giovedì 20 agosto 2020

Quando Salvini pestò la Nutella e altri harakiri. - Andrea Scanzi

Il condominio risarcisce il danno a causa della caduta per la ...

Spallata, che cilecca - Il giorno delle dimissioni di Conte inanella solo faccette. Da lì non ne ha più indovinata una, passando dai flop tv alle mandrie “no mascherina”.
Domani ricorrerà il Primo Anniversario della Liberazione dal Cazzaro Verde. Poco dopo essersi suicidato al Papeete, Matteo Salvini ricevette il supplizio per mano di Giuseppe Conte. Era, appunto, il 20 agosto. E una simile selva di badilate non si vedeva dai tempi del primo Mike Tyson. Da allora, Salvini non ne ha più indovinata una. E a difenderlo sono rimasti giusto la Maglie, Bechis e Senaldi. Cioè nessuno. Scegliere le peggiori dieci bischerate di quel che resta del Cazzaro è opera improba, perché lui ne combina mille al giorno. Limitiamoci, quindi, a una delle molte possibili “top ten dell’insipienza politica totale” regalateci da questo diversamente baldanzoso figuro che, da un anno, barcolla ma non molla.
1. Non si può non partire da qui: proprio da quel fiammeggiante 20 agosto. Sottovalutando clamorosamente Conte, Salvini lo avvicina sorridendo e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Dietro di loro, l’ex ministro (aiuto…) Giulia Bongiorno ride oltremodo rapita: poco dopo, sghignazzeranno entrambi assai meno. A ogni scudisciata di Conte, ritenuto fino a quel punto un mezzo coglione da tutte quelle Marianna Aprile che cincischiano di politica come Paolo Fox di astrologia, Salvini – sedutosi genialmente alla sua destra, e dunque sempre inquadrato mentre l’altro parlava in piedi – si contorce e sbuffa. Soffre e si dimena. Annaspa e implode. Per poi esplodere in una gamma pietosa di faccette alla D’Urso. Ecco: Salvini, politicamente, è morto lì. E la cosa incredibile è che nessuno, tra i suoi “amici”, ha ancora avuto il coraggio di dirglielo.
2. Salvini, prima di quell’agosto del suo scontento, in tivù era bravissimo. Soprattutto nei testa a testa. Poi, da settembre, ha cominciato a prenderle da tutti. Botte come se piovesse. A Cartabianca (lo confesso: c’ero anch’io e quella volta peccai senz’altro di eccessivo ardimento). Da Floris, dove dà quasi sempre il peggio di sé. Da Gruber. Per questo, dal 2020, andrà quasi solo a casa sua. Cioè Rete4, D’Urso o “Non è l’Arena è Salvini” (cit Travaglio).
3. Compulsivo dei social, nell’ennesimo rigurgito di sovranismo a caso attacca la Nutella perché non usa nocciole italiane. Poi, resosi conto che la Nutella è un colosso, chiede scusa e fa un mestissimo tweet riparatorio in cui troneggia accanto a dolciumi cioccolatosi. Ah: le foto in cui si strafoga di qualsivoglia cibo, possibilmente ipercalorico, dopo il Papeete si intensificano. A conferma di come anche Salvini affoghi le sue pene nel cibo. E quel suo sbarazzino triplo mento (chiaro tributo a Jabba The Hutt) ce ne dà in questo senso orgogliosissima conferma.
4. Ospite di Bruno Vespa, dice che guardando la Madonna di Medjugorje ha capito che Conte è uno che mente. È a quel punto che, da un punto non troppo lontano, si sente avvicinarsi un plotone misericordioso di ambulanze.
5. Convinto di stravincere le elezioni in Emilia Romagna (con la Borgonzoni!), il Cazzaro Verde fa il ganassa e si mette a suonare il citofono di sedicenti criminali (che criminali non sono) tunisini. È uno dei punti più bassi nella storia dell’umanità. Ma Salvini continuerà a scavare ancora.
6. La pandemia devasta quel che resta del “leader” della Lega (parentesi: se non avesse sbagliato tutto ad agosto, questo qua ci avrebbe governato durante il lockdown. Aiuto!). Uno dei primi cedimenti strutturali si rileva quando il Nostro straparla di un “foglio” che esiste in Svizzera: tu lo compili e – zac! – lo Stato ti regala subito 500 milioni, tre Rolex, 4 Lindt e una mucca pezzata in scala 1:12. Daje.
7. In pieno lockdown, propone genialmente di permettere agli italiani di andare a messa con Pasqua. Giusto per aumentare i contagi e, con questo, mettere ancor più a dura prova la fede di noi tutti.
8. Dal 2 giugno in poi, Salvini se ne frega delle regole e organizza assembramenti a getto continuo. Per motivi insondabili, nessuno lo multa. Arriva pure a partecipare a un raduno di casi umani (fatte salve alcune eccezioni) al Senato. Una mandria di no mask, negazionisti, nature morte e complottisti alla canna del gas. Il circo Barnum dei citrulli.
9. Zimbellato da Floris, si fa ridere dietro da tutti dimostrando di non avere ancora capito che la mascherina va usata anzitutto quando sei vicino a una persona (ancor più se sconosciuta) e gli sputicchi in faccia mentre ci parli.
10. Con fare bulimico e compulsivo, si scofana otto chili di ciliegie mentre Zaia accanto a lui parla di bambini morti. Poi, il giorno dopo, a Sky nega tutto: “Ma dai, secondo lei io mi metto a mangiare ciliegie mentre si parla di bambini morti? Via, su”. La giornalista, cristianamente, capisce che di fronte a un uomo in uno stato così confusionale persino Basaglia avrebbe avuto problemi. E quindi neanche replica. Aiutatelo. O magari no.

Milano, Sala è “stanchino”. Nel Pd la guerra dei 2 Pier. - Gianni Barbacetto

Milano, Sala è “stanchino”. Nel Pd la guerra dei 2 Pier

Il sindaco vuole tornare a fare il manager, la coalizione già scricchiola.
Nessuno, nelle stanze della politica milanese, si è stupito per l’articolo del Fatto quotidiano che due giorni fa raccontava che Giuseppe Sala non ha voglia di ricandidarsi per il secondo mandato a sindaco di Milano. “È un segreto di Pulcinella”, dice un giovane esponente del Pd, “sappiamo tutti che Beppe è stufo di passare molte ore ogni giorno nel suo ufficio di Palazzo Marino e che da tempo sta cercando alternative di vita”. Da cinque anni sta facendo il lavoro più noioso e peggio pagato della sua carriera. Ora vuole cambiare. Ha ripetuto, nei mesi scorsi, una frase già pronunciata da Grillo: “Sono un po’ stanchino”.
Gli piacerebbe molto tornare a fare il manager in un business strategico come le telecomunicazioni, alla guida della Tim 2 che potrebbe nascere dallo scorporo delle reti Telecom, sotto la regia di Cassa depositi e prestiti. È il progetto che piace molto a Beppe Grillo, che Sala è andato a incontrare il 10 agosto nella sua casa di Marina di Bibbona, sul litorale livornese. È anche il sogno – segreto ma non troppo – di Sala, che ne ha parlato con più d’un interlocutore. Il sindaco sa però che Tim 2 è un piano ambizioso e ancora tutto da costruire. Sta dunque considerando anche altre alternative a Palazzo Marino, più politiche. È disponibile ad andare a Roma a fare il ministro in quota Pd, nel caso di un prossimo rimpasto di governo. È tentato comunque dal giocare un ruolo politico nazionale, diventando per il Partito democratico – oggi molto “sudista” – il punto di riferimento per un fronte del Nord: non gli dispiacerebbe insomma essere per il Pd di Nicola Zingaretti quello che Luca Zaia è per la Lega di Matteo Salvini. Sta considerando molte strade, Sala, tutte aperte e tutte da costruire pazientemente. Con il Partito democratico nazionale che invece sta facendo di tutto per farlo restare a Milano: per non avere un ennesimo leader a Roma a competere con gli altri leader; ma soprattutto per non rischiare di perdere Milano, che senza la ricandidatura di Sala nella primavera del 2021 potrebbe finire nelle mani del centrodestra. Più pragmatici i “ragazzi” del Pd milanese, che da tempo si stanno preparando all’eventualità che “Beppe” – di cui rispettano la forza, ma che in fondo hanno sempre considerato un estraneo a casa loro – non si ricandidi. Se corre per il secondo mandato, la coalizione che lo sostiene resterà unita, Pd, civici, renziani di Italia viva, radicali, Più Europa…; se imboccherà altre strade, l’alleanza salta e ognuno farà il proprio gioco. Ada Lucia De Cesaris, già vicesindaco di Giuliano Pisapia con ambizione (frustrata) alla sua successione, è pronta a candidarsi come sindaco. Per piantare la bandiera di Italia viva a Milano, ma soprattutto per non lasciare la strada tutta in discesa ai “due ragazzini” del suo ex partito, il Pd: Pierfrancesco Majorino e Pierfrancesco Maran. Sono “i due Pier” già pronti a sostituire “Beppe”. Il primo, ex assessore all’assistenza, oggi è parlamentare europeo, eletto con ben 90 mila preferenze, ma non ha smesso un minuto di presidiare Milano. Il secondo, assessore all’urbanistica, sta seguendo tutte le grandi partite immobiliari, dall’area Expo agli scali ferroviari fino al nuovo San Siro, cercando di ammantare di verde milioni di metri quadri di nuove edificazioni. Il primo presidia l’ala sinistra, il secondo l’ala destra. “I due Pier” si dovranno confrontare nelle primarie, unica strada per dirimere ambizioni personali e scontri politici interni e trovare un candidato sindaco da presentare alla città. Le primarie potranno essere arricchite da altri partecipanti possibili, come (sull’ala sinistra) Paolo Limonta, maestro e assessore alla scuola, e (sull’ala destra) Anna Scavuzzo, vicesindaco di Sala e assessore alla sicurezza. Più difficile la discesa in campo di “indipendenti” e rappresentanti della cosiddetta società civile, anche se circolano i nomi di Tito Boeri, economista ed ex presidente dell’Inps, e di Ferruccio Resta rettore del Politecnico, che curiosamente è accreditato come candidato sia per il centrosinistra sia per il centrodestra.
Il gran rifiuto di Sala, insomma, aprirebbe conflitti e incertezze tali da poter aprire la strada al ritorno della destra a Palazzo Marino. Per questo il Pd nazionale ha già cominciato il pressing sull’attuale sindaco per convincerlo a restare: anche l’altro Beppe (Grillo) si era detto “un po’ stanchino”, ma non si è affatto tolto di mezzo.

Fontana boys: Russia e ombre di riciclaggio. - Stefano Vergine

Fontana boys: Russia e ombre di riciclaggio

“Se Attilio lo vorrà, andremo avanti” con una ricandidatura alla guida del Pirellone nel 2023. Non è bastato il modo in cui ha gestito l’emergenza Covid, non è stato sufficiente lo scandalo dei camici forniti dall’azienda di famiglia, non l’ha scalfito nemmeno la notizia dei quasi 5 milioni di euro parcheggiati su un conto svizzero. Quando si parla di Fontana, Matteo Salvini lo difende sempre. Tanto da averlo già ricandidato alla presidenza della Lombardia per silenziare chi, anche all’interno del partito, immaginava un cambio della guardia. Per capire perché Salvini difende così strenuamente Fontana, basta guardare chi sono i collaboratori più stretti del governatore. Tutti salviniani di strettissima fede. I loro profili spiegano più di mille teorie perché il leader leghista non può scaricare il presidente lombardo.
GIULIA MARTINELLI Ogni pratica importante passa sul suo tavolo. Per questo al Pirellone tutti la chiamano “la zarina”. Giulia Martinelli, 41 anni, è l’ex compagna di Matteo Salvini e madre di una delle sue figlie. Laureata in Legge, comasca, appena finito il praticantato da avvocato ha iniziato a lavorare nel settore pubblico. Subito, e quasi sempre, come dirigente in quota Lega. Prima per alcune Asl lombarde e poi, dal 2014, direttamente per la Regione grazie alla chiamata dell’ex assessore Cristina Cantù, oggi senatrice salviniana. Incarichi a cui, l’anno scorso, si è aggiunto quello di consigliere e membro del comitato esecutivo della Fiera di Milano. Tutto merito di Matteo? Macché, rispose il leader leghista un anno fa ai cronisti: “È lì perché è brava”. Tanto brava che nell’aprile 2018 è diventata responsabile della segreteria di Fontana: la porta girevole tra il governatore e il suo sponsor politico numero uno. Nella testimonianza alla Procura di Milano, che indaga Fontana per la fornitura dei camici affidata in via diretta all’azienda controllata dal cognato e dalla moglie, la zarina ha detto che Fontana rimase “sbigottito” quando lei lo informò della vicenda.
MAX FERRARI Massimiliano Ferrari, per i leghisti che lo conoscono Max, è stato scelto come consulente personale di Fontana in Regione. L’incarico ufficiale prevede che il 49enne di Malnate (Varese) si occupi di “affari internazionali”, con una paga di 35mila euro annui. D’altra parte lui si definisce “responsabile affari esteri della Lega in Lombardia”. Ex direttore di Telepadania, vanta un curriculum costellato di incarichi in società private controllate dal pubblico. Cioè dalla Lega: da Infrastrutture Lombarde fino a E-Vai, la società di Ferrovie Nord che affitta auto elettriche. Poliglotta autodichiarato, capace di passare dal cinese al russo fino al thailandese, Ferrari fa parte del gruppetto di leghisti che nel 2014, su iniziativa di Gianluca Savoini, fondarono l’associazione Lombardia-Russia. Fu quello il primo punto di contatto fra Salvini e l’amico Vladimir, l’avvio formale dell’avvicinamento della nuova Lega a Putin. I viaggi a Mosca, le interviste su Sputnik, le comitive di imprenditori italiani portati in Crimea e nel Donbass per legittimare le conquiste territoriali del presidente russo. Per la Lega, con Bossi sempre fedele all’allenza con gli Stati Uniti, una svolta geopolitica culminata con la trattativa all’Hotel Metropol.
GIANLUCA SAVOINI È stato lui a negoziare con alcuni uomini russi vicini al Cremlino un finanziamento milionario per la Lega in vista delle elezioni europee del 2019. La trattativa del Metropol, e la conseguente inchiesta della Procura di Milano per corruzione, non sono evidentemente bastati a Fontana per prendere le distanze da Gianluca Savoini. L’ex portavoce di Salvini risulta ancora oggi vice presidente del Corecom, il comitato regionale per le comunicazioni della Lombardia, organismo controllato direttamente dal Pirellone. A ottobre del 2019, quando lo scandalo del Metropol era ormai già noto a tutti, il Consiglio regionale della Lombardia ha infatti respinto con voto segreto una mozione del Pd che chiedeva le dimissioni di Savoini. Non è chiaro invece se l’uomo al centro del Russiagate italiano sia ancora consulente di Ferrovie Nord, società controllata da Regione Lombardia. Di certo lo è stato per almeno un anno, a partire da giugno del 2018. Un incarico affidatogli proprio nei mesi in cui l’ex portavoce di Salvini si dava un gran da fare per ottenere segretamente un maxi finanziamento russo per la Lega.
GIACOMO STUCCHI Cinque anni alla presidenza del Copasir non si dimenticano facilmente. E infatti non se lì è dimenticati neanche lui, Fontana, l’uomo che dice di non essersi proprio accorto di aver affidato all’azienda di famiglia una fornitura da mezzo milione di euro (trasformata in seguito in donazione). Sbadato sì, il governatore, ma non imprudente. Tanto da aver scelto Giacomo Stucchi come consulente personale per “trasparenza, legalità e cyber-security2. Bergamasco classe 1969, parlamentare per oltre vent’anni, nemmeno Stucchi si deve essere reso conto che Regione Lombardia stava per affidare una commessa al cognato del presidente. Chissà se per questa distrazione Fontana deciderà di tagliargli il compenso: 40mila euro all’anno pagati al raggiungimento degli obiettivi, si legge sul sito della Regione. Stucchi potrà compensare l’eventuale riduzione della paga pubblica con i redditi privati. L’ex presidente del Comitato Parlamentare per la Sicurezza è infatti azionista della Sigima Srl, una società che si occupa proprio di cyber sicurezza, si rivolge ad aziende pubbliche e private. E sul proprio sito si descrive così: “Potremmo definirci dei ‘facilitatori’, gente abituata ad aiutare soggetti diversi a risolvere problemi delicati”. Fontana, in questo momento, ne ha proprio bisogno.
GIOVANNI MALANCHINI Bergamasco, 46 anni, Giovanni Malanchini è forse il meno conosciuto degli angeli custodi inviati da Salvini per vigilare su Fontana. Eppure il suo rapporto con il leader leghista da qualche anno è molto solido, anche grazie all’intercessione del responsabile del partito in Lombardia, Paolo Grimoldi. Segretario di Fontana fin dal giorno del suo insediamento alla presidenza, consigliere regionale e responsabile nazionale degli Enti Locali della Lega dal 2015, al Pirellone Malanchini lavora spalla a spalla con Giulia Martinelli. Il suo nome compare in alcune relazioni della Uif di Banca d’Italia, quelle che cercano di ricostruire che fine hanno fatto i 49 milioni della Lega. Tra il 2016 e il 2018 Malanchini ha ricevuto circa 73mila euro da Andrea Manzoni, uno dei due commercialisti salviniani indagati per peculato dalla procura di Milano nell’affaire Lombardia Film Commission.

Taglio, perché Sì. - Marco Travaglio


Caro Grandi, avendoti conosciuto nelle battaglie in difesa della Costituzione quand’era davvero minacciata, non posso credere che questo coacervo di luoghi comuni apodittici, contraddittori, in parte anche falsi sia roba tua. Ma provo a spiegare, con dati certi e argomenti dimostrabili, perché dicevo e dico Sì al taglio dei deputati (da 630 a 400) e dei senatori (da 315 a 200).
1. Combattendo le controriforme di B. e di Renzi, abbiamo sempre detto che la Costituzione non si stravolge per metà o un terzo. Meglio aggiornarla con aggiustamenti chirurgici, nello spirito dell’art.138. Se Renzi si fosse limitato a tagliare i parlamentari (tutti, non solo i senatori) e il Cnel, avrebbe stravinto il referendum anche col mio voto, anzi nessuno si sarebbe sognato di scomodare gli elettori per un esito scontato.
2. Il “populismo” non c’entra nulla con questa riforma, invocata da molti, specie a sinistra, da oltre 40 anni: simile a quella della commissione Bozzi (1983), identica a quella della bicamerale Iotti-De Mita (‘93), in linea col programma dell’Ulivo (‘96). Il fatto che l’abbiano portata a casa i 5Stelle, con la stragrande maggioranza delle Camere, trasforma in populisti pure Prodi, De Mita, Bozzi e la Iotti? La scena mai vista di un Parlamento che si autoriduce contro gli interessi dei suoi membri e fa risparmiare allo Stato 80-100 milioni all’anno (quasi mezzo miliardo a legislatura) è l’esatto opposto dell’opportunismo. E il miglior antidoto all’anti-parlamentarismo: i cittadini, chiamati da anni a fare sacrifici, apprezzeranno un’istituzione che dà finalmente il buon esempio in casa propria.
3. La Carta dei padri costituenti ci azzecca poco con l’attuale numero dei parlamentari, deciso non nel 1948, ma nel ‘63: allora il potere legislativo era esclusiva del Parlamento, oggi molte leggi sono dell’Ue e delle Regioni. Infatti anche altrove, da Londra a Parigi, si progetta di ridurre gli eletti.
4. È vero: il Parlamento è stato trasformato dalle ultime tre leggi elettorali e da troppi decreti e fiducie in un’assemblea di yesman (peraltro volontari).
Ma non dipende dal loro numero: se non cambiano la legge elettorale e i regolamenti, resteranno yesman sia in 945 sia in 600. Anzi, il taglio impone una nuova legge elettorale che, si spera, cancellerà la vergogna delle liste bloccate e ridarà potere, dignità e autorevolezza ai singoli parlamentari. Più rappresentativi, riconoscibili, responsabilizzati e un po’ meno inclini a votare Ruby nipote di Mubarak o a chiedere il bonus-povertà.
5. Ridurre i parlamentari – come ha deciso 4 volte il Parlamento, non i suoi nemici, con maggioranze oceaniche (all’ultima lettura 553 Sì, 14 No e 2 astenuti) – non implica affatto il “superamento del Parlamento” (che certo non vuole il M5S, essendovi il gruppo più numeroso) né il “presidenzialismo” (che vuole solo Salvini, isolato da tutti gli altri, inclusa FI). Ma proprio un “rilancio del Parlamento” che, diventando meno pletorico, sarà più credibile, efficiente e funzionale perché composto da eletti meno indistinti e dunque più forti, autonomi e autorevoli. Difendere un’assemblea-monstre di quasi mille persone, di cui un terzo diserta una votazione su tre, due terzi non ricoprono alcun ruolo e solo il 10% assomma più di un incarico, è ridicolo.
6. È falso che la riforma faccia dell’Italia il Paese con meno eletti in rapporti agli elettori. L’unica altra democrazia a bicameralismo paritario ed elettivo sono gli Usa: hanno il sestuplo dei nostri abitanti e un Congresso con 535 fra deputati e senatori (65 meno del nostro Parlamento post-taglio), che mai si sono sentiti deboli perché pochi, anzi. Sulle altre democrazie, il confronto va fatto solo con le Camere basse elette direttamente: Camera dei Comuni britannica (630 eletti contro i nostri 600, ma con 6 milioni di abitanti in più); Bundestag tedesco (709, ma con 20 milioni in più); Assemblée Nationale francese (577, ma con 7 milioni in più). Dopo il taglio l’Italia avrebbe 1 parlamentare ogni 85 mila elettori, contro una media di 1 su 190 mila delle democrazie con più di 30milioni di abitanti.
7. Dire che il taglio “renderà difficile funzionamento e ruolo” delle Camere è un nonsense: l’efficienza di un’assemblea è inversamente proporzionale al numero dei suoi membri. E affermare che “sarà impossibile la proporzionalità al Senato in 9 Regioni”, “tanti territori saranno sottorappresentati” e avremo solo 3 o 4 partiti significa nascondere agli elettori che la maggioranza s’è impegnata, nel rifare i collegi dopo il taglio, a evitare quelle storture: per esempio, superando la base regionale del Senato che consentirà circoscrizioni pluri-regionali, a vantaggio delle Regioni più piccole e dei partiti minori.
Ecco perché voterò Sì al referendum.

Ospedale in Fiera – Altri soldi per l’ambulatorio più caro del mondo. Spesi già oltre 17 milioni. - Andrea Sparaciari

Ospedale in Fiera – Altri soldi per l’ambulatorio più caro del mondo. Spesi già oltre 17 milioni

Un poliambulatorio costato la bellezza di 17,1 milioni. È la seconda vita dell’Astronave di Guido Bertolaso alla Fiera di Milano. Travolta dalle polemiche per l’inutilizzo della struttura edificata con le donazioni di migliaia di cittadini e imprese, la Regione Lombardia ha elaborato un complicato “piano di riserva” per la cattedrale nel deserto che giace inerme al Portello. Con la nota G1.2020.0028782 del 6 agosto scorso – documento riservato che Il Fatto ha potuto visionare – la Direzione generale Welfare (cioè l’assessore Giulio Gallera) ha imposto al Policlinico di Milano di redigere un “progetto finalizzato a garantire l’erogazione di prestazioni specialistiche ambulatoriali presso il Padiglione Fiera Milano City”.
Dovranno così trovare posto almeno nove ambulatori: dalla ginecologia, alla cardiologia, dall’urologia alla dermatologia. Tutto fuorché i decantati 221 letti di terapia intensiva (che poi sono meno, visto che per completare l’ultimo padiglione da 64 postazioni servono 7 milioni di euro, chiesti dal Pirellone al governo). Letti che alla fine costeranno 109 mila euro l’uno ma saranno messi da parte fino a un’eventuale nuova emergenza.
La ratio, secondo Gallera, è offrire in Fiera le prestazioni congelate nei primi sei mesi dell’anno causa Covid, “caratterizzate – scrive – da tempi d’attesa particolarmente elevati”. Non è dato sapere perché il Policlinico, oggi operante non in condizioni di emergenza, con tutti i sanitari disponibili e le terapie intensive vuote, abbia bisogno di nuovi spazi. Di sicuro, però, per attivare il poliambulatorio serve forza lavoro, tanto che la nota del 6 agosto precisa: “Per la componente medica (…) sarà possibile chiedere l’urgente attivazione di nuovi contratti libero professionali con medici specialisti”.
La missiva non chiarisce chi si sobbarcherà i costi di adattamento di spazi nati per ospitare postazioni di terapia intensiva. Se il Policlinico con i suoi fondi, cioè soldi pubblici, oppure se verranno utilizzati i soldi avanzati dalle donazioni. Ed entrambe le ipotesi fanno sorgere dubbi: se i fondi saranno pubblici, perché investirli in una struttura destinata comunque a essere smantellata tra due anni? Se invece saranno quelli regalati dai privati, sorgerà un problema legale. Le donazioni, infatti, erano finalizzate a costruire terapie intensive. Se il Pirellone le vuole usare per gli ambulatori, dovrebbe avere il consenso di ogni donatore. E non solo di quelli che hanno versato sul conto della Fondazione Fiera (circa 21 milioni), ma anche di quelli che hanno dato oltre 25 milioni per l’ospedale sul conto della Regione.
A oggi non si sa quanto costerà il Piano B. Dal Policlinico fanno sapere che ancora una quantificazione dei costi non è stata fatta, ma che comunque dovrebbero essere limitati. Gli ambulatori dovrebbero occupare il modulo in via di completamento e dovranno essere operativi “entro la fine del prossimo mese di settembre”. Non tutti sono d’accordo su questa nuova destinazione d’uso: “Spostare le prime visite all’ospedale in Fiera è come fare il gioco delle tre carte: ho un ospedale che non sta funzionando perché Covid e sposto alcuni servizi di base all’ospedale Fiera per far vedere che funziona”, attacca il capogruppo M5s Massimo De Rosa. “Stanno cercando di mettere una pezza a un ospedale che continua a non avere senso. Ho strutture già attrezzate, il Policlinico, che oggi erogano prestazioni ambulatoriali soprattutto in regime privato, e per avere gli stessi servizi nel pubblico, devo andare in Fiera”.

mercoledì 19 agosto 2020

Quando ci vuole, ci vuole... - Pierpaolo Marchetti

Il Parlamento sembra il Palio, ma quasi mai vince il cavallo migliore. - Daniele Luttazzi

File:Il Palio di Siena luglio 2008 4.jpg - Wikipedia

Il Palio di Siena 2020 non si correrà (FQ Magazine, 14 maggio 2020).
Il leghista Paolo Paternoster si toglie la mascherina. Il presidente Fico prova ripetutamente a convincerlo a rimettersela (“Non possiamo andare avanti così”), fino a sospendere la seduta per cinque minuti. Poi si riprende, con la Lega sempre nervosissima (FQ, 1 maggio 2020).
Il Parlamento è come un Palio di cui i presidenti delle due camere sono i mossieri, che giudicano la regolarità del dibattito in aula, richiamando e ammonendo i politici in caso di comportamento scorretto. In Parlamento, la politica si respira tutto l’anno, ma diventa una cosa che si può toccare con mano a ridosso della corsa elettorale, quando i candidati, nella speranza di mettersi in luce e di essere scelti, fanno la loro apparizione ufficiale in programmi tv dove i conduttori, come veterinari, li sottopongono a una visita accurata. I partiti impongono agli elettori il candidato che gli pare: a volte, la giustizia ne tiene in carcere qualcuno fino al giorno in cui, moralmente smacchiato e disinfettato, viene catapultato in Parlamento, cui apporta la legittima allegria che proviene da un acquisto così insperato.
Chiunque può essere candidato al Parlamento: nel giugno dell’83, per esempio, il Msi di Almirante mise in lista l’avvocato Manfredi Orbetello d’Aragona: era morto qualche settimana prima, ma portava migliaia di voti. Il Msi prese parte alla tribuna politica con la bandiera repubblichina abbrunata, su un cuscino i piedi del parlamentare deceduto, insieme con il fiore (un tulipano bianco) inviato dal partito nemico, il Pci di Berlinguer. Ho detto nemico, perché i partiti hanno rapporti di alleanza con altri partiti, ma soprattutto hanno un rapporto di fiera inimicizia con il loro nemico. Il fatto che non vinca il nemico è più importante della vittoria stessa, e contro il partito avversario si indirizzano canti dai versi a volte pesanti, che vengono pareggiati da quelli indirizzati in senso inverso. I capicorrente si incontrano in gran segreto per stipulare accordi con i quali cercano di danneggiare i nemici: ogni partito, anche se ha avuto in sorte dei brocchi, vuole vincere.
Questi accordi fanno parte del gioco bello che si chiama politica italiana, che, lo avete ormai capito, non è una corsa nella quale vince il migliore. Il giorno prima del silenzio elettorale, che proibisce la propaganda, i candidati cercano di apparire un’ultima volta da Vespa (“il cencio”, come lo chiamano affettuosamente in Rai): nello studio tv c’è un grande silenzio, perché i candidati, a quest’ora già abbondantemente trattati con sostanze stimolanti, non si innervosiscano. Una volta eletti, impareranno presto a conciliare ciò che avevano in programma con ciò che viene loro consigliato dall’opportunità, dalla convenienza e dall’inevitabile; e capiranno che, spesso, rimediare a grandi ingiustizie metterebbe in gioco interessi ai quali nessuno vuole rinunciare. Momenti che verranno rivissuti nei giorni a venire con racconti alla buvette, dove si ride ancora della volta che un giornalista cercò di attaccar bottone con Andreotti parlando della legge elettorale, e Andreotti lo tacitò dicendo: “Guardi, ho ottant’anni e non mi sono mai interessato di politica”. Il Parlamento, infatti, vive di tradizione orale: è una cosa politica fatta dai politici per i politici. I giornalisti possono interessarsene, ma in punta di piedi, senza disturbare. E così la cronaca politica diventa storia, diventa leggenda, diventa mito.