domenica 24 novembre 2013

Focaccia barese.



La mia focaccia, eccezionalmente buona.

Latina, la mangiatoia del cuore nero tra criminalità organizzata e potentati politici. - Antonello Caporale

Latina, la mangiatoia del cuore nero tra criminalità organizzata e potentati politici


L’ex Littoria, fondata da Mussolini 81 anni fa, è il crocevia di mille interessi: dal 'Sistema Fondi', il comune che Berlusconi non volle sciogliere per mafia, alla società di Mariarosaria Rossi, l'accompagnatrice del Cavaliere. Nel capoluogo senza eroi ma pieno di Suv, l'orgoglio locale è la squadra di calcio che gioca in B.

Non confondere mai l’insolito con l’impossibile. Non scambiare mai Latina con una città. Centro di raccolta e smistamento di dialetti locali, è il punto geografico dove veneti e friulani, emiliani e marchigiani, seguiti dai napoletani, calabresi, siciliani, rumeni e infine albanesi sono confluiti e poi si sono espansi: chi a nord; chi a sud dell’Agro. I primi per bonificare le paludi e trovare il modo di sfamarsi negli anni del Duce, quegli altri, immigrati della seconda e della terza ondata, per affinare l’arte di far soldi, alcuni di essi con la spiccata propensione di ridurre in un clic (qui inteso nel suono del tamburo di una pistola) il tempo della provvista.
Il potere dei boss, il fantasma del Duce
Latina ha solo 81 anni, conta 120mila abitanti, è di ferma e indiscutibile indole fascista (l’amatissima Littoria!), ma di facili costumi. La giovincella è infatti assai viziosa e in questo spicchio laziale arato dai coloni, ma trascurato dalla stampa e dalla tv, si produce la più estesa e malandrina farcitura di criminalità organizzata, delinquenza finanziaria e devianza politica. Una ragnatela di boss scompone la gerarchia sociale e a volte si sovrappone al ceto dirigente rendendo incerto il confine tra mondo legale e illegale.Walter Veltroni, quando lesse le pagine d’accusa della locale prefettura sul “sistema Fondi”, il Comune come sede dello snodo cruciale della politica pontina, ebbe un soprassalto. Non si aspettava che nei dintorni di Sabaudia, dove lui e tanti vip romani trovavano e trovano le meravigliose dune ad attenderli nel weekend, si fosse sviluppato un club di altissimo malaffare.
“Il livello di commistione, l’intensità dell’intreccio tra criminalità e politica, tra clan e vita quotidiana è tale che le famiglie della ‘ndrangheta, della camorra, ma anche pezzi di Cosa Nostra arrivati nell’Agro Pontino negli anni Settanta perché mandati al confino controllano tutto, dalle pompe funebri agli appalti, dal Mof, il mercato dell’ortofrutta più grande d’Europa, alle concessioni urbanistiche in aree con varianti vantaggiose”. Fondi, per farvi capire, è l’unico municipio italiano su cui si sono abbattute 500 pagine di accuse torride e circostanziate da parte di un prefetto della Repubblica, senza che il governo sia riuscito a trovare un modo per cogliere l’invito a scioglierlo. Il ministro dell’Interno dell’epoca, l’integerrimo Bobo Maroni, quello che la propaganda della Lega avrebbe poi definito come il più duro ministro di Polizia, al cospetto della città di Fondi si presentò in versione coniglio, producendo il solito fenomeno gassoso della politica: bollicine al posto dei fatti. Pur di non turbare il senatore Claudio Fazzone, dominus del Pdl e dell’Agro, iniziò a cincischiare, traccheggiare, trasformare il diritto nel rovescio.
E Fondi non fu espugnata dalla polizia, a conferma che in qualche modo la classe non è acqua. Resta la domanda su come sia potuta divenire il crocevia di interessi criminali, punto d’incrocio tra i diversi kit regionali del malaffare: le famiglie dei Casalesi e quelle ‘ndranghetiste dei Tripodo. Resistono perciò le allusioni, le velature sull’ambiguità del ceto politico, sulle amicizie e la forza di questo senatore Fazzone (noto per essere stato in tempi lontani autista di Nicola Mancino) che tutto può. La Polverini, quando volle scalare la Regione, dovette chiedere voti a lui e li ottenne. In un fantastico comizio in quella terra, riuscì a non dire una parola sulla mafia. Si presentò col suo sorriso imbelle e raccolse sorridendo quel che Fazzone le aveva garantito. Fazzone, il ras delle tessere, l’onnipotente delle clientele. Chiacchieratissimo, è finito sotto processo per le sue corrispondenze epistolari: non erano lettere d’amore, ma professionali segnalazioni di clienti in attesa di sfamarsi. Lui, orgoglioso: “Tirate fuori le prove e poi parlerete”.
Il Fatto Quotidiano nei giorni scorsi le ha tirate fuori le prove, cioè le lettere. Fanno parte di una fitta corrispondenza con il dirigente dell’Asl Benito Battigaglia. E’ tutto un “caro Benito”, un prestampato dove solo i nomi dei raccomandati e le funzioni specificate mutano. Fazzone è così, ma Armando Cusani, la nuova stella del firmamento del centrodestra, è un gradino meglio. Presidente della Provincia di Latina, già sindaco di Sperlonga, un futuro in Parlamento assicurato, è appena stato sospeso dalle funzioni: due condanne di troppo (abuso d’ufficio e concorso in abuso), per un totale di tre anni e due mesi in primo grado, hanno costretto l’attuale, prudentissimo prefetto a firmare il decreto di sospensione. Cusani, che al pari di Berlusconi sente il peso della persecuzione e del generale malanimo delle Istituzioni nei suoi confronti, ha rappresentato, nella più fedele filosofia del capo supremo, le proprie perplessità: “Quello emesso è un provvedimento esorbitante e grave. La legge Severino va valutata caso per caso”. Capito? Cusani, inarrivabile: “Non bisogna fare di tutta un’erba un fascio”. Poi, sempre più acuto: “C’è stata una mancanza di attenzione e sensibilità… Quando mi sono candidato non c’era la legge, che quindi non può essere retroattiva”. Un perfetto clone di Silvio, un berluscao meravigliao.
Gli affari d’oro della “badante” del Cavaliere
Quando poi la politica si fa anche imprenditrice, i migliori scendono in campo. C’è la società dell’assessore provinciale e quella del parlamentare, in questo caso di una figura femminile conosciutissima dagli italiani. Mariarosaria Rossi, la signora minuta, dai capelli lunghi e biondi che sorregge il Cavalier Berlusconi standogli accanto in ogni inquadratura e in ogni suo atto, pubblico ma soprattutto privato. Immortale una sua frase intercettata nel periodo delle cene eleganti di Arcore: “Ancora bunga bunga? Ah no, io allora vado a dormì”. Donna di grande impatto (“Il mistero è scoprire quanto porto di reggiseno”) e per questo ritenuta da Silvio una presenza “anticongiunturale”, è cosciente della sua forza espressiva: “Il mio lato B è anche meglio del petto. Oddio e mo’ chi lo sente a Cicchitto?”.
Mariarosaria, 41enne di Piedimonte Matese (Caserta), è dunque stata soprannominata “la badante” per le funzioni di accompagnatrice che svolge egregiamente. La signora è stata una delle poche a seguire il presidente persino nel diverso ramo del Parlamento. Era deputata, ma oggi è senatrice, a conferma dell’assoluta intimità col Capo (“un uomo privo di vizi”, ha riferito sotto giuramento agli straniti giudici delbunga bunga). A Latina la Rossi è presente con una società, la Euroservice (sede a Piedimonte Matese), che si è aggiudicata l’appalto del servizio di recupero crediti di Acqualatina, un casermone clientelare che gestisce l’acqua nell’Agro Pontino. La gara (valore 1,5 milioni di euro) è stata una passeggiata. Due ditte soltanto, scrive Latina Oggi, hanno fatto pervenire un’offerta (fatto curioso, ma non inconsueto: in almeno altri due appalti della stessa società le ditte in competizione, con tutta la fame del lavoro, non superavano il numero di due…) ma una di esse è stata esclusa per vizi di forma.
Quindi una soltanto al traguardo, proprio quella di cui è socia la badante. Evviva! Le sembianze di una cupola politica che regola e controlla appaiono quindi nitide, e le figure di riferimento che si scorgono nelle tenebre pontine sono tre. Di Fazzone abbiamo detto, di Cusani pure. Resta Michele Forte, da Formia, altro centro nevralgico di potere e di voti. Forte è il patriarca di una famiglia dedita al bene comune e dunque incatenata alle poltrone. E’ stato senatore, è stato sindaco di Formia mentre suo figlio Aldo era assessore regionale. Ora, in regime di decompressione da stress, papà Michele è solo presidente del consiglio provinciale. Nella veste ha commentato le dichiarazioni del pentito Carmine Schiavone, ex boss dei Casalesi, sui rifiuti tossici interrati dalla mala in provincia di Latina. “Schiavone è un comandante di merda”, ha detto irato papà Michele. Nella città di Forte risiede Ernesto Bardellino, fratello di Antonio, morto nel ‘98, nome d’oro dei Casalesi.
La febbre del pallone, la domenica tutti allo stadio
Ma la Pontina non è solo la strada dei vizi e Latina non è unicamente il capoluogo dei predatori. In questi mesi sta attraversando uno stupendo momento di gloria. E’ il calcio, ancora il calcio, a entusiasmare e produrre un clima di orgoglio e rivincita. Finalmente l’Italia sta imparando a conoscerla: adesso che è in  Serie B e si fa rispettare, e il suo centrocampo è tetragono, la difesa bardata sulle fasce da due mastini, un attacco vivo e voglioso di far gol, Latina riscopre una fede in se stessa che solo Mussolini aveva saputo mostrare così limpida, piena, indiscutibile. Siamo tutti nel pallone, e infatti anche la politica scende in campo. Pasquale Maietta, deputato di Fratelli d’Italia, è il vicepresidente del club posseduto da una imprenditrice, Paola Cavicchi.
Latina – larga come una donna di Botero – è un manifesto vivo dell’architettura futurista (inarrivabile il Palazzo delle Poste), e della devozione al Duce (il possente palazzo M ne è il segno). E’ piatta come un biliardo, ma nessuno va in bici. Esistono solo i Suv. Che si concentrano (c’è il più alto rapporto di auto/abitante, 74 su 100), si incolonnano verso piazza del Popolo, sgommano e strepitano per non perdere l’appuntamento con l’happy hour: l’Aperol, le tartine… Con le auto c’è anche un traffico indiscutibile di soldi. “Viviamo al di sopra dei nostri mezzi”, commenta Graziella Di Mambro, vicedirettrice di Latina Oggi, il quotidiano della città. Dell’usura e nell’usura lo sviluppo sostenibile, e anche la rappresentazione cinematografica che la inchioda al suo vizio d’origine. Paolo Sorrentino ha scelto proprio la Pontina per girare il suo Amico di famiglia, e il protagonista principale, Geremia de Geremei, nell’eccellente interpretazione di Giacomo Rizzo, è l’usuraio perfetto, figlio d’arte, il “Cuoredoro” romantico ma spietato.
Non confondere mai l’insolito con l’impossibile era la frase che promosse il film e che avete letto all’inizio dell’articolo. Più di uno slogan un perfetto, circostanziato faro sull’urbe. Latina non ha un dolce tipico, né un suo dialetto. Non c’è l’autostrada e manca un eroe. Si deve accontentare di Tiziano Ferro, cantante dalla indubitabile forza espressiva. Poi niente. Se proprio si deve si arriva (però con un salto all’ingiù) alle curve di Manuela Arcuri, soubrette in chiara fase calante, o a quelle di Debora Salvalaggio, in gara per Miss Italia. Tutto qua. “Tutto qua un corno. Non mi piace che Latina venga dipinta come il luogo dei fetenti, la fogna d’Italia. La città sta nel medesimo gorgo di tutte le altre, ha le sue vanità, le sue debolezze, le sue porcherie, ma anche il suo lavoro, la sua storia, la sua grande bonifica. Fino a due anni fa sostenevo che noi fossimo più coglioni e criminali degli altri. Oggi invece dico: non più della media del Paese. Certo, vennero a colonizzarla non i migliori ma i peggiori, o i figli dei peggiori, i più disgraziati e poveri. Braccia da fatica non menti che illuminassero il pensiero di noialtri. Però resta un fatto: Latina ha una sua vitalità persino intellettuale, e una radice che in qualche modo parla al Paese”.
Antonio Pennacchi, l’autore di Canale Mussolini, non s’arrende all’evidenza: “Certo, è l’unico Comune a non avere l’assessorato alla Cultura. Però…”. Però è anche vero che malgrado i Suv, la biblioteca comunale, l’unica, è assai frequentata e Feltrinelli ha fatto un buon affare ad aprire qui una sua libreria. “La mia città è brutta da vicino ma bella da lontano”, dice Chiara, fuggita a Roma. “La giudicavo insopportabile invece è solo un po’ noiosa. Ma alzi la mano chi conosce una provincia che non s’annoia”.

sabato 23 novembre 2013

Riscaldare l’ufficio con meno di 50 centesimi al giorno [Video].



Un’idea straordinaria quella di questo signore che ha trovato il modo per riscaldare una stanza, che potrebbe essere il suo ufficio, con delle candeline e dei vasi di fiori.

Il signore spiega che la dimensione dei vasi non fa la differenza l’importante è che ci sia un passaggio fra di loro per l’aria.
Se un pacco di candeline da 50 pezzi costa un paio di euro e ne servono davvero poche per creare il caldo la spesa per questo innovativo sistema di riscaldamento è davvero esigua.
Ovviamente come spiega lui stesso questo sistema non riscalderà mai una grande casa in Canada nel mese di Febbraio… ma è utile per un piccolo ufficio o una piccola stanza.
La candela sprigiona CO2, ma quanti di voi fanno il bagno con le candele accese? Quanti di voi ne lasciano sempre una accesa per profumare la casa?
L’idea è geniale, praticamente si è creato una stufetta con due vasi, ora vi spiego come fa, ma non vi spiego le leggi della termodinamica… state tranquilli!
Allora prendete un contenitore e posatelo su una rivista un po’ spessa che faccia da isolante per non surriscaldare la base del tavolo o del davanzale su cui andrete a poggiarlo.
Accendete un paio di candeline (le classiche tea candle) posizionatele nel contenitore e subito dopo ponete il vaso più piccolo sopra di esse ma fate in modo che appoggi sul contenitore e non sopra le candele direttamente, in modo da non coprirle.
Ora prendere l’involucro di una candelina usata, e appiattitelo e posizionatelo sul foro del vaso, quello che serve per drenare l’acqua in eccesso.
Ora prendete il secondo vaso e posizionatelo come una campana sopra l’altro facendo attenzione a non ribaltare tutto e cercando di centrare il più possibile i vasi in modo che tra i due ci sia una specie di intercapedine dove circoli l’aria in egual misura.
Mi raccomando se volete provare NON usate i vasi in plastica ma in terracotta!!
Ora potete godervi il caldino di questa stufetta improvvisata.


Siats, il 'bullo' che terrorizzava i tirannosauri. - Matteo Marini

Siats, il 'bullo' che terrorizzava i tirannosauri

Anche i primi tirannosauri dovevano ebbero a che fare con qualcuno più grosso di loro, in grado di terrorizzarli. 
La conferma arriva da uno studio pubblicato su Nature Communication che annuncia la scoperta di un nuovo dinosauro. 
Battezzato Siats (il nome di una figura antropofaga della mitologia tribale degli Ute, gli indiani d'America che vivevano nella zona dove le ossa sono state rinvenute) l'esemplare scoperto nello Utah doveva essere lungo circa dieci metri, vissuto circa 100 milioni di anni fa. Nonostante vi somigliasse, era più grosso dei primi esemplari di Tyrannosaurus e per questo in cima alla catena alimentare, della famiglia dei Carcharodontosauri. 
Gli studiosi pensano che solo dopo l'estinzione del Siat Meekerorum il Tirannosauro abbia potuto proliferare ed evolvere, sino a raggiungere le dimensioni con le quali è diventato il più temibile dei carnivori. La scoperta del fossile aiuta a colmare un vuoto di conoscenze lungo circa 60 milioni di anni: dai resti del Acrocanthosaurus, un altro gigantesco predatore vissuto 120 milioni di anni fa, fino ai T-Rex di 60 milioni di anni fa, non si avevano infatti testimonianze dell'esistenza di predatori giganti in Nord America.

http://www.repubblica.it/scienze/2013/11/22/foto/siats_il_dinosauro_che_terrorizzava_i_t-rex-71648432/1/#1

venerdì 22 novembre 2013

Terremoto Abruzzo, i soldi degli Sms imboscati dalle banche. - Emiliano Liuzzi




I circa cinque milioni di euro donati dagli italiani per "dare una mano" alla ricostruzione dei luoghi colpiti dal sisma del 2009, sono fermi nei forzieri degli istituti di credito. La Etimos, accusata nei giorni scorsi su alcuni blog di aver gestito direttamente il patrimonio, ci ha sì guadagnato e spiega come li ha spesi.


Gira e rigira sono finiti alle banche i 5 milioni di euro arrivati via sms dopo il terremoto dell’Aquila sotto forma di donazione. E la loro gestione è stata quella prevista da qualsiasi rapporto bancario: non è bastata la condizione di “terremotato” per ricevere un prestito con cui rimettere in piedi casa o riprendere un’attività commerciale distrutta dal sisma. Per ottenerlo occorreva – occorre ancora oggi – soddisfare anche criteri di “solvibilità”, come ogni prestito. Criteri che, se giudicati abbastanza solidi, hanno consentito l’accesso al credito, da restituire con annessi interessi. I presunti insolvibili sono rimasti solo terremotati. Anche se quei soldi erano stati donati a loro. Il metodo Bertolaso comprendeva anche questo. È accaduto in Abruzzo, appunto, all’indomani del sisma del 2009. Mentre Silvio Berlusconi prometteva casette e “new town”, l’ex numero uno della Protezione civile aveva già deciso che i soldi arrivati attraverso i messaggini dal cellulare non sarebbero stati destinati a chi aveva subito danni, ma a un consorzio finanziario di Padova, l’Etimos, che avrebbe poi usato i fondi per garantire le banche qualora i terremotati avessero chiesto piccoli prestiti. E così è stato. Le donazioni sono confluite in un fondo di garanzia bloccato per 9 anni. Un fondo che dalla Protezione civile, due mesi fa, è stato trasferito alla ragioneria dello Stato. La quale, a sua volta, lo girerà alla Regione Abruzzo. E di quei 5 milioni i terremotati non hanno visto neanche uno spicciolo. Qualcuno ha ottenuto prestiti grazie a quel fondo utilizzato come garanzia, ma ha pagato fior di interessi e continuerà a pagarne. Altri il credito se lo sono visto rifiutare.
L’emergenza
Bertolaso
, allora, aveva pieni poteri. Come capo della Protezione civile, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma soprattutto nella veste di uomo di fiducia del premier Silvio Berlusconi. I primi soldi che Bertolaso si trovò a gestire furono proprio i quasi 5 milioni donati dagli italiani con un semplice messaggio del cellulare. Ma lui, “moderno” nella sua concezione di Protezione civile, decise che i milioni arrivati da tutta la penisola sarebbero stati destinati al post emergenza e alle banche, non all’emergenza. Questo aspetto non venne specificato al momento della raccolta, ma Bertolaso aveva il potere di decidere a prescindere. Spedì poi un suo emissario alla Etimos di Padova, consorzio finanziario specializzato nel microcredito, che raccoglie al suo interno, attraverso una fondazione, molti soggetti di tutti i colori, da Caritas a Unipol.
I numeri.
Quello che è successo in questi 3 anni è molto trasparente, al contrario della richiesta di donazione via sms che non precisò a nessuno dove sarebbero finiti i soldi. Nemmeno a un ente, la Regione Abruzzo che, paradossalmente, domani potrebbe usare quei soldi per elicotteri o auto blu. La Etimos, accusata nei giorni scorsi su alcuni blog di aver gestito direttamente il patrimonio, ci ha sì guadagnato, ma non fatica ad ammettere come sono stati usati i soldi: dei 5 milioni di fondi pubblici messi a disposizione del progetto dal dipartimento della Protezione civile, 470 mila euro sono stati destinati alle spese di start-up e di gestione del progetto, per un periodo di almeno 9 anni; 4 milioni e 530 mila euro invece la cifra utilizzata come fondo patrimoniale e progressivamente impiegata a garanzia dell’erogazione dei finanziamenti da parte degli istituti di credito aderenti. Intanto sono state 606 le domande di credito ricevute (206 famiglie, 385 imprese, 15 cooperative). Di queste 246 sono state respinte (85 famiglie, 158 imprese, 3 cooperative) mentre 251 sono i crediti erogati da gennaio 2011 a oggi per un totale di 5.126.500 euro (famiglie 89/551mila euro, imprese 153/4 milioni 233mila e 500 euro, cooperative 9/342mila euro). Infine 99 domande sono in valutazione (68 famiglie, 28 imprese, 3 coop).
Gli aiuti e le banche.
Al termine dell’operazione quello che è successo è semplice: i soldi che le persone hanno donato sono serviti a poco o a niente. Non sono stati un aiuto per l’emergenza, ma – per decisione di Bertolaso – la fase cosiddetta della post emergenza. Che vuol dire aiuti sì, ma pagati a caro prezzo. Le persone si sono rivolte alle banche (consigliate da Etimos, ovviamente) e qui hanno contrattato il credito. Ma chi con il terremoto è rimasto senza un introito di quei soldi non ha visto un centesimo. Non è stato in grado neppure di prendere il prestito perché giudicato persona a rischio, non in grado di restituire il danaro.
Che fine han fatto gli sms?I terremotati sono stati praticamente esclusi. Se qualcosa hanno avuto lo hanno restituito con un tasso d’interesse inferiore rispetto agli altri, ma pur sempre pagando gli interessi. Chi ha guadagnato sono le banche, sicuramente, e la Regione Abruzzo che, al termine dei 9 anni stabiliti, si troverà nelle casse 5 milioni di euro in più. Vincolati? Questo non lo sappiamo. Ne disporrà come meglio crede, sono soldi che entreranno nel bilancio.
La posizione di Etimos.
Fino a oggi, scoperto il metodo Bertolaso, il consorzio finanziario Etimos si è preso le accuse. Ma il presidente dell’azienda padovana al Fatto Quotidiano spiega che il loro è stato un lavoro pulito e trasparente. “Se qualcuno ha mancato nell’informazione”, dice il presidente Marco Santori, “è stata la Protezione civile che doveva precisare che i soldi erano destinati al post emergenza e non all’aiuto diretto. Noi abbiamo fatto con serietà e il risultato è quello che ci era stato chiesto”.

Verissimo!



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Autodichia, la “zona franca” dello Stato nello Stato: ecco dove non entrano i giudici. - Thomas Mackinson


Il principio giuridico a garanzia dell’indipendenza degli organi costituzionali è stato trasformato in uno strumento di privilegio, dove chi produce le leggi è dispensato dal rispettarle. E nessuno tocca la sottrazione alla legge ordinaria e a qualunque forma di controllo esterno, dalla magistratura alla Corte dei Conti.

E’ inutile girarci intorno, in Italia c’è uno Stato nello Stato. E, attenzione, non è San Marino non è ilVaticano. La zona franca dove non entrano guardia di finanza, magistratura ordinaria e contabile e neppure il giudice del lavoro è tutta nel centro di Roma, prolifera nel cuore stesso della nostra bella e vituperata democrazia. I suoi confini triangolano tra le assemblee elettive di Camera e Senato, il Quirinalee gli organi costituzionali. Cos’hanno in comune? Il fatto che incidentalmente, da dentro, s’illuminano spiragli su decisioni, conti e costi che destano improvviso scandalo: lo stipendio stellare del funzionario inamovibile, la nomina discutibile, l’appalto opaco che sfugge al controllo della Corte dei Conti, fino alla gestione dei bilanci interni che è tanto autonoma e inconoscibile nei dettagli da consentire a chi li firma di proclamare grandi risparmi che si rivelano, puntualmente, falsi. La breccia si richiude subito, senza disturbare troppo gli inquilini, fino al prossimo lampo di cronaca. La chiave della sacra porta dello “Stato nello Stato” ha incisa una parola antica e carica di suggestioni: “Autodichia”. E che significa? Neppure chi ne beneficia – onorevoli, funzionari e dipendenti degli alti organi dello Stato – lo sa esattamente. Per lo Zanichelli è la “potestà riconosciuta alle Camere e alla Corte Costituzionale di giudicare, sostituendosi in ciò agli organi della giustizia amministrativa, sulle controversie relative al rapporto di impiego del personale da essi dipendente”.
Ma anche di regolare gli appalti lontano dalle maglie del codice dei contratti pubblici e dai controlli della Corte dei Conti. Nasce dal potere di giudicare ammissibilità e permanenza di un proprio membro anche di fronte alle richieste della giustizia ordinaria: ma mentre questo si ricava in Costituzione (art. 66 anche se tutte le revisioni costituzionali proposte cercano di superarlo), il principio ha dato luogo ad una estensione– mai introdotta espressamente nell’ordinamento – che sottrae alla legge ordinaria perfino le funzioni amministrative, che nulla hanno a che vedere con l’esercizio delle funzioni costituzionali. Gli esperti di diritto hanno spesso dibattuto l’argomento. Chi difendendo a spada tratta un principio nato per una ragione nobile di autonomia e indipendenza della rappresentanza politica dall’ingerenza di altri poteri (in origine quello monarchico, poi giudiziario). Chi perorando possibili contrappesi o denunciando gli effetti deleteri dell’autodichia sulla vita democratica.
I radicali Irene Testa e Alessandro Gerardi ne hanno scritto un libro (“Parlamento zona franca. Le camere e lo scudo dell’autodichia”, edito da Rubbettino) che spiega, tra cronaca politica e analisi giuridica, quanto siamo lontani dalle nobili origini. Persa la ragione storica resta quella politica, intesa come potere dei partiti e dei singoli che ne fanno parte “contro” le regole e le leggi che governano il resto della società. Il giurista Santi Romano dava questa interpretazione dell’autodichia: “Il falso dogma dell’onnipotenza parlamentare, congiunto a quello della divisione dei poteri ha contribuito a fare del Parlamento uno Stato entro lo Stato, un corpo chiuso ed indipendente, cui si è persino negata la qualità di organo statale, facendolo invece un organo di una democrazia giuridicamente immaginaria e un rappresentante, specie per il mezzo della Camera elettiva, della volontà sovrana del popolo, non immedesimata con quella dello Stato, ma concepita in antitesi, talvolta in vera lotta, con questa”.
Correva l’anno 1898. E da allora non è cambiato nulla, anzi. In 67 anni di vita repubblicana l’istituto è stato applicato, esteso e piegato a scopi molto meno “alti”. Da principio di garanzia dell’organo l’autodichia è diventato uno strumento di privilegio per chi ne fa parte: è il dna della Casta, la particella primordiale del privilegio e della rendita di posizione. “Sembra un vezzo, una reminiscenza per storici o un’argomentazione da accademici e giuristi”, spiega Irene Testa “e invece è il cuore stesso del problema Italia, quello che ha consentito e consente al sistema partitocratico di vivere, alimentarsi, e diffondersi corrompendo ogni anfratto della vita pubblica”.
L’autodichia all’italiana condiziona, altera e distorce lo stato di diritto a vantaggio di alcuni e a danno di tutti. Il tema è entrato, in parte, nell’agenda dei 10 saggi chiamati da Napolitano a fornire, tra le altre, embrionali ipotesi di riforma dell’architettura costituzionale. Il loro intervento si è però limitato a proporre una modifica all’articolo 66 nella direzione di “attribuire a un giudice indipendente e imparziale il giudizio sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. L’accordo è stato possibile su quel punto perché “era evidente a tutti che il problema del Parlamento che decide su se stesso si dimostra insolubile”, spiega Stefano Ceccanti (Pd), costituzionalista e membro della Giunta per il Regolamento del Senato. Ma anche questa indicazione potrebbe restare lettera morta. “Tutto dipende da quello che accadrà nei prossimi mesi – spiega – Stiamo aspettando l’ultima lettura della legge di procedura, che dovrebbe avvenire a dicembre e una volta avvenuta si dovrebbe passare alla discussione sui contenuti e a quel punto il governo e le forze politiche dovrebbero presentare il testo”.
Non si sa quando, insomma, ma lo Stato nello Stato sembra disposto a cedere un pezzo della sua autonomia. Si tiene ben stretta però quella che esercita su altri fronti non meno rilevanti che potrebbero tranquillamente essere normati con legge ordinaria: nessuna ipotesi è balenata, ad esempio, relativamente agli aspetti contabili-amministrativi, al potere di organizzare uffici, servizi e nominare dipendenti attraverso insindacabili regolamenti interni. “La complessità su questi nodi è legata al fatto che le vie per limitare l’autodichia senza comprimere l’autonomia dell’organo costituzionale tocca trovarle caso per caso”, spiega Ceccanti. “Ciascuna di quelle prerogative richiede di calibrare due esigenze: quella di individuare forme neutre ed esterne di controllo e quella di garantire l’autonomia dei vari organi senza subordinarli a ulteriori poteri che ne possano limitare l’indipendenza. Sulle spese dei gruppi, ad esempio, abbiamo stabilito nella scorsa legislatura di rendere obbligatoria la pubblicazione online dei rendiconti. Affidarne l’esame alla magistratura contabile avrebbe comportato il rischio di un conflitto tra potere legislativo e giudiziario. Abbiamo optato per una soluzione meno problematica che fa leva sull’effetto di deterrenza dato dalla visibilità esterna”. Intanto, nell’impossibilità di trovare la quadra generale sull’autodichia e le sue degenerazioni, lo Stato nello Stato continua a dettar legge. E a farla valere esclusivamente fuori dal portone dei suoi Palazzi.