopo aver camminato diverse ore attraverso la boscaglia per raggiungere una serie di tre grotte private, che si trovano entro i confini di Veracruz e Puebla,  due dei membri del team di ricerca hanno immediatamente segnalato alcune scoperte sorprendenti,  come ad esempio una e più pietre che si trovavano all’interno della grotta, in cui erano visibili immagini che rappresentano la possibile relazione storica tra umani e alieni. Poi è stata notata con sorpresa la presenza di un metallo che i dirigenti della spedizione, dicono che potrebbe essere oro.
Nelle pietre documentate situate nella grotta, a prima vista sono visibil vari disegni intagliati tra i quali le navi aliene e esseri dall’aspetto umanoide; in una delle pietre, che a quanto pare è stata rotta dalle spedizioni precedenti, si può notare la parte superiore di una nave spaziale con un essere che viene nel nostro mondo e un ex capo della cultura preispanica che sembra avere apparentemente una spiga di grano. Ci sono altri simboli da decifrare ma queste pietre la gente del posto le chiamavano “pietre del primo incontro.”
Secondo la leggenda della gente del posto, qui sarebbe avvenuto un incontro con esseri venuti attraverso una nave spaziale e quindi sarebbe stato documentato il tutto attraverso le incisioni sulle rocce intrappolate o incorporate in una caverna. Alcuni ricercatori hanno cominciato la loro ispezione con il proprietario del terreno dove si trova la caverna, cosi la prima visita al sito è iniziata tre mesi fa. Infatti nella boscaglia, non solo hanno trovato la grotta, ma anche alcune pietre su cui vengono visualizzate le immagini di questi esseri umanoidi; quindi questa nuova visita del 12 Giugno era in programma.
Ma mentre i ricercatori effettuavano le riprese e scattavano le foto, hanno potuto verificare l’esistenza di un qualcosa di luminoso, di colore dorato. Poi è stato passato il metal detector e cosi hanno scoperto che si trattava di un materiale metallico, e che a quanto pare potrebbe essere una  lamina d’oro sottilissima che si è frammentata e sparsa in tutto il luogo del sito. Così è stato effettuato un prelievo del campione e portato ad analisi, che potrà confermare o meno che si tratti di oro. La notizia di questa scoperta straordinaria è stata riportata dai quotidiani in Messico tra cui Elinformante de Veracruz e Televisapuebla.tv. In Italia nessuno ne ha parlato tranne noi di Segnidalcielo.
José Aguayo ha detto che “Se ad un certo punto l’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia del Messico ha deciso di intressarsi a questa scoperta e raccogliere i pezzi delle pietre, per entrambi i gruppi di ricerca sarebbe meglio, anche perché in questo modo si sarebbe accettato il fatto dell’esistenza di un contatto alieno, di cui molti hanno sempre negato l’esistenza delle prove”.
Guardate i due video straordinari relativi all’ispezione nella grotta e alle immagini dei Petroglifi.
Fonte: segnidalcielo
Tratto da: hackthematrix

domenica 18 giugno 2017

Un lavoro povero è davvero ‘meglio di niente’? - Elena Monticelli, Marco Marrone



Mentre riscoppia nuovamente “la questione voucher” nel nostro paese e mentre il caso dei c.d. “Scontrinisti” della Biblioteca Nazionale di Roma è stato per giorni su tutti i giornali e le trasmissioni televisive, come esempio emblematico di lavoro povero, contemporaneamente, con la precipitazione del clima elettorale, il dibattito “reddito sì reddito no” ha raggiunto una polarizzazione in Italia che negli ultimi anni sembrava essersi affievolita, grazie al proliferare di campagne e proposte di legge in materia. La propaganda del M5S, caratterizzata da un approccio “proprietario” del tema del reddito di cittadinanza (nonostante nei fatti la loro proposta di legge riguardi una forma di reddito minimo, dove il termine cittadinanza viene evocato sulla scia del ‘prima gli italiani’), ha determinato un irrigidimento da parte degli altri soggetti politici, addirittura si è utilizzato il discorso del Papa per aprire le prime pagine delle più grosse testate giornalistiche proprio contro il tema del reddito.
Pertanto il pericoloso paradigma che sembra pian piano affermarsi, pare essere: “contro l’aumento della disoccupazione no al reddito di cittadinanza si alla piena occupazione, sì a proposte come il lavoro di cittadinanza”. Ma siamo davvero convinti che le posizioni possano essere ancora così nette? Davvero c’è bisogno, ancora una volta, di riaprire una discussione fondata sulla contrapposizione tra redditisti e lavoristi?
Se così fosse allora avrebbe senso, provare a porre la domanda da un altro punto di vista: è, indistintamente, tutto il lavoro ad essere veicolo di cittadinanza? In che modo il reddito non si contrappone al salario, ma anzi, consente di liberare energie e conflittualità per un suo miglioramento? Infine, in che modo il reddito può ribaltare tendenze di lungo periodo che hanno caratterizzato il fallimento delle politiche del lavoro in Italia?
Alla domanda “che lavoro stiamo producendo?” hanno provato a rispondere in tanti (si segnalano, per esempio, questo articolo di Roberto Ciccarelli o questo di Francesca Coin) che mostrano come siamo di fronte ad un vero e proprio processo di sostituzione di lavoro contrattualizzato, salariato e tutelato con forme di lavoro povero, mal pagato o gratuito. È evidente come questo processo sia il frutto a sua volta delle trasformazioni del lavoro in Italia e di un uso capitalistico della crisi.
  1. Le trasformazioni del lavoro al tempo della crisi

Pensare l’impatto di una delle più lunghe crisi della storia soltanto come recessione e come distruzione di posti di lavoro è riduttivo e pone il rischio di non riuscire a cogliere la reale intensità dei suoi effetti. Senza negare questo aspetto, è necessario integrarlo anche con una lettura delle trasformazioni delle forme con cui le prestazioni lavorative vengono regolate. Come emerge nella tabella 1, che raccoglie le variazioni delle tipologie di impiego dal 2008, anno di inizio della crisi, al 2015, ultimo anno in cui sono disponibili tutti i dati, possiamo vedere come la flessione di oltre 2 milioni di lavoratori con un contratto subordinato a tempo indeterminato non è l’unico dato a segnare variazioni significative. Quello del tempo indeterminato è infatti l’unica tipologia che nel corso di questi anni si è trovata a diminuire, mentre tutte le altre tipologie contrattuali mostrando decisi tassi di crescita. Abbiamo infatti, oltre alla crescita di circa 1 milione di occupati a tempo determinato, la crescita dei tirocini che in appena tre anni quasi raddoppiano passando dai circa 180 mila del 2008 ai quasi 350 mila del 2015. Clamorosa e già tristemente nota è l’esplosione del voucher, che passa dai 28 mila prestatori nel 2008 ai quasi 1 milione e mezzo del 2015, complice non solo la spinta della crisi, ma anche la scelta di governi di destra e di sinistra di estendere progressivamente il dispositivo del lavoro accessorio all’interno del mercato del lavoro. A crescere, infine, sono anche i lavoratori autonomi, un settore sul quale viene esercitata una pressione non solo da una trasformazione del lavoro che dura da oltre 20 anni, fotografata ai suoi esordi dal ‘lavoro autonomo di seconda generazione’ (Bologna & Fumagalli, 1997) nel 1997; sia da parte di fenomeni come la gig economy, che, come affermato dallo studio rilasciato da McKinsey lo scorso autunno, stanno contribuendo ad incrementare il dato del lavoro autonomo trasversalmente in tutti i paesi occidentali.
Tab. 1 – Variazioni tipologie contrattuali (valori assoluti in 1.000)
 
Fonte: Istat, Inps e Ministero dell’economia, elaborazioni Marrone
La domanda che sorge spontanea a questo punto è: esiste un filo rosso che attraversa queste forme di impiego? Vi è una logica rintracciabile in ognuno di questi istituti in grado di spiegare perché i datori di lavoro nostrani guardano a queste forme di impiego con sempre maggiore interesse?
Sicuramente, una delle ragioni ha a che fare con la riduzione del costo del lavoro, sia per quanto riguarda istituti quali i tirocini, dove la sovrapposizione tra le attività lavorative svolte dai tirocinanti e l’obiettivo formativo dell’istituto legittima un drastico abbassamento dei costi del lavoro; sia per quanto riguarda altre forme come i voucher o l’utilizzo del lavoro autonomo, che consentono ai datori di lavoro di retribuire soltanto il lavoro effettivamente svolto senza farsi più carico dei bisogni riproduttivi del lavoro.
La volontà di ridurre il costo del lavoro non è però l’unica prospettiva possibile. Come sottolinea la copiosa letteratura che in questi anni ha messo sotto analisi le strategie aziendali nel contesto della produzione globale, persino la corsa all’outsourcing non corrisponde a semplice logiche economiche, piuttosto per: “evitare di adempiere ai propri obblighi di datore di lavoro” (Chen, 2006, p. 11). In altre parole, sembra che la ragione che ha spinto sempre più aziende a ricorrere all’utilizzo di forme di lavoro ‘informale’ sia la volontà di procedere verso una sorta di esternalizzazione all’interno dello stesso luogo di lavoro, come ci ricorda Sassen (1994), particolarmente preziosa per quelle attività come la ristorazione o il commercio che non possono delocalizzare la produzione. I datori di lavoro ricorrono così a questi istituti per ottenere lavoro senza riconoscere loro l’essere all’interno di un rapporto di lavoro, deresponsabilizzandosi nei confronti dei lavoratori, con tutto ciò che questo comporta sia all’interno del luogo di lavoro, in termini di esposizione ad una subordinazione senza più limiti e diritti, sia al di fuori di esso.
  1. Le politiche del lavoro all’insegna del neo-liberismo a bassa intensità.

Nonostante questo processo si presenti nei fatti in una scala globale, le forme che esso assume si inseriscono all’interno di solchi caratterizzati da specificità territoriali che incorporano e indirizzano tali trasformazioni. Questa lettura, di cui una delle migliori sintesi è rappresentata dal lavoro condotto da Barbera, Dagnes, Salento et al. (2016) caratterizza, infatti, la modalità in cui sono state introdotte 35 anni di riforme neo-liberali all’interno del nostro paese. In modo trasversale agli ambiti di intervento, dalle privatizzazioni, alle riforme del lavoro, le retoriche che hanno accompagnato le riforme non hanno mai assunto esplicitamente il frame-work neo-liberale, ma essa è stata sostituita da altra narrazioni, in primis quella ‘storica’ del ritardo economico dell’Italia nei confronti del mercato globale e, soprattutto, continentale.
Tale configurazione, però, non sarebbe stata possibile senza una flessione dello Stato verso la promozione e la difesa degli interessi economici, dismettendo così il ruolo di garante del patto tra capitale e lavoro egemone nel trentennio dal ’45 al ’75. Ciò che ci interessa mettere a fuoco qui, però, è come le politiche del lavoro degli ultimi 30 anni abbiano giocato un ruolo decisivo nel processo di una progressiva informalizzazione del lavoro e del suo impoverimento. Tanto i tirocini, quanto i voucher, infatti, sono stati oggetto di politiche pubbliche che mentre da un lato si proclamavano rivolte ad incrementare l’occupazione, dall’altro incastravano milioni di individui in una trappola di continui ‘lavoretti’ svolti in attesa dell’arrivo di un lavoro ‘vero’. Parallelamente al neo-liberismo a bassa intensità, inoltre, ha insistito su questo processo l’impatto delle nuove tecnologie che, come ci ricorda Marx, funzionano da ‘evidenziatore dei rapporti sociali’, accelerando così le tendenze predatorie di un capitalismo sempre più intenzionato a sottrarsi da una responsabilità legale e sociale, moltiplicando la condizione di lavoratori esclusi dal riconoscimento del rapporto di lavoro anche nelle frontiere della gig economy.
Tuttavia, la particolarità italiana sembra situarsi proprio nella torsione subita dagli ingenti investimento di risorse pubbliche, a partire da strumenti come la garanzia giovani , o il servizio civile, sino alla sua estensione nei circoli della formazione attraverso l’alternanza scuola-lavoro.
L’idea della piena occupazione come valore in sè (spesso sacrificando anche la dimensione qualitativa), l’idea che la disoccupazione sia il frutto di scelte formative sbagliate o di comportamenti individuali che necessitano di essere corretti, l’idea di un welfare ‘attivo’ che scoraggi la dipendenza dai sussidi pubblici, si trovano quindi a determinare un paradosso[1]. Il risultato di queste politiche non è stata infatti la riduzione del numero dei disoccupati, che, come evidenziato in tabella 2 al contrario è quasi duplicato (a fronte di variazioni molto meno significative tra gli occupati e gli inattivi), ma l’effetto di una sorta di sabbie mobili dove più si tenta di sfuggire all’orizzonte della precarietà, più ci si ritrova a sprofondare in posizioni lavorative prive di diritti e, spesso, anche di salario. I disoccupati, infatti, non sono coloro privi di un lavoro, ma coloro che ne sono alla ricerca e, a comporre questa categoria, sono sempre di più coloro che pur lavorando non accedono né a un reddito sufficiente a soddisfare i propri bisogni, né ad un lavoro in grado di realizzare le proprie aspirazioni di vita.
Tab. 2 – Occupati, Disoccupati e Inattivi (popolazione con almeno 15 anni)


Fonte: Istat, elaborazioni Marrone

3. Reddito come strumento per contrastare il lavoro povero

Il dibattito intorno all’introduzione di misure di sostegno a reddito, pertanto, si è evoluto sempre più in questa direzione, inserendosi nella strettoia politiche del lavoro neo-liberiste, appena illustrate, e le politiche di welfare to work incentivate dall’Unione Europea attraverso i fondi FSE. Il risultato di questa strettoia ha determinato negli ultimi tre anni una produzione legislativa regionale caratterizzata da forme di reddito estremamente condizionate, non al lavoro (inteso come processo formativo di reinserimento nel mondo del lavoro), ma all’adesione a progetti individuali coordinati dai servizi sociali o a forme di tirocinio, segnando un’inversione di tendenza rispetto ad alcune leggi regionali approvate in passato (es. l. r. 4/2009 del Lazio) oppure alcune proposte di legge (d.l. 1670 proposto da Sel). La tendenza verso queste forme di condizionalità caratterizza anche le ultime produzioni legislative a livello nazionale, in particolare il recente REI (reddito di inclusione) di cui si attendono i decreti attuativi.
Qualcuno ha scritto: “Cosa c’è di male? Sono forme di reinserimento del beneficiario nella comunità” in altri termini “una restituzione di dignità attraverso una qualche forma di attività”.
Questa obiezione, in realtà però, ha senso solo in una visione della povertà come espressione di disagio sociale, problemi legati alla salute mentale o a forme di inabilità sociale. Le nuove forme di povertà, però, sono sempre più il riflesso di quel combinato tra stati di disoccupazione e prestazioni lavorative rese al di fuori dei tradizionali schemi contrattuali e dunque estranee ai sistemi di tutela del lavoro vigenti (lavori indecenti e poveri) illustrato in precedenza. Per tali ragioni una condizionalità, legata a progetti di presa in carico dei servizi sociali o di tirocini, o di lavori socialmente utili, che non tenga conto della “congruità” e quindi della storia del beneficiario (delle sue skills e conoscenze), potrebbe essere lesiva della libertà di scelta dell’individuo. Allo stesso modo l’obiezione “serve una controprestazione ad un’erogazione in denaro”, sembrerebbe non tener conto della diversa natura del reddito e del salario: il primo rientra negli strumenti di welfare, pagati dalla fiscalità generale, mentre il secondo è la remunerazione che deriva dalla prestazione lavorativa. In un contesto di sostituzione progressiva del lavoro salariato con forme di lavoro povero, una misura di reddito, condizionata allo svolgimento di attività paralavorative, probabilmente aumenterebbe la produzione di lavoro indecente, invece che interromperla. Per questo il reddito minimo (e a maggior ragione il reddito di cittadinanza) sono un’altra cosa. Non sono strumenti pensati per impiegare le persone “pur di far fare loro qualcosa”, sono strumenti pensati affinché ciascuna persona sia guidata e supportata nelle sue scelte, sia quelle produttive (di lavoro e di ricerca di lavoro), sia quelle relative al tempo liberato dal lavoro, senza l’assillo del bisogno (Bronzini 2016); in altre parole uno strumento di autodeterminazione e di redistribuzione, in una fase caratterizzata da un aumento delle disuguaglianze sociali.
Se si accetta questa visione, allora, il reddito può essere uno strumento per una battaglia di liberazione dai lavori poveri, sfruttati, mal pagati e gratuiti (Leonardi, Pisani, 2017), verso una società in cui sia possibile lavorare meno e lavorare meglio, in un più ampio sforzo garantistico delle capacità individuali, e della garanzia di un tempo sottratto al mercato da impiegare per altre attività (Fumagalli, Morini 2010), non per forza nel consumo come dicono in diversi, ma ad esempio nella cura degli affetti (attività che continua a gravare prevalentemente sulle donne). In quest’ottica, quindi, sì, il reddito si contrappone al lavoro, ma al lavoro indecente e sfruttato che sta diventando non l’eccezione, ma il paradigma che la nostra generazione (e quelle future) sono (e saranno) costrette ad accettare come unico possibile.

Conclusioni.

Benchè “la fine del lavoro” non sembri davvero vicina, è evidente come questi anni di crisi abbiano radicalmente trasformato il modo in cui si lavoro. Tuttavia, questo non riguarda soltanto l’utilizzo delle nuove tecnologie digitali, ma le trasformazioni in atto sembrano approfondire le tendenze di un capitalismo che ha esteso sempre di più le sue dinamiche di accumulazione. In questo scenario, limitare l’analisi e la proposta politica al problema della creazione di posti di lavoro risulta una vera e propria semplificazione che non tiene in considerazione la moltiplicazione del lavoro al di fuori delle dimensioni formali che abbiamo conosciuto sino ad oggi. Se c’è un elemento del voucher che è necessario non limitare alla sua natura è proprio il tentativo da parte del capitale di sottrarsi da quei vincoli di reciproci obblighi e prerogative che lo legava al lavoro. La sua esplosione ha infatti messo a nudo processi che da tempo si consumavano all’ombra dell’economia formale, rendendo noto come a mancare non sia tanto il lavoro, ma la voglia di retribuirlo e, soprattutto, di retribuirlo adeguatamente.
A rendere possibile questo processo vi è l’egemonia di un pensiero che non tollera altro modo di pensare il lavoro se non in funzione delle esigenze produttive, annichilendo invece la prospettiva di un lavoro che, in quanto cardine della cittadinanza, sia compatibile con le esigenze di vita sia nel luogo di lavoro, sia al di fuori di esso. L’impatto del neo-liberismo a bassa intensità emerge dunque anzitutto nella nozione a-critica del lavoro che la razionalità neo-liberale ha imposto, è questo infatti l’altro lato della medaglia del ‘un lavoretto (che sia in voucher, tirocinio, o altro) è sempre meglio di niente’e risulta quasi “inaccettabile” rifiutarlo.
Riprendere il tema del reddito (a cominciare da un reddito minimo), senza forme di condizionalità legate ad attività para lavorative, che consenta di sottrarsi ai ricatti dell’economia dei lavoretti ci sembra non solo non essere in contrasto con il lavoro, ma sempre più necessario, per far tornare questo ad essere un veicolo di cittadinanza piena. Per milioni di giovani nel nostro paese, infatti, non esiste alcuna alternativa alla costante precarizzazione, al di fuori del welfare familiare, peraltro pesantemente colpito da quasi un decennio di crisi, facendo del lavoro povero un vero e proprio cancro in espansione nella nostra società. Reddito minimo garantito deve tornare a significare garantire a ciascuno la possibilità di una vita degna al di fuori del suo ruolo nel mercato, perché non tutto il lavoro è dignità, ma solo quello dignitosamente retribuito.
*Marco Marrone è dottorando all’Università di Bologna.
Elena Monticelli è dottoranda all’Università La Sapienza di Roma.
[2] I dati sul tirocini sono limitati ai tirocini post-curriculari e sono disponibili soltanto a partire dal 2012
[3] I dati sui voucher sono stati elaborati a partire dal database Inps

Il governo stanzia 10 miliardi alla Difesa. - Giulio Marcon

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Un decreto della presidenza del consiglio ripartisce 46 miliardi di investimenti nei prossimi anni. Ma il 22% del totale verranno destinati al Ministero della Difesa. Circa 10 miliardi di euro sottratti a investimenti e sviluppo infrastrutturale che verranno utilizzati per produrre carri da combattimento e elicotteri da attacco.
Oggi, 14 giugno, se non fosse stata messa la fiducia sulla riforma del processo penale la Commissione Bilancio della Camera si sarebbe dovuta occupare di un decreto della presidenza del consiglio che ripartisce 46 miliardi di investimenti nei prossimi anni, di cui 10 ai sistemi d’arma e agli interventi militari. Se ne parlerà domani o la prossima settimana.
Di che si tratta? L’ultima legge di bilancio (al comma 140) stabiliva un piano di investimenti (46 miliardi) da qui al 2032 su vari assi: trasporti, ricerca, periferie, difesa del suolo, lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, bonifiche, informatizzazione dell’amministrazione giudiziaria, ecc. ecc. Di difesa e armi non si parlava nella legge di bilancio, anche se tra le priorità venivano citate le “attività industriali ad alta tecnologia e sostegno alle esportazioni”, che vuol dire tutto e niente.
Nella tabella del decreto in distribuzione scopriamo che 9.988.550.001 (in pratica 10 miliardi, il 22% del totale) saranno destinati al ministero della difesa. Ma le spese militari non erano inserite tra le priorità del comma 140 della legge di bilancio. Per cosa serviranno questi 10 miliardi? Come ricorda Milex saranno usati per circa la metà dell’importo (5,3 miliardi) per produrre carri da combattimento Freccia e Centauro 2, le fregate Fremm, gli elicotteri da attacco Mangusta e tanto altro ancora. Soldi che serviranno a realizzare (ben 2,6 miliardi) anche il “Pentagono de noantri” (un mega centro servizi e comandi) nel quartiere periferico di Centocelle, a Roma. L’aspetto ridicolo e paradossale è che questa spesa di 2,6 miliardi per il Pentagono nostrano viene inserita sotto il titolo del paragrafo del decreto: “edilizia pubblica, compresa quella scolastica”. Scolastica?
Due riflessioni. La prima: un fondo di 46 miliardi per “assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastruttale del paese” cede il 22% della sua dote al Ministero della Difesa per fare carri armati ed elicotteri di combattimento e centri comandi. Che c’entra? Una scorrettezza politica e formale grande come una casa. Secondo: si sacrificano gli investimenti civili a quelli militari. Mentre si destinano 10 miliardi alle armi, si concedono in questo piano pluriennale solo 500 milioni agli interventi in campo ambientale, meno di 600 ai beni culturali e 287 (sempre milioni) alla salute. E allo “sviluppo economico” (ci si aspetterebbe la fetta di torta più grande) vengono dati 3,5 miliardi di euro, appena poco più di 1/3 di quanto si destina a contraeree e fregate.
Nonostante le lamentele della ministra Pinotti e delle gerarchie militari, al ministero della Difesa arrivano sempre tanti, troppi soldi.
Ma il paese ha bisogno di lavoro, non di carri armati.