martedì 21 luglio 2020

Su Venere vulcani ancora attivi.


Il pianeta Venere possiede vulcani ancora attivi. (fonte: Pixabay)

La mappa in 3D aiuta a svelare i segreti del suo cuore agitato.

Venere ha il cuore agitato: è un pianeta con vulcani ancora attivi. È quanto emerge dallo studio pubblicato sulla rivista Nature Geoscience dal gruppo dell’Università americana del Maryland, coordinato da Laurent Montési, insieme ai colleghi del Politecnico Federale di Zurigo.
Gli autori della ricerca hanno realizzato, grazie a simulazioni al computer, una mappa in 3D di decine di strutture a forma di corona sulla superficie di Venere, individuandone almeno 37 con attività geologica recente. L’attività vulcanica è legata al fatto che Venere ha una superficie più giovane di pianeti come Marte e Mercurio, che hanno un cuore freddo.

Ricostruzione in 3D di due delle strutture di Venere che presentano segni di attività vulcanica recente. (fonte: Image courtesy Laurent Montési, University of Maryland)
Le strutture a forma di corona, secondo gli esperti, si formano quando materiale caldo proveniente dalle profondità di Venere, viene eruttato dalla crosta dopo essere risalito attraverso il mantello, lo strato al di sotto della superficie.
Per Montési, “quelli di Venere non sono vulcani antichi ma ancora attivi, forse dormienti ma di sicuro non spenti. Questo studio - ha precisato - cambia la nostra visione di Venere da pianeta inattivo a mondo con un cuore che ancora si agita, alimentando un’attività vulcanica superficiale”.
Mappa di Venere con, in rosso, le strutture a forma di corona geologicamente attive. (fonte: Anna Gülcher)
Lo studio, concludono gli autori, aiuterà a individuare i luoghi di Venere in cui collocare strumenti geologici con la futura missione, EnVision, dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), che dovrebbe essere lanciata nel 2032.

E se persino Rutte giocasse pro Europa? - Antonio Padellaro

Contributi Ue, la doppia morale dei frugali: i quattro Paesi ...
Mark Rutte,Sebastian Kurz, Stefan Löfven, Mette Frederiksen..
Come dice quel proverbio africano? Se vuoi andare veloce, corri da solo. Se vuoi arrivare lontano, corri insieme a qualcuno. Come tutti, nella difficile trattativa europea, Romano Prodi avrebbe preferito che a Bruxelles i 27 fossero andati, tutti insieme, veloci e lontano. Poiché, purtroppo, nella vita non si può sempre avere tutto e subito (anzi quasi mai) l’ex presidente della Commissione Ue ha messo sul tavolo la questione che l’Europa non può più eludere, quella che definisce “il vero problema di sostanza”. Ovvero: “Una qualsiasi istituzione politica non può definirsi democratica, e nello stesso tempo reggersi sulla regola dell’unanimità”. 
Perché, scrive Prodi sul Messaggero, parlando dei veti dell’Olanda, “con l’unanimità ogni nano si sente un gigante, e nel caso europeo un Paese di poche centinaia di migliaia di abitanti può bloccare il funzionamento di un’istituzione che comprende centinaia di milioni di cittadini”.
Siamo d’accordo, “le grandi decisioni del mondo sono ormai prese in tempi rapidissimi, frutto di istituzioni politiche fornite di poteri definiti e di strutture tecniche adeguate”, strumenti che il Consiglio europeo non possiede. Tuttavia, proprio perché, come sappiamo, la costruzione europea, solida nelle fondamenta non lo è altrettanto in alcuni mattoni pronti a sfaldarsi per scarso senso comunitario, non pensa il professor Prodi che la regola dell’unanimità, pur con le sue lungaggini e strettoie procedurali, sia di stimolo a quell’arte politica del compromesso, cemento della democrazia? Il cattivo esempio della Brexit, forse non il più calzante in quanto conseguenza soprattutto di dinamiche distruttive interne al Regno Unito, ha dimostrato che dall’Unione si può uscire sbattendo la porta.
Un eventuale voto a maggioranza su bilancio comunitario e sovvenzioni post-Covid avrebbe certamente sconfitto il fronte dei cosiddetti Paesi frugali – Olanda, Austria, Svezia, Danimarca –, ma a quale prezzo? Chi ci dice che il non simpaticissimo (a noi italiani) primo ministro Mark Rutte stia, a suo modo, giocando una partita europea? Che pur con le sue asprezze non rappresenti un argine a quelle spinte sovraniste arancioni che cercano solo l’occasione giusta per scatenarsi contro l’Europa sul modello Boris Johnson? Restare in gruppo con tutti gli altri, anche con chi non ti passa la borraccia, può rallentare la corsa (vero presidente Conte?). Però ti porta al traguardo.

Vertice Ue: firmato accordo sul Recovery Fund a 750 miliardi, 390 di sussidi. All’Italia oltre 200 miliardi.

All’Italia andrebbero 209 miliardi (82 di sussidi). Il compromesso sulla governance: la valutazione sul rispetto dei piani nazionali affidata a un comitato di tecnici ma i Paesi membri potranno portare la questione sul tavolo del Consiglio europeo.

I leader europei hanno raggiunto un accordo sul Recovery Fund ed il Bilancio Ue 2021-2027 al termine di un negoziato record durato quattro giorni e quattro notti. Lo annuncia il presidente del Consiglio Ue Charles Michel. All'adozione delle conclusioni è seguito un applauso. Il Recovery Fund ha una dotazione di 750 miliardi di euro, di cui 390 miliardi di sussidi. Il bilancio è stato fissato a 1.074 miliardi.
“Sono le sei del mattino: siamo all'alba di un vertice lunghissimo, forse abbiamo stabilito il record e superato per durata il vertice di Nizza. Siamo soddisfatti: abbiamo approvato un piano di rilancio ambizioso e adeguato alla crisi che stiamo vivendo”. Lo dice il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa al termine del Consiglio europeo.
La nuova composizione del Recovery fund porterebbe in dote all’Italia 209 miliardi, di cui 82 di sussidi e 127 di prestiti. Il premier Giuseppe Conte potrebbe rientrare a Roma con un piatto più ricco rispetto alla proposta della Commissione europea di maggio che destinava al nostro Paese 173 miliardi (82 di aiuti e 91 di prestiti). Nel dettaglio: la proposta di Michel farebbe diminuire i sussidi per l’Italia di 3,84 miliardi, mentre i prestiti aumenterebbero di 38,8 miliardi.
Nelle ore precedenti un punto fermo era stato già messo sul Recovery Fund: la dotazione complessiva del piano per sostenere i Paesi più colpiti dal passaggio del Covid-19 fissata a 750 miliardi. E dopo varie oscillazioni (da 500 450, a 400) l’asticella della quota di sussidi si è fermata a 390 miliardi di euro, con la Resilience e Recovery Facility - il cuore del Fondo per il rilancio economico che viene allocato direttamente ai Paesi secondo una precisa chiave di ripartizione - a 312,5 miliardi (un po' più dei 310 previsti dalla Commissione, un po' meno dei 325 della proposta di Michel di sabato).
La proposta alla fine ha convinto anche i leader dei cosiddetti paesi “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia) che nel bilancio europeo, fermo a 1.074 miliardi di impegni, si vedranno aumentare i “rebate”: alla Danimarca andrebbero 322 milioni annui di rimborsi, all’Olanda 1,921 miliardi, all’Austria 565 milioni e alla Svezia 1,069 miliardi. La Germania avrebbe riassegnati 3,671 miliardi.
Quanto alla governance del Recovery fund - uno dei temi più spinosi al centro di un duro negoziato tra Conte e il premier olandese Mark Rutte - il compromesso raggiunto prevede che i piani presentati dagli Stati membri vengano approvati dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata in base alle proposte presentate dalla Commissione. La valutazione sul rispetto delle tabelle di marcia e degli obiettivi fissati per l'attuazione dei piani nazionali sarà affidata al Comitato economico e finanziario (gli sherpa dei ministri delle Finanze). Se in questa sede, «in via eccezionale», qualche Paese riterrà che ci siano problemi, potrà chiedere che la questione finisca sul tavolo del Consiglio europeo prima che venga presa qualsiasi decisione.
L’ottimismo era cominciato a circolare nel primo pomeriggio di lunedì, impressione confermata da Giuseppe Conte quando aveva commentato: «Stanotte c’è stata una svolta: dobbiamo essere ancora cauti ma direi che sono cautamente ottimista».

Aspettando gli aiuti di Paragone. - Gaetano Pedullà



Tra i fenomeni da circo della politica italiana quest’estate va di moda il numero della testa nella bocca del leone. La capoccia ovviamente non è quella di Lorsignori ma la nostra, che secondo mezzo Pd e i soliti Renzi, Calenda e Berlusconi (sempre più anime di uno stesso partito) dovremmo  infilare nella tagliola del Mes, cioè i prestiti europei che se non restituiti sono riscossi con proverbiale gentilezza dalla Troika. Mentre il Presidente del Consiglio Conte si fa il mazzo per convincere il Consiglio d’Europa che il Recovery Fund è fondamentale e urgente per non far saltare il Paese, qui gli remiamo contro facendo intendere che mezzo Parlamento per il momento si accontenterebbe pure del Mes. Il nostro arcinemico nel vertice sui fondi Ue, l’olandese Rutte, ringrazia.
Chi batte tutti per tempismo è però l’ex giornalista Paragone, un miracolato dai Cinque Stelle che l’hanno fatto eleggere senatore, e dal cui gruppo si è allontanato quasi subito, prima di essere formalmente espulso, casualmente dopo non aver ottenuto la presidenza della Commissione parlamentare sulle banche. Paragone da qualche giorno girovaga per Londra, dove è riuscito ad incontrare il leader della Brexit, Nigel Farage, con cui si sarebbe messo d’accordo per lanciare l’Italexit, cioè l’uscita dell’Italia dall’Unione europea. Cosa non si fa, d’altronde, per salvare la cadrega, in questo caso raccogliendo un po’ di voti da portare nella Lega, tanto Salvini sull’Europa dice peste e corna ma poi il coraggio di dire ai suoi amici imprenditori del Nord che vuole trascinarci fuori dall’Unione (e dall’euro) non ce l’ha. Mentre La Notizia va in stampa non si sa ancora come finisce il vertice Ue. La resistenza dei Paesi meno solidali, Olanda in testa, è stata strenua e in altri tempi l’Italia sarebbe rimasta a bocca asciutta. Stavolta, invece, grazie a un lavoro diplomatico certosino, pare che Conte riesca a strappare 200 miliardi tra prestiti e aiuti a fondo perduto. Aspettiamo che Paragone e Farage (quello che non voleva tirar fuori un soldo di Londra) ce ne diano di più.

Folli Bergère. - Marco Travaglio

Stefano folli e gianni letta - PREMIO TATARELLA 2016
Stefano Folli, Gianni Letta.
Di Stefano Folli, fin dai tempi in cui incensava B. e la Lega sul Corriere e sul Sole 24 Ore, non sospettando che un bel giorno sarebbe approdato a Repubblica (cosa peraltro insospettata anche dai giornalisti e dai lettori), ci hanno sempre colpito la prosa brillante quanto un contatore del gas e la logica stringente quanto una mutanda XXXL. Ma più ancora l’artistico riporto a torciglione, che un giorno definimmo “a nido di cinciallegra”, beccandoci dal titolare del medesimo una puntuta querela, purtroppo archiviata (avremmo pagato per poter esibire in un’aula di tribunale una perizia ornitologica sui punti di contatto fra quei due capolavori di scienza delle costruzioni). Mai come quando leggiamo i suoi scritti sepolcrali ci sale la nostalgia di Fortebraccio, immaginando che direbbe di Folli se fosse vivo: forse che il suo pensiero ricorda, come quello di Forlani, “una tanica vuota”. Forse che, come accadeva a Taviani, “ogni sera gli inservienti lo coprono con un telo sagomato per ripararlo dalla polvere, al pari delle altre poltrone”. Forse che, come Scalfaro, mostra “una frivolezza proverbiale” al cui confronto “il vescovo Lefebvre pare Brigitte Bardot”.
Ora però, dacché la Fca ha trasformato il fu organo della sinistra nel Circolo Ex Combattenti e Reduci de La Voce Repubblicana (Folli, Sambuca Molinari e Oscar Giannino, quello che millantava lauree mai conseguite e partecipazioni allo Zecchino d’oro mai sostenute), il nostro s’è ridestato dal mesto torpore di sempre e vive una seconda giovinezza. Ogni giorno, da quando il governo Conte2 è nato senza il suo permesso, ne annuncia la caduta: ora imminente, ora prossima, ora addirittura già avvenuta. Così, prima o poi, quando l’esecutivo avrà fine come ogni cosa umana, lui potrà vantarsi di averlo previsto. Martedì scorso, mentre il Cdm si riuniva sul caso Benetton-Autostrade, Folli si coricò con la ferma convinzione che Conte non avrebbe passato la notte. E l’indomani si svegliò con la notizia doppiamente ferale che i Benetton non c’erano più e Conte c’era ancora. Allora puntò tutto sul Consiglio europeo del Recovery Fund, dove gli amici “frugali” promettevano di farci un mazzo così e, alla sola idea, il riporto gli s’impennava con scappellamento a destra. Poi sapete com’è andata: Conte, che Repubblica voleva “all’angolo” isolato da tutti, s’è battuto strenuamente, ha fatto asse con Merkel, Macron, Sánchez, greci, portoghesi e persino Orbán, portando a casa un accordo tutt’altro che disprezzabile per l’Italia. Pare che ieri, al risveglio, Folli fosse intrattabile, anche perché Repubblica aveva avuto la malaugurata idea di commissionare un sondaggio sul premier.
E quel che è peggio di pubblicarne i risultati: “Il premier più popolare di sempre”, “Conte guida la classifica degli ultimi 24 anni”, “Il miglior premier dal 1994”. Figuratevi come dev’essersi sentito il povero Folli, che domenica sera, un attimo prima di planare tra le braccia di Morfeo pregustando una notte di tregenda con crisi di governo incorporata, aveva vergato la solita colonna carica di foschi presagi sugli “errori” e l’“inesperienza” di Conte, partito per Bruxelles senza neppure chiedergli un consiglio né “presentare il piano per le riforme” (che, non sapendo quanti soldi arriveranno, non l’ha presentato nessuno dei 27 Stati membri). Così, per colpa sua, “la coperta si è rattrappita” e “i miliardi si sono ridotti” a maggior gloria dell’Olanda, la nuova patria di Fca governata dall’ottimo Rutte, dipinto come “uomo nero” mentre è un fico pazzesco (“ha avuto campo libero”). Quindi ora avremo nefasti “riflessi in patria dello psicodramma” che non potranno non travolgere quel pirla del premier. Non subito, ma presto, prestissimo: “All’inizio prevarrà una certa solidarietà in chiave, diciamo così, nazionalista verso l’uomo che s’è battuto senza risparmio… Anzi, una sapiente regia mediatica (il solito Casalino, che com’è noto controlla tutti i giornali, nessuno escluso, ndr) può persino riuscire a incrementare a breve la popolarità del premier combattente sfortunato” (battutona). Insomma “oggi nessuno può volere una crisi di governo”, a parte lui. Ma lui – 24 ore prima dell’accordo – già sa che “la riduzione dei sussidi a fondo perduto lascia scoperta una quota tra i 20 e i 30 miliardi che a Roma si considerava già acquisita” (l’altra sera, per dire, da Checco er Carrettiere non si parlava d’altro). Dunque “ora il Mes torna d’attualità”, anzi “diventa una priorità”, e pure “urgente”.
A Bruxelles nessuno ne parla, perché nessuno lo vuole. Ma il Mes è il sogno erotico di Folli: il fatto che sia un prestito e non un sussidio e che i prestiti del Recovery fund aumentino col taglio dei sussidi, con meno rischi di quelli del Mes, e che nell’ultima bozza di accordo l’Italia perda solo 3,5 miliardi di sussidi e ne guadagni 38 di prestiti (pari a quelli del Mes), non lo sfiora. E neppure il fatto che, con quel che s’è visto dai “frugali”, il pericolo di ritrovarsi condizionalità ex post una volta presi i soldi del Mes è ancor più alto di prima. Ma lui somma le mele alle banane perché del Mes non gliene frega nulla: ciò che conta è che “il Pd è favorevole e i 5S contrari, ma dovranno rivedere la loro posizione e dividersi” e “per il Conte2 questo è il nuovo ostacolo”, che “dopo le elezioni di settembre potrebbe rivelarsi troppo alto”. E lì, finalmente, sarà l’apocalisse. Al solo pensiero, gli si rizza il riportino.

Soldi, controlli, sconti e vincoli. Cosa c’è nella proposta finale. - Carlo Di Foggia

Soldi, controlli, sconti e vincoli. Cosa c’è nella proposta finale

L’ accordo, almeno per le cifre finali, pare a un passo. Mentre andiamo in stampa il Consiglio europeo è ancora in corso. Ecco quel che sappiamo in base alla bozza predisposta dal presidente, il belga Charles Michel
I soldi. Il Fondo di recupero, che si chiama Next generation Ue, partiva dai 750 miliardi, 500 di sussidi 250 di prestiti, proposti dalla Commissione. Soldi da incassare in quattro anni e restituire dal 2028. La bozza conferma la cifra finale, ma rivede la composizione: i prestiti salgono di 110 miliardi e le sovvenzioni scendono in egual misura. La modifica non ha impatto sul cuore del piano, che si chiama Resilience and Recovery Facility, che ora vale 672 miliardi: di questi 312 i sono sussidi (dai 310 iniziali), e 360 prestiti (100 in più). A farne le spese sono stati i programmi complementari e con destinazione specifica, dove i sussidi passano da 190 a 77 miliardi: il programma sanitario, per dire, viene quasi azzerato; quello sulla ricerca (Horizon) perde 8,5 miliardi, il Fondo per la transizione ecologica almeno 20 (il maggior beneficiario era la Polonia, che infatti protesta) e via discorrendo. Secondo il governo italiano, a Roma sarebbe andato ben poco di queste risorse e quindi il risultato rispetto alla proposta della commissione non cambia: le sovvenzioni scendono a 85 a 81 miliardi, i prestiti addirittura salgono da 90 a 127. La cifra finale, sostengono, dovrebbe essere 209 miliardi. Per la parte sussidi il beneficio netto per l’Italia è intorno ai 25 miliardi. Il grosso dei fondi, però, arriverà tardi, nel 2022-2023.
Il controllo. È l’altro grande nodo: l’Italia e il blocco del Sud voleva tutto in mano alla Commissione, i Paesi “frugali” (Olanda, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia) tutto agli Stati, cioè ai governi. Il compromesso è col bilancino: i soldi verranno stanziati sulla base dei “recovery plans” che ogni anno gli Stati presenteranno a Bruxelles, approvati dal Consiglio a “maggioranza qualificata” su proposta della Commissione; sarà Bruxelles a vigilare sui pagamenti, in base ai target raggiunti dai singoli Paesi, e su questo si farà aiutare dal comitato dei tecnici dei ministeri dell’Economia dei 27 stati membri. Il potere di veto chiesto dai “Frugali” viene annacquato: ogni Paese potrà deferire i trasgressori al Consiglio, che poi si esprimerà entro tre mesi. Nel frattempo tutti i pagamenti saranno bloccati. I target saranno legati alle “raccomandazioni” che ogni anno la Commissione dà ai Paesi. Per l’Italia quelli del 2020 prevedevano di tornare su “un sentiero di riduzione del debito/Pil”. Il rischio è che venga richiesta una stretta fiscale una volta ripristinato il Patto di stabilità.
I “rebates”. Il Recovery fund è agganciato al bilancio Ue 2021-2027 (che vale 1.070 miliardi). L’ok dei frugali arriverà solo in cambio del mantenimento degli “sconti” sui contributi da versare e concessi a Germania, Olanda e altri Paesi nordici. Berlino rimane a quota 3,6 miliardi, per gli altri le cifre salgono: +100 milioni per la Danimarca,; +345 per i Paesi Bassi di Mark Rutte; +278 per l’Austria di Sebastian Kurz; +246 per la Svezia.
Gli altri vincoli. Francia e blocco nordico vogliono vincolare i fondi al rispetto “dei valori civili e sociali dell’Ue”, scelta che inguaierebbe l’Ungheria di Victor Orbán e la Polonia, che infatti minacciano il veto (la bozza prevede un generico “schema di condizionalità”). Varsavia è anche infuriata perché restano i target ambientali (che vincolano il 30% dei fondi), come la “neutralità climatica” entro il 2050.

Cosa Nostra si riorganizza con traffico droga: 15 arresti a Palermo.

Cosa Nostra si riorganizza con traffico droga: 15 arresti a Palermo (Video)

Nuovo colpo al mandamento mafioso di Pagliarelli a Palermo. I Carabinieri del Comando Provinciale hanno dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dall’Ufficio Gip del Tribunale di Palermo su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia, nei confronti di 15 indagati, ritenuti a vario titolo responsabili di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e detenzione e vendita di droga, commessi con l’aggravante delle finalità mafiose.

L’indagine, diretta dal Procuratore Aggiunto Salvatore De Luca, costituisce un’ulteriore fase di un’articolata manovra condotta dal Nucleo Investigativo di Palermo sul mandamento mafioso palermitano di Pagliarelli e in particolare sulla famiglia mafiosa di Corso Calatafimi che ha consentito di comprovare la perdurante operatività di quell’articolazione di Cosa nostra.
Alcuni degli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini erano già confluiti nel provvedimento di fermo d’indiziato di delitto emesso dalla Dda di Palermo ed eseguito il 4 dicembre 2018 - operazione “Cupola 2.0” - con la quale era stata smantellata la nuova commissione provinciale di cosa nostra palermitana, che si era riunita per la prima volta il 29 maggio 2018.

In quel contesto erano state già tratte in arresto 10 persone ritenute appartenenti al mandamento mafioso di Pagliarelli, tra cui Settimo Mineo, capo del mandamento mafioso, Filippo Annatelli, reggente della famiglia mafiosa di Corso Calatafimi e Salvatore Sorrentino, referente del Villaggio Santa Rosalia.
Cosa nostra di Palermo ha riorganizzato la sua "struttura criminale" occupandosi della "gestione del traffico e della vendita di stupefacenti nel territorio controllato dalla famiglia mafiosa di Corso Calatafimi", dicono gli inquirenti nell'ambito dell'indagine che all'alba di oggi ha portato all'arresto di 15 persone. "La rimodulazione degli assetti veniva proposta a Filippo Annatelli, reggente della famiglia mafiosa, da un affiliato della consorteria, Salvatore Mirino, deciso a convincere il proprio referente mafioso ad affidargli, a pochi giorni dalla sua scarcerazione, la direzione operativa delle attività legate allo smercio di droga nell’area controllata dal sodalizio", spiegano gli investigatori. "Il progetto proposto da Mirino otteneva l’avallo della figura verticistica della famiglia e comportava la contestuale estromissione dei soggetti sino a quel momento deputati a gestire il traffico illecito".
Attraverso lo stretto monitoraggio degli affiliati, i magistrati hanno documentato "le fasi precedenti, concomitanti e successive all’incontro riservato, avvenuto nel febbraio del 2017 all’interno di un’agenzia di onoranze funebri, tra Annatelli e Mirino in cui si decideva, in favore del secondo, di estromettere il sodale precedentemente incaricato della gestione del traffico di stupefacenti, individuando la necessità di affidare a nuovi personaggi di massima fiducia il controllo della vendita di droga su Corso Calatafimi".

La nuova struttura era così articolata: Filippo Annatelli, al vertice della famiglia mafiosa di Corso Calatafimi, "demandava la gestione operativa ad altri sodali, autorizzandone le iniziative di volta in volta prospettate, e manteneva i rapporti con le figure qualificate delle altre famiglie mafiose palermitane, intervenendo in prima persona in caso di frizioni tra i membri delle diverse consorterie". Mirino ed Enrico Scalavino "deputati alla gestione operativa dei traffici e dello smercio della droga, fungevano da intermediari". Giuseppe Massa, detto “Chen”, e Ferdinando Giardina, responsabili della fornitura dello stupefacente ai pusher di livello inferiore, erano incaricati anche della riscossione del denaro derivante dalla vendita della droga.
Gli incassi del traffico di droga sul territorio palermitano confluivano direttamente nelle casse dei boss di Cosa nostra, secondo quanto emerge dall'operazione antimafia. "La complessa indagine rivelava uno spaccato della realtà mafiosa palermitana e del suo diretto coinvolgimento in dinamiche legate al traffico e alla vendita al dettaglio di sostanze stupefacenti di diverso genere, i cui proventi, decurtati del guadagno dei singoli spacciatori individuati e autorizzati a smerciare droga dal sodalizio, confluivano nelle casse dell’organizzazione", dicono gli inquirenti.