giovedì 6 giugno 2019

Fucilati dai giornali, un prezzo che i Cinque Stelle pagano caro. Mai vista tanta stampa ostile. - Paolo Di Mizio



Il M5S non ha organi di stampa amici, se si eccettuano un paio di testate non ostili (tra le quali questa), e tanto meno televisioni amiche. È evidente che fin dalla campagna elettorale dell’anno scorso, e anche prima, è stato il M5S, non la Lega, l’oggetto principale dell’aggressione da parte dei giornaloni (tutti pro-Pd) e dell’apparato mediatico nel suo insieme.
Perché? Perché la Lega è omologata al sistema politico preesistente, quello del pre-grillismo per intenderci. Quindi la Lega è un avversario (del Pd e dei giornaloni), ma un avversario “naturale”: si muove nello stesso ring, fa parte dello stesso universo, rientra in una funzione antitetica (tesi-antitesi, sinistra-destra), fisiologica in un sistema di potere. Invece i 5 Stelle sono un corpo estraneo e, perciò, potenzialmente, una minaccia mortale. Sono i barbari che invadono la Cristianità e non hanno rispetto per la Croce.
Il potere economico, che controlla l’editoria, lo ha capito subito. Tutta l’artiglieria è stata subito puntata ad alzo zero contro i grillini. Non solo i giornaloni amici del Pd (Corriere della SeraLa StampaLa RepubblicaIl Sole 24 OreL’Espresso), ma anche tutti gli altri giornali di complemento (Il MessaggeroIl GiornoIl Resto del CarlinoLa NazioneIl Secolo XIXIl GazzettinoIl Mattino di NapoliLa Gazzetta del MezzogiornoIl Giornale di Sicilia, ecc., che per altro fanno capo a tre o quattro editori soltanto).
Anche le batterie della Lega e del centrodestra hanno sparato ad alzo zero: LiberoIl GiornaleIl Tempo di Roma e, pur con ammirevole moderazione, La Verità di Belpietro. Lo stesso dicasi per tutte le reti televisive Rai, Mediaset, Sky e La7, sia nei telegiornali sia negli spazi di dibattito e approfondimento (rassegne stampa e talk show, anche qui con poche eccezioni, come la trasmissione Coffee Break di Andrea Pancani, che da tempi non sospetti ha cercato un equilibrio tra tutte le parti politiche, invitando per questo molto spesso il direttore de La NotiziaGaetano Pedullà).
La grande ingenuità dei grillini è stata quella di credere che, dopo aver occupato la roccaforte del potere politico, e quindi economico, ossia il governo, questa potesse essere detenuta stabilmente senza impossessarsi dei cannoni, ossia di una quota adeguata dei mezzi di comunicazione. Immaginavano che sarebbe bastata la cavalleria leggera dei social media. Ma il risultato si è visto alle elezioni europee: come nella carica di Balaclava, l’artiglieria pesante ha falcidiato la cavalleria leggera: morti e feriti, sei milioni di elettori. Non è stato il solo errore del M5S, ma probabilmente l’unico davvero fatale.
La strada da seguire sarebbe stata ben diversa. Non trasudare disprezzo per i giornali, ma al contrario attuare una strategia dell’attenzione. Far balenare agli editori che dall’ostilità avrebbero avuto qualcosa da perdere (legge sul conflitto d’interessi, per esempio). Non lasciare le leve della Rai nelle mani delle vecchie stratificazioni partitiche. E nel contempo, coltivare un sistema editoriale di area, capace di elaborare e fare “cultura”, ossia di fornire una narrazione diversa. Insomma, sarebbe servita una riflessione più profonda sul tema. Se così fosse stato, oggi il Movimento Cinque Stelle non sarebbe disarmato di fronte al ritorno dei vecchi poteri forti.

“LA NUOVA PD 2” - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 6 giugno 2019



Apprendiamo sgomenti che lo scandalo che investe il Csm è “come quello della P2”. Parola di Giuseppe Cascini, leader della corrente progressista Area, che ringrazia il presidente Sergio Mattarella e il vicepresidente David Ermini per averci salvati dalla nuova P2, spingendo fuori chi ne era stato infettato.
In effetti era dal 1981, cioè dalla pubblicazione delle liste di Licio Gelli, che non rotolavano tante teste al Csm: al momento cinque consiglieri, uno dimissionario perché indagato e quattro autosospesi per aver discusso del nuovo procuratore di Roma con Luca Lotti, Cosimo Ferri e Luca Palamara. Cioè con due deputati del Pd e col leader della corrente Unicost. Dei tre, gli intrusi erano i primi due: Palamara faceva il suo sporco mestiere di capocorrente, come tutti i capicorrente da che mondo è mondo e Csm è Csm. Almeno finché le correnti non verranno stroncate con l’unica riforma in grado di neutralizzarle: il sorteggio dei membri togati e la cancellazione della quota parlamentare, che porta nel Csm gl’interessi dei partiti.
Ma torniamo alla “nuova P2”. Se, come dice Cascini, esiste ed è stata respinta con la ritirata delle toghe in contatto con Lotti e Ferri, non si scappa: la “nuova P2” sono Lotti e Ferri. B. e i gialloverdi non c’entrano nulla: c’entra solo il Pd. Eppure del Pd non si parla e il Pd non parla (i possibili motivi del silenzio li spiega Lillo a pag. 4). Se quattro membri del Csm si autosospendono senz’aver commesso reati, ma solo per aver parlato con Lotti e/o Ferri, possibile che il Pd non dica nulla su Lotti e Ferri? Che Zingaretti non chieda loro di dimettersi? E che nessun giornalone associ la “nuova P2” al Pd e chieda al segretario di disinfettarlo dai neopiduisti?
Lotti e Ferri non sono due marziani insospettabili, che nessuno immaginerebbe a impicciarsi in nomine togate. Lotti, lo spicciafaccende di Renzi, è imputato per rivelazione di segreti e favoreggiamento nel processo Consip e ciononostante, o forse proprio per questo, fu promosso da Gentiloni e Mattarella ministro dello Sport (quand’era già indagato) e ricandidato in un posto sicuro alle elezioni del 2018.
Ferri, figlio del ministro dei 110 all’ora, magistrato, ras di Magistratura indipendente, presenza fissa nelle intercettazioni di gravi scandali (P3, Calciopoli, i traffici di B. e Agcom contro Annozero), divenne sottosegretario alla Giustizia in quota B. nel governo Letta, poi restò lì in quota Verdini nei governi Renzi e Gentiloni, infine Renzi lo impose come candidato sicuro alle elezioni del 2018. Eppure lo stesso Renzi l’aveva definito “indifendibile” per un altro scandalo.
Nel 2014 Ferri era stato beccato a inviare centinaia di lettere agli ex colleghi in toga per invitarli, da sottosegretario, a votare al Csm due Carneadi di MI suoi amici, puntualmente eletti. Di Lotti e di Ferri, dunque, si sapeva tutto: due personaggi al di sotto di ogni sospetto. Il Fatto li inserì nella lista degli impresentabili alle elezioni del 4 marzo, ovviamente in beata solitudine: quelli che oggi menano scandalo tacevano e acconsentivano.
Ora indovinate un po’: chi tirò i fili, nel settembre scorso, dell’elezione a vicepresidente del Csm del deputato renziano Ermini, che ora ci avrebbe salvati dalla “nuova P2”? La “nuova P2”. Cioè Lotti e il suo Pd, Ferri e la sua MI, Palamara e la sua Unicost. Il Plenum doveva scegliere fra Alberto Maria Benedetti, un docente mai iscritto a partiti, indicato come laico dai 5Stelle.
Finì 13 a 11: per Ermini votarono il Pd (cioè lui), i 10 togati di MI e Unicost e i due capi della Cassazione (Mammone di MI e Fuzio di Unicost); per Benedetti, i laici di M5S e Lega, i togati di Area e di AeI (Davigo e Ardita).
Fu così che, col plauso dei giornaloni, fra un vicepresidente apolitico e un deputato renziano come Ermini, la maggioranza del Csm preferì il secondo. Quello che aveva passato gli ultimi due anni ad attaccare i magistrati che avevano osato indagare sul padre e i compari di Renzi coinvolti nello scandalo Consip (“Notizie di una gravità inaudita. Prima si prende di mira Renzi e poi si lavora sulle indagini? Ci sono mandanti?”, “Scafarto non può aver fatto tutto da solo… vogliamo i mandanti”, “Inchiesta inquietante per colpire l’allora presidente del Consiglio Renzi”, “Un atto gravissimo, una caccia all’uomo per attaccare un organo dello Stato”). E oggi viene spacciato per il salvatore della patria dalla “nuova P2”, cioè dagli amici che l’hanno fatto eleggere appena otto mesi fa.
Ieri, mentre Zingaretti pigolava “chiedo chiarezza”, solo l’ex procuratore antimafia Franco Roberti, ora eurodeputato indipendente del Pd, ha squarciato il muro dell’omertà e dell’ipocrisia, chiedendo la condanna politica di Lotti e Ferri e ricordando gli effetti devastanti della “riforma” Renzi che prepensionò per decreto centinaia di magistrati per impossessarsi delle Procure-chiave. Se l’indagine su Palamara fosse scattata mesi o anni fa, durante la nomina dei dirigenti di altri uffici giudiziari, avrebbe squadernato le stesse contiguità e complicità fra magistrati e politici, e magari pure le interferenze del Quirinale. Che, ai tempi di Napolitano, interferiva addirittura in pubblico, con lettere e comunicati (dal caso De Magistris allo scontro Robledo-Bruti Liberati allo scandaloso stop al voto sul procuratore di Palermo perché – anche allora – il Csm intendeva bocciare Lo Voi e votare il più titolato Lo Forte): figurarsi in privato.
Ps. Ieri, su Repubblica, Carlo Bonini è tornato a calunniare il Fatto (“macchina del fango”) perché abbiamo dato notizie che lui preferisce occultare. È lo stesso giornale che il 23 maggio, per questa partita scandalosa tutta targata Pd, titolava, restando serio: “Destra e gialloverdi alla conquista della Procura di Roma”.
Vergogniamoci per loro.

Caos procure, Robledo: “Sentenza di Palamara mi allontanò da Milano. Ci fu intervento a gamba tesa di Napolitano”.

Caos procure, Robledo: “Sentenza di Palamara mi allontanò da Milano. Ci fu intervento a gamba tesa di Napolitano”

L'inchiesta degli inquirenti di Perugia - per corruzione, favoreggiamento e rivelazione di segreto - ha riacceso lo scontro tra l'ex procuratore di Milano e l'ex responsabile del dipartimento per i reati contro la pubblica amministrazione: "Bruti Liberati dovrebbe avere il buon gusto di tacere".

L’inchiesta sui magistrati Palamara, Fava e Spina e le conseguenze dell’inchiesta della procura di Perugia – per corruzione, favoreggiamento e rivelazione di segreto – su Csm e Anm ha riacceso lo scontro che è passato alla storia della cronaca giudiziaria come la guerra della procura di Milano. L’ex aggiunto del Dipartimento per i reati contro la pubblica amministrazione, Alfredo Robledo, ricorda come e quanto il Csm ha influito sulla sua carriera: il magistrato dopo una “battaglia” con il procuratore Edmondo Bruti Liberati era stato trasferito a Torino e dopo aver lasciato la magistratura è diventato presidente di una società: “Bruti Liberati, magistrato più noto per l’attività correntizia che per quella giudiziaria, rispetto alla vicenda Palamara dovrebbe avere il buon gusto di tacere. Ricordo solo come nel caso della mia nomina a Procuratore Aggiunto della Procura di Milano mi disse espressamente che avrei dovuto seguire le sue indicazioni perché la mia nomina era stata resa possibile dal voto di differenza di un consigliere di Magistratura Democratica, aggiungendo che lui avrebbe potuto far uscire dall’aula al momento del voto quel consigliere della sua corrente dicendogli di andare a fare la pipì ed io non sarei stato nominato. È tutto agli atti della mia denuncia al Csm – dichiara Robledo, ora numero uno della Impresa Sangalli Srl – Bruti non ha mai smentito queste mie affermazioni. Il Consiglio superiore della magistratura sul punto non fece una piega”. 

L’ex magistrato ricorda come peraltro di quel Consiglio, che di fatto lo punì, “faceva parte Palamara, estensore della sentenza, ritenuta molto ‘controversa’, che mi allontanò da Milano. Sono anche da ricordare l’intervento a gamba tesa del Presidente Napolitano – ha aggiunto Robledo – che condizionò il Consiglio sulle decisioni prese circa le mie documentate critiche a Bruti, e i ripetuti ringraziamenti dell’allora capo del governo, Renzi, alla Procura di Milano, che, mostrando sensibilità istituzionale, aveva reso possibile la realizzazione di Expo 2015″. Nel giugno di cinque anni il Csm aveva rinviato la decisione sullo scontro interno alla Procura di Milano e aveva discusso su una lettera “segreta” dell’allora capo dello Stato. Il presidente della Repubblica, e per Costituzione presidente dello stesso Csm, aveva inviato all’allora vicepresidente Michele Vietti una lettera che richiamava la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 proprio sul punto degli ampi poteri riconosciuti ai capi delle procure. Ovvero il punto centrale dell’esposto presentato da Robledo contro il procuratore  Liberatiin cui venivano contestati i criteri di assegnazione di fascicoli importanti, dal caso Ruby all’inchiesta Expo.
Le dichiarazioni di Robledo sono arrivate dopo che le agenzie di stampa avevano riportato i commenti e le riflessioni di Bruti Liberati sul caso dell’ex presidente dell’Amn e consigliere del Csm, Palamara, e tutte le due derivazioni di questi giorni – con gli incontri tra toghe e politici e l’ex numero uno della procura milanese: “È un fatto di una straordinaria gravità, ricorda molto la vicenda della P2 del 1981, una vicenda di inquinamento gravissimo. C’è schieramento trasversale tra magistrati e politici” che sembra avere un unico “scopo principale, quello di cancellare una damnatio memoriae, di cancellare la memoria di Pignatone“. Contro Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo, secondo gli inquirenti umbri sarebbe stata orchestrata una manovra per screditarli. 
Ma, aggiunge Bruti durante la trasmissione Agora’ su Rai3, “Qui il problema non è di frequentazioni di magistrati con politici” poiché i magistrati “che hanno alto livello di responsabilità hanno più di un’occasione di incontri istituzionali”. Incontri nei quali, conclude, “si deve parlare dei problemi della giustizia, ma di problemi generali di funzionamento della giustizia, non certo di intervento per una nomina che favorisca o sfavorisca qualcuno. Qui la distinzione è così semplice che credo la capiscano tutti. È una distinzione nettissima”.

Fragalà, il boss diceva: “Riprendiamoci Pomezia”. Con l’aiuto del consigliere del Pd oggi assunto alla Regione. - Vincenzo Bisbiglia e Marco Pasciuti

Fragalà, il boss diceva: “Riprendiamoci Pomezia”. Con l’aiuto del consigliere del Pd oggi assunto alla Regione

Alessandro Fragalà, capo della presunta associazione mafiosa smantellata dalla Dda di Roma, puntava a mettere i suoi uomini in comune. Al progetto, secondo i magistrati, partecipava Omero Schiumarini, "uno di casa", nel 2013 candidato sindaco sconfitto al ballottaggio da Fabio Fucci del M5s. E oggi consigliere comunale dem e dipendente per chiamata diretta della presidenza del consiglio della Pisana.

Il boss nel 2015 puntava a “riprendersi il comune di Pomezia“, conquistato due anni prima dal M5s, e a farlo con l’aiuto di un esponente del Partito democratico. Che oggi è dipendente a chiamata diretta della presidenza del consiglio della Regione Lazio. Dalle carte dell’inchiesta della Dda di Roma che ha portato all’arresto di 31 persone per una lunga serie di accuse tra cui l’associazione di tipo mafioso, emerge la “zona grigia” in cui nell’area sud della Capitale gli interessi di politici e professionisti si mescolano a quelli della criminalità organizzata.
Oggi è consigliere comunale, eletto con il Pd. Nel 2013 Omero Schiumarini aveva corso e perso per diventare sindaco Pomezia in una lista civica appoggiata dai dem. Tra i Fragalà si autodefinisce “uno di casa“. Non risulta indagato, ma secondo i magistrati nel 2015 era “interlocutore privilegiato sin dal momento della detenzione domiciliare” del boss Alessandro, finito di nuovo in manette ieri perché ritenuto capo dell’associazione mafiosa. Mentre quest’ultimo era costretto tra le mura domestiche Omero era andato a trovarlo almeno due volte, il 12 giugno e l’8 settembre, entrambe in compagnia di Astrid, che di Alessandro è figlia e che nel 2009 grazie al politico era diventata presidente di Confcommercio Roma Sud. “L’ho protetta come una sorella – racconta Schiumarini, un passato politico anche in Forza Italia – l’ho nominata presidente dei Commercianti”.
Ma non solo: secondo i pm Schiumarini, che in quella tornata era stato sconfitto al ballottaggio da Fabio Fucci del Movimento 5 stelle, aveva provato a imporre Astrid come assessore in un comune poco distante dove il cognome Fragalà non era noto: “Tu sei stata in lista per fare l’assessore ad Anzio – ricorda il politico alla figlia del boss, finita agli arresti questa mattina – tu quello che sei qui è una cosa, a … a quaranta chilometri … non c’è il collegamento!”. E la famiglia ringraziava sentitamente: “Io ti devo dire ‘Omero grazie’ – gli dice papà Alessandro quel 12 giugno – perché hai preso per mano una ragazza che meritava di essere presa per mano”. E soprattutto perché Schiumarini era un tassello fondamentale del suo piano: “Posizionare membri del sodalizio più ‘presentabili’ – annotano i magistrati – al fine di ottenere ruoli di carattere politico-amministrativo“.
Il disegno dei Fragalà, gente capace secondo gli inquirenti di stipulare un patto “federativo” con i Casalesi, i Fasciani e Senese, è chiaro. Lo illustra il boss in prima persona, e del progetto deve far parte anche un ex consigliere comunale di Pomezia, Fiorenzo D’Alessandri, già consigliere dei Democratici di Sinistra e più volte candidato dal Pd: “Devo dire a Omero che deve collaborare con lui – spiega Alessandro ad Astrid – deve collaborare con lui per riprendersi il comune di Pomezia”.
La strategia è delineata: “Omero si deve mettere da parte – prosegue il patriarca – deve comandare lui però con la faccia di un altro (D’Alessandri, ndr), marcarlo stretto ci favorisce a noi“. Noi inteso come Fragalà. E il nome deve pesare: “A me interessa che lui (D’Alessandri, ndr) c’abbia un Fragalà là dentro, cioè mia figlia”. Perché in questo modo “chiunque va là, vede a mia figlia là dentro dice ‘è coperto’. Chiunque si avvicina a Fiorenzo (dice) ‘cazzo, ho visto Astrid là dentro, ma che ci sta Alessandro dentro?'”. Tradotto: con la presenza di Astrid nei suoi uffici, tutti avrebbero capito che l’ex consigliere comunale era passato sotto la protezione dei Fragalà.
Gli effetti della vicinanza con la famiglia del boss si facevano vedere in breve tempo: “Persone che manco mi guardavano in faccia, che ora salutano, che vanno verso mia moglie a salutare”, confida D’Alessandri a Fragalà l’11 novembre 2015. Ma la presenza non basta. Il capo clan punta più in alto, a entrare nella stanza dei bottoni: vuole che Astrid diventi membro della giunta. “Sceglierà e dirà ‘questa è l’assessore al commercio‘. Perché? Perché sta già là dentro”. In tutto questo Schiumarini ha un ruolo preciso: “Omero deve fare solo praticamente quello che io gli dico di fare – spiega intercettato il 16 ottobre 2015 – Omero deve fare quello che gli dico di fare”. Repetita iuvant, non si sa mai.
Secondo i magistrati il boss poteva stare tranquillo, perché la fedeltà di Schiumarini “non era solo a parole”: “L’ascesa di Astrid Fragalà – annotano i pubblici ministeri nella richiesta delle misure cautelari – era frutto dell’aiuto prestato da Omero, che naturalmente lo rivendicava davanti al capo clan al punto da definirsi ‘uno di casa‘”. E Alessandro delineava i contorni del circolo della fiducia: “Per famiglia io intendo non solo quelli che si chiamano Fragalà e basta, per famiglia intendo persone che possono stare al tavolo con me e possono stare seduti al divano con me”.
Oggi Schiumarini lavora alla Regione Lazio. Dal 1° gennaio 2019 stato assunto con chiamata diretta (articolo 12 del regolamento del Consiglio regionale) a tempo determinato nell’Ufficio Tecnico Europa, che si occupa della gestione dei fondi europei. L’ufficio è di diretta competenza del presidente del Consiglio, che all’epoca dell’inizio del contratto era Daniele Leonori, oggi vice.
Eppure Schiumarini non è un nome sconosciuto, specie negli ambienti giudiziari. Nel 2001 era stato arrestato nell’ambito dell’operazione “Bignè“, la cosiddetta “tangentopoli pometina”, con l’accusa di corruzione in concorso tra gli altri con D’Alessandri, all’epoca capogruppo dei Ds. Nella stessa inchiesta era finito coinvolto Alessandro Fragalà con l’accusa di estorsione aggravata. Nel 2009 il processo finì nel nulla per intervenuta prescrizione e l’intera vicenda si concluse nel 2014, quando la Corte d’Appello di Roma respinse il ricorso presentato da alcuni imputati per vedersi riconosciuta l’assoluzione con formula piena: il tribunale, scrivevano i giudici motivando il rigetto, “ha chiaramente motivato che (…) vi era adeguata prova della reità di tutti gli imputati”.

mercoledì 5 giugno 2019

La rete di Palamara per spartirsi voti: gli incontri notturni in hotel, i biglietti di Lotito e la vendetta di Lotti. - Fiorenza Sarzanini

La rete di Palamara per spartirsi voti: gli incontri notturni in hotel, i biglietti di Lotito e la vendetta di Lotti

Gli atti processuali trasmessi dai magistrati di Perugia al Csm e al ministero della Giustizia rivelano i retroscena dei tentativi di Palamara per far nominare un procuratore gradito al posto di Pignatone, alla Procura di Roma.

La riunione per chiudere la partita del procuratore di Roma si svolge a tarda sera in un albergo romano. Nella stessa saletta ci sono il magistrato Luca Palamara, i due parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri, e cinque consiglieri del Csm. Due — si è scoperto ieri — sono Gianluigi Morlini di Unicost e Paolo Criscuoli di Magistratura indipendente, che per questo hanno deciso di autosospendersi. E hanno reso ancor più drammatica la crisi all’interno dell’organo di autogoverno dove si era già dimesso Luigi Spina — indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto — e si erano autosospesi Corrado Cartoni e Antonio Lepre. Nella settimana che va dal 9 al 16 maggio scorsi, sono stati registrati tre appuntamenti. Soprattutto di notte. Le trattative per le nomine ai vertici degli uffici giudiziari — la Procura della Capitale, ma anche Perugia e Brescia — sono serrate. Palamara tira le fila, si accredita come regista delle operazioni. E in alcuni di questi incontri coinvolge altre persone. Come il presidente della Lazio Claudio Lotito, che lo omaggia di biglietti da distribuire agli amici. Sono gli atti processuali trasmessi dai magistrati di Perugia al Csm e al ministero della Giustizia a rivelare i retroscena di trattative andate avanti per mesi per sistemare nei posti chiave magistrati «di fiducia». E aggiungere nuovi nomi a quella «rete» che l’ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm ha costruito nel corso degli anni e avrebbe utilizzato proprio per raggiungere lo scopo di far nominare un procuratore gradito, e soprattutto «farla pagare» a Pignatone e al suo principale nemico: l’aggiunto Paolo Ielo, che aveva trasmesso ai colleghi di Perugia gli atti che lo potevano accusare di corruzione. 


La conta dei voti al dopocena in hotel.
La serata in albergo è certamente decisiva. In quello stesso hotel alloggia Cosimo Ferri, dunque è lì che giudici e politici decidono di vedersi. Ci sono Cartoni e Lepre, Palamara è l’organizzatore. Con Luca Lotti si vede spesso. Il «trojan» inserito nel cellulare del magistrato registra le conversazioni, per almeno due ore vengono analizzate tutte le ipotesi per riuscire a far prevalere Viola su Lo Voi, ma anche sul terzo candidato, il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Si fa la conta dei voti che verranno espressi in commissione: Viola ne può raccogliere quattro (quelli di Mi, di Piercamillo Davigo, e dei «laici» dei Cinque Stelle e della Lega); Creazzo e Lo Voi uno ciascuno, rispettivamente dai rappresentanti di Unicost e Area. È esattamente quello che accadrà nella riunione della commissione del 23 maggio. Con l’intesa, raggiunta proprio in quella riunione, che al plenum le preferenze di Unicost confluiranno su Viola, garantendogli così la designazione a capo dell’ufficio romano. Rispetto ai partecipanti abituali, si sente la voce di due persone. Si comprende che fanno parte del Csm, ma non c’è alcun elemento utile a identificarli. E dunque nella relazione che il Gico della Guardia di Finanza trasmette ai magistrati viene specificato che «non è stato possibile individuare i due soggetti presenti». Ieri mattina il vicepresidente del Csm David Ermini parla con tutti i consiglieri e invita chi ha partecipato a farsi avanti. Morlini di Unicost e Criscuoli di Magistratura indipendente capiscono che non possono più aspettare. Il primo è il presidente della V commissione che decide gli incarichi direttivi, il secondo è componente della I e VI commissione. Si fanno da parte ma denunciano «una caccia alle streghe». Mentre Criscuoli parla di «campagna di stampa che sovrappone indebitamente i piani di una indagine penale relativa a fatti rispetto ai quali sono del tutto estraneo con l’attuale attività svolta presso il Csm», Morlini spiega di aver «incontrato Lotti a un dopocena» e giura sulla «correttezza del mio comportamento».
Gli incontri con Lotito e il biglietto per la Coppa.
Quando vede gli amici del Pd e anche i consiglieri, Palamara decide talvolta di coinvolgere Claudio Lotito. Il presidente della Lazio è a sua volta amico di molti magistrati e politici, partecipa spesso a cene e incontri mondani. Li raggiunge anche a tarda sera. Ma soprattutto è disponibile a regalare biglietti per le partite della sua Lazio. Il 15 maggio, in occasione della finale della Coppa Italia contro l’Atalanta, in tribuna all’Olimpico con un biglietto omaggio siede Luigi Spina. A Palamara è legatissimo: è stato lui, in un incontro in piena notte, a rivelargli che la Procura di Perugia lo aveva iscritto nel registro degli indagati per corruzione, ma anche le future mosse del Csm rispetto all’esposto presentato dal pm Stefano Fava contro Pignatone e Ielo. L’abitudine a incontrarsi di notte appare una costante in questa indagine, probabilmente nella convinzione di sfuggire ai controlli. Palamara e Lotti si vedono spesso al riparo da occhi indiscreti e si trovano d’accordo sui nomi da portare ai vertici delle Procure. L’ex sottosegretario del governo Renzi appare determinato a vendicarsi di Pignatone e Ielo che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio per Consip, ma anche a poter contare in futuro su una pubblica accusa a lui più favorevole. Per questo spiega di voler escludere dalla corsa anche Creazzo che ha fatto arrestare i genitori di Matteo Renzi e a Firenze ha condotto svariate inchieste sui familiari dell’ex premier. 
Il capo di Perugia e la magistrata al Csm.
Interlocutore privilegiato di Palamara è anche il pubblico ministero antimafia Cesare Sirignano, che arriva da Napoli ed è stato incaricato di sondare i candidati per il posto di procuratore di Perugia. La ricerca di Palamara ha un unico obiettivo: trovare un capo dell’ufficio «che deve aprire un procedimento penale su Ielo». In cambio di questo, lui è pronto a garantire un pacchetto di voti. E dunque con Sirignano analizza le varie possibilità, ma ha anche un altro interesse. La compagna di quest’ultimo è infatti Ilaria Sasso del Verme, anche lei magistrato distaccata al Csm come segretaria della V commissione. È un incarico delicato soprattutto perché spetta proprio a lei redigere le motivazioni per i candidati agli incarichi direttivi. E quindi Palamara è convinto di poterla condizionare attraverso l’amicizia con il suo fidanzato, evidentemente inserendo note di merito o demerito nei dossier che vengono poi portati in votazione. Il magistrato però non è sicuro che il candidato indicato da Sirignano sia affidabile e così nei giorni successivi si muove anche con altri interlocutori per cercare la persona giusta da sponsorizzare per Perugia. E non a caso nell’elenco dei papabili inserisce tutti coloro che hanno almeno un motivo di risentimento nei confronti di Ielo. A Fava chiede invece di far pubblicare l’esposto e l’amico gli assicura di aver già provveduto. 
La casa del Notariato e i lavori di ristrutturazione.
Palamara è accusato di corruzione per aver «ricevuto 40 mila euro per agevolare la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela», ma anche «viaggi, vacanze e un anello dall’imprenditore Fabrizio Centofanti», suo amico che avrebbe fatto da tramite tra il magistrato e un gruppo di avvocati e imprenditori interessati a pilotare nomine e indagini, primi fra tutti Piero Amara e Giuseppe CalafioreLe indagini delegate dai pm di Perugia alla Guardia di Finanza riguardano anche un appartamento che Palamara ha ottenuto circa cinque anni fa dal Notariato e dove tuttora vive. Le verifiche riguardano sia i criteri di assegnazione, sia la ristrutturazione dell’appartamento, perché l’impresa che si è occupata di svolgere i lavori sarebbe collegata al gruppo di società che fa capo proprio a Centofanti. Un’ipotesi che i difensori Mariano e Benedetto Buratti negano: «Abbiamo le ricevute di tutte le spese sostenute e siamo pronti a dimostrare di non aver avuto alcun regalo o agevolazione. Il commercialista ha provveduto ad effettuare tutti gli sgravi previsti dalla legge e produrremo al più presto tutti i documenti». Il commercialista è Andrea De Giorgio, intercettato mentre assicura a Palamara di aver «informazioni compromettenti su Ielo».


martedì 4 giugno 2019

Crac Gruppo Marenco: gli intrecci tra l’imprenditore, il manager con un passato nei servizi e il colonnello della Finanza. - Andrea Giambartolomei

Crac Gruppo Marenco: gli intrecci tra l’imprenditore, il manager con un passato nei servizi e il colonnello della Finanza

Secondo l'accusa, Mario Marenco e la sua compagna, Silvia Grosso, cercavano di proteggersi dalle inchieste e per farlo si erano affidati a Giuseppe Campaniello, con un “passato militare e nei servizi segreti”: nell'avviso di chiusura indagini il suo ruolo di addetto alla sicurezza a capo di una squadra di 5 uomini. Indagato anche un ufficiale superiore in congedo, Luigi Antonio Cappelli, per favoreggiamento personale.

Servizi segreti, agenti al soldo e ufficiali amici. Così secondo l’accusa Mario Marenco e la sua compagna, Silvia Grosso, cercavano di proteggersi dalle inchieste. Per farlo l’imprenditore 64enne, indagato per bancarotta fraudolenta e altri reati dalla procura di Asti per il fallimento di dodici società, si era affidato a un manager con “passato militare e nei servizi segreti”. Il suo nome è Giuseppe Campaniello, ha 46 anni ed è nato a Milano. Dall’avviso di conclusione dell’inchiesta “Dedalo” condotta dalla Guardia di Finanza di Torino e Asti, che ieri è stato notificato ai 26 indagati, emerge il suo ruolo e anche quello di un colonnello della Guardia di Finanza ora in congedo, Luigi Antonio Cappelli, che cercava di raccomandare la Grosso ai colleghi di Asti impegnati nell’inchiesta.

L’addetto alla sicurezza.
Secondo la procura astigiana, Campaniello depistava e arruolava uomini delle forze dell’ordine per la sicurezza personale di Marenco. L’ex militare, manager di una società, è indagato insieme all’imprenditore e altre persone per la bancarotta fraudolenta di due aziende, Speia e Metanprogetti: tra il gennaio e l’aprile 2014 “in concorso tra loro”, avevano “sottratto e distrutto” i documenti sulle due società, come le mail “più scottanti”. Per il sostituto procuratore Luciano Tarditi avrebbe anche fatto pressioni sui cronisti per evitare che pubblicassero notizie sul crac Marenco.
Il manager “con passato militare e nei servizi segreti” è indagato insieme a Marenco e Grosso per appropriazione indebita: secondo l’accusa, l’imprenditore aveva prelevato dai conti della Metanprogetti poco più di 609mila euro da destinare a Campaniello per attività diverse da quelle dell’azienda. Quali? La sicurezza personale di Marenco e famiglia e anche la protezione in “audaci operazioni finanziarie in Italia e all’estero”, in Francia e Ucraina. L’accusa lo ritiene un “reclutatore” degli uomini della security: un ispettore e un assistente della questura di Brescia, un assistente della polizia stradale bresciana, un ispettore della Guardia di finanza di Roma e un privato. I cinque uomini e Campaniello sono indagati di accesso abusivo a un database delle forze di polizia, lo Sdi (“Sistema di indagine”), da loro utilizzato per controllare le persone o i veicoli da cui Marenco e Grossi si sentivano seguiti.
Inoltre sono accusati di corruzione perché, nonostante gli incarichi, lavoravano come bodyguard e autisti pronti a usare la forza su chi si metteva contro l’imprenditore astigiano. In alcuni casi si sono “contrapposti” a due agenti dei servizi segreti italiani che “esercitavano una vigilanza ancora più stretta e pregnante su Marenco anche accompagnandolo nelle sue missioni in Ucraina nell’ambito delle operazioni di acquisizioni di fonti energetiche”. E per coordinare la “squadra”, il manager 46enne utilizzava un telefono “nero”, ovvero criptato e impossibile da intercettare. “Campaniello vuole dimostrare la liceità di ogni suo comportamento – dichiara il suo difensore, l’avvocato Daniel Sussman Steinberg – e vuole affrontare il dibattimento per dimostrare l’infondatezza di ogni addebito”.
Il colonnello della Guardia di finanza.
C’è anche un ufficiale superiore della Guardia di finanza tra le persone indagate al termine dell’inchiesta condotta dai suoi colleghi del comando provinciale di Asti e di Torino. Si tratta di Luigi Antonio Cappelli, ora in congedo, indagato per favoreggiamento personale. Secondo l’accusa, nell’estate 2014 l’ufficiale aveva contattato l’allora comandante provinciale di Asti, il colonnello Michele Vendola, per chiedere notizie sull’indagine riguardante Grosso, la compagna di vita di Marenco definita da Cappelli “amica nostra”. La donna si era rivolta all’ufficiale superiore che, a sua volta, si raccomandava al collega di “trattarla bene”, di avere “un occhio di riguardo” affinché non fosse “trattata come una pezza da piedi”. L’allora comandante di Asti e gli uomini impegnati nell’inchiesta non si erano fatti sorprendere e, su autorizzazione della procura, avevano registrato la telefonata per la quale Cappelli è finito sotto inchiesta.

domenica 2 giugno 2019

Il discorso del premier. - Marco Travaglio



Care concittadine e concittadini, forse è l’ultima volta che vi parlo da presidente del Consiglio. Il che non sarebbe una tragedia né per voi, sopravvissuti a 28 premier prima di me, né per me che, diversamente dai politici italiani, un mestiere a cui tornare ce l’ho. Ma vi parlo proprio perché spero che non sia l’ultima. Il mio strano governo, nato un anno fa dal contratto fra due partiti diversi e perlopiù incompatibili, che però erano gli unici disposti a formarne uno e in grado di fare maggioranza, ha realizzato alcune cose buone e commesso altrettanti errori (più qualche orrore). A differenza di altri, molto peggiori del nostro, ha goduto di pessima stampa, più a causa dei suoi meriti (imperdonabili dall’establishment) che dei suoi demeriti (graditissimi all’establishment). Ora però, dopo le Europee, siamo a un bivio molto chiaro. Se dovessi giudicare dai consensi alla mia persona e al mio governo, oltre il 50%, dovrei essere soddisfatto. Invece non lo sono per nulla. Il voto di domenica ha umiliato il partito di maggioranza relativa, che ha dimezzato i voti, ed esaltato l’altro contraente, che li ha quasi raddoppiati. Ma il mio unico faro è il Parlamento, dove i 5Stelle hanno il doppio dei seggi della Lega: le regole della democrazia parlamentare sono queste e non c’è voto europeo che possa scardinarle.
I due leader non si parlano più da due mesi. E non riescono a uscire dalla campagna elettorale. Ma ora dovranno farlo, volenti o nolenti. A meno che non vogliano le elezioni anticipate, nel qual caso dovranno dirlo subito a me e spiegarlo a voi. Il governo, specie se ha pretese di “cambiamento”, non può tirare a campare e in ogni caso non sono disponibile a farlo. Ora, appena finirò con voi, convocherò Di Maio e Salvini e chiederò loro di mettere sul tavolo, una volta per tutte, o la carta delle elezioni o la lista delle cose che vogliono fare con tanto di cronoprogramma di qui a fine anno. A cominciare dalla legge di Bilancio. Mi regolerò così. Non accetterò richieste di rimpasto non condivise da entrambi gli alleati, né proposte di un partner che esulino dal Contratto o non siano concordate con l’altro e con me. Chi esce dagli accordi sottoscritti un anno fa o da eventuali nuove intese apre ufficialmente la crisi e se ne assume la responsabilità e le conseguenze. Chi va in giro a sparare fuori dal seminato, a mortificare gli alleati, a spacciarsi per il premier, ad annunciare norme mai discusse, a ficcanasare nei ministeri altrui ne risponderà al sottoscritto. Tanto per essere chiari: sul Tav vale il Contratto che impone di “ridiscutere integralmente” l’opera.
Tantopiù dopo la devastante analisi costi-benefici del governo (non del M5S); dunque se anche Macron confermerà l’intenzione di farlo, contesteremo l’inadempienza francese sui fondi mai stanziati e le opere rinviate al 2038; ergo Telt deve rimandare le gare fino al 2038 e, se non lo farà, ne sostituiremo i vertici perché lo faccia.
Io non ho un partito alle spalle: ma la mia onestà, la mia integrità, la mia dignità e la mia parola sono un patrimonio sufficiente, che intendo conservare e utilizzare fino in fondo. Se mi tiro indietro, il governo cade e io dirò a tutti di chi è stata la colpa. In questo momento, le elezioni anticipate sono l’opzione più probabile: ai 5Stelle può convenire un periodo di opposizione, per potersi riorganizzare e tentare di recuperare l’identità e i voti perduti; alla Lega può convenire passare subito all’incasso, nella speranza di ripetere il boom delle Europee, il che – se accadesse – li porterebbe alla maggioranza assoluta delle Camere con i soli voti di FdI, senza bisogno di quelli di FI. Sulla carta, fra Salvini e Di Maio, il più interessato alle urne è Salvini, perché parte dal 34% e più passa il tempo più rischia di scendere; e, se il governo dura anche solo fino a Natale, sarà la Lega a pagare il maggior prezzo di una legge finanziaria di sacrifici. Di Maio parte dal 17 e ha bisogno di tempo per risalire la china; ma, per guadagnare quel tempo, deve restare al governo e rischia di perdere altri pezzi di identità e di elettorato, specialmente se Salvini continuerà a comportarsi da padrone. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: senza i voti in Parlamento dei 5 Stelle, la Lega – che finora non ha portato a casa quasi nulla, se non sul piano mediatico – non può approvare la legge che più sta a cuore ai suoi elettori: la Flat Tax, che poi è uno sgravio fiscale al ceto medio tutt’altro che flat. E sfidare gli elettori senza avergli dato nulla sulle tasse, in un’elezione non più europea ma politica, con una crisi di governo prima della legge di Bilancio che vedrebbe i mercati scatenarsi contro l’Italia per tutta l’estate, lo spread volare alle stelle e le paure degli italiani spostarsi dal tema migranti al tema soldi, sarebbe un rischio molto forte per le speranze egemoniche di Salvini. Che dovrebbe tornare a imbarcare anche quel che resta di Berlusconi, rischiando di perdere i voti di chi non vuole rivedere il vecchio e malfamato centrodestra.
Dall’altra parte i 5Stelle, dimezzati alle Europee ma sempre maggioritari in Parlamento, potranno smettere di portare la croce, passarla sulle spalle dei leghisti e riservarsi un atteggiamento meno responsabile e più corsaro sulle norme più lontane dal loro Dna. Anche tentando di approvare proprie leggi con altre maggioranze in Parlamento, aprendo il dialogo a sinistra. Per questo dobbiamo mettere le carte in tavola per decidere se salutarci subito o restare insieme un altro po’. Pensando solo all’interesse degli italiani, che potrebbero punire chi apre crisi al buio per futili motivi e premiare chi lavora e non parla a vanvera. A presto, spero. In caso contrario, vi auguro di non dovermi mai rimpiangere.
“Il discorso del premier” di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 2 giugno 2019