venerdì 26 settembre 2014

Processo Enel Porto Tolle, “Scaroni ha non indifferente capacità a delinquere”. - Thomas Mackinson

Paolo Scaroni

La definizione è nelle motivazioni della sentenza di condanna emessa il 31 marzo scorso per il disastro ambientale della centrale di Porto Tolle. "Scaroni agì al fine di incrementare gli utili d'impresa a discapito della sicurezza e della salute dei cittadini”. Il nuovo ad: "Rinunciamo a riconversione a carbone".
Paolo Scaroni dimostra una “non indifferente capacità a delinquere”. E non stiamo parlando delle indagini per le presunte mazzette sui pozzi petroliferi, ma delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Rovigo che lo scorso 31 marzo ha condannato gli ex amministratori di Enel Paolo Scaroni e Franco Tatò a tre anni di reclusione per disastro ambientale, in termini di messa in pericolo della salute della popolazione. Appena depositate, sono l’ennesima tegola sul capo dell’ex manager pubblico oltre che un macigno per i gestori di impianti industriali nel mirino di altre procure. In 113 pagine il collegio giudicante ricostruisce la vicenda processuale innescata dalle emissioni inquinanti della centrale termoelettrica di Porto Tolle tra il 1998 e il 2009. E una frase riassume l’esito e colpisce più di altre l’attenzione: “La pena inflitta risulta adeguata alla non indifferente capacità a delinquere dimostrata dai prevenuti (gli a.d. Tatò e Scaroni), i quali hanno agito al fine di incrementare gli utili d’impresa a discapito della sicurezza e della salute dei cittadini”. 
La “capacità di delinquere”, si legge nelle carte, sostanzia dalla fatto che entrambi gli ad (Scaroni dal 2002) anziché porsi l’obiettivo di conformarsi al dettato normativo in fatto di riduzione delle emissione e salvaguardia della salute pubblica “agirono in senso contrario, omettendo da un lato di dare corso agli interventi di ambientalizzazione della centrale annunciati dall’azienda fin dal 1994 e sostenendo dall’altro progetti di riconversione che prevedevano l’uso di combustibili dotati di maggior impatto ambientale rispetto al metano”. Il tutto, in sintesi, al fine di consentire una produzione energetica sostenuta e a basso costo, grazie ai mancati interventi di desolfurazione degli impianti e all’uso di combustibili ad alto tenore di zolfo che presentavano prezzi di acquisto inferiori ad altri. Attività ad altissimo impatto ambientale per la popolazione residente sul territorio del delta del Po che ha potuto proseguire indisturbata fino al 2009 anche grazie a puntuali deroghe pervenute da Roma.
Sul punto i giudici non hanno dubbi. La mera autorizzazione – per altro tacita – al funzionamento della centrale non è sufficiente ad escludere reati suscettibili di incidere sulla salute delle persone. Si legge in proposito nella sentenza (pag. 26): “Tali violazioni, infatti,condussero al pregiudizio di un bene, “la salute” di una generalità indefinita di individui, avente rango costituzionale, e come tale estraneo al c.d. “rischio consentito’, ossia a quel novero di eventi di danno e di pericolo, la cui verificazione non è penalmente rilevante, essendo controbilanciata dalla scriminante dell’esercizio del diritto. L’attività imprenditoriale, infatti, non può svolgersi in contrasto con “l’utilità sociale” (art. 49 Cost.) e non può compromettere il bene salute (art. 32 Cost.). Pertanto, la stessa non può essere legittima ove vulneri in modo significativo tale bene giuridico e diviene colpevole se ciò avviene nella consapevolezza di violare precise disposizioni legislative”.
E i giudici non fanno sconti. “Ciò costituisce chiaro indice del dolo insito nelle condotte nell’intera vicenda”, si legge a pagina 92 della sentenza. Condotte “dettate dalla volontà di contenere i costi di esercizio delle centrale e quindi aumentare gli utili di impresa, omettendo di destinare sufficienti risorse alla salvaguardia della salute pubblica e dell’ambiente circostante”. Oltre a rimarcare la posizione grave di Scaroni, già condannato nel primo processo Enel che si era celebrato ad Adria nel 2006 (confermata in Cassazione 2011), il collegio rileva che non ci sono le condizioni per concedere le attenuanti generiche “considerato il comportamento processuale tenuto dagli imputati, i quali non hanno manifestato alcuna forma di resipiscenza in ordine alle condotte poste in essere”. E in effetti, a botta calda, Scaroni si dimostrerà quasi sprezzante: “Porto Tolle, nessun disastro. Pensavo di essere assolto“. E invece i magistrati condannano e con la mano pesante. A scanso di equivoci precisano anche che “non potrà essere concesso l’indulto di cui alla legge n. 241/2006, atteso che la commissione del reato, per quanto sopra specificato, si è protratta ben oltre la data 2 maggio 2006. 
Ma non è finita. Perché mentre gli inquirenti milanesi sono sulle tracce del “tesoretto” di Scaroni, che avrebbe accumulato ingenti ricchezze attraverso un sistema tangentizio di commesse petrolifere, i giudici di Rovigo hanno stabilito che i due manager dovranno pagare in solido tra loro 400mila euro a titolo di risarcimento dei soggetti costituiti in giudizio (ministeri dell’Ambiente e della Salute, associazioni, comuni di Porto Tolle e Rosolina, Provincia di Rovigo…). La partita economica è solo all’inizio. La sentenza si conclude infatti non con una ammenda pecuniaria che lava il reato ma con la richiesta di ripristino dei danni ambientali che con tutta probabilità saranno oggetto di un procedimento in sede civile. Dal valore potenzialmente devastante (anche per Enel, non citata a giudizio sul fronte penale): una stima dell’Ispra dello scorso gennaio valutava danni ambientali e sanitari per 3,6 miliardi di euro.
Oltre al giudizio in oggetto, le motivazioni della sentenza sono già destinate a fare giurisprudenza e sollevare polemiche. Accolgono in pieno l’impianto accusatorio mosso dal pm Manuela Fasolato che ha condotto una solitaria battaglia per anni, finendo pure sotto un procedimento disciplinare dai tratti a dir poco surreali che tutt’ora pende al Csm (il 21 novembre l’udienza). Tra le altre contestazioni, quella di “lavorare troppo”. La Procura Generale della Repubblica ha chiesto due volte l’archiviazione, le incolpazioni in parte sono cadute e in parte sono state riformulate  tenendo in piedi quella di “interferenza grave” contro il Ministero dell’Ambiente. Il motivo? Mentre a Roma gli organi tecnici e politici erano impegnati a valutare il mega progetto di riconversione della centrale, il pubblico ministero che stava istruendo l’accusa a Rovigo si era permessa di trasmettere a quegli organi una perizia che segnalava le gravi sottostime e gli errori nelle valutazioni delle emissioni depositate agli atti. A fin di bene, volendo evitare ulteriori danni alla salute e all’ambiente e sotto. Ma sotto processo è finita lei, e poco importa se quello stesso ministero si è costituito parte civile e se i giudici le hanno dato ragione piena. 
La sentenza accoglie il principio per cui in un processo per inquinamento ambientale non è necessario produrre la prova del singolo legame di causalità per le varie patologie, è sufficiente la correlazione stabilita dall’incrocio della prova epidemiologica e quella ambientale. Un macigno, si diceva, per gli altri impianti oggi nel mirino delle procure: dalla Tirreno Power di Vado Ligure (Sorgenia, De Benedetti) a Brindisi (Enel), passando per le centrali di Monfalcone (A2a), Torre Valdaliga Nord a Civitavecchia (Enel).
Infine si registra, proprio a ridosso della sentenza che tra l’altro inibisce a Enel di proseguire l’attività alle condizioni attuali, la decisione dell’azienda di rinunciare al mega progetto di riconversione a carbone, ipotesi giudicata peggiorativa dai consulenti della Procura di Rovigo e messa agli atti anche nelle motivazioni della sentenza.
ENEL, PRENDE ATTO E RISPONDE: “LA SENTENZA RICONOSCE MODESTO RISCHIO SANITARIO”
Enel prende atto delle motivazioni e, nel rispetto del lavoro svolto dai giudici, confida che possa essere chiarita nei futuri gradi di giudizio l’assoluta conformità dell’esercizio della centrale alle normative applicabili così come la correttezza della condotta dei propri rappresentanti.
Il collegio giudicante ha ritenuto che a Porto Tolle non si sia realizzato alcun disastro o danno per la salute, come sostenuto dall’accusa, ma si sia solo manifestata una situazione di modesto rischio di incremento delle malattie respiratorie rispetto ai dati medi esistenti. Circostanza che dovrà esser ulteriormente valutata nel corso del giudizio di appello per tener conto delle evidenze probatorie già emerse nel processo che avevano invece radicalmente escluso l’esistenza di qualsiasi rischio.
In relazione alle domande delle parti civili il collegio giudicante ha disposto la quantificazione dei danni in via provvisionale in misura sensibilmente inferiore rispetto a quanto richiesto (150 mila euro a fronte di 800 milioni). Anche tale decisione, così come ogni valutazione circa la reale esistenza di danni, dovrà esser ulteriormente vagliata nell’ambito dei futuri gradi di giudizio.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/25/processo-enel-porto-tolle-scaroni-ha-non-indifferente-capacita-a-delinquere/1133170/


Eni-Saipem, inchiesta tangenti Algeria. Spunta il “Paolo Scaroni trust”

I pm titolari del fascicolo hanno avviato accertamenti sul trust che vede come beneficiario l'ex ad, la moglie e i loro discendenti, in particolare con una rogatoria in Svizzera. Obiettivo della Procura di Milano è ricostruire l'origine di tutti i flussi di denaro in entrata. Sono state quindi avviate, oltre alla rogatoria in Svizzera riguardante il Paolo Scaroni Trust, anche in Lussemburgo, Abu Dhabi, Algeria, Francia, Hong Kong, Singapore.

Spunta il Paolo Scaroni trust nell’inchiesta della procura di Milano sul presunto pagamento da parte di Saipem (società del gruppo Eni) di tangenti per 198 milioni di euro in Algeria al ministro algerino dell’energia Chekib Khelil e al suo entourage, per ottenere otto grandi appalti petroliferi del valore complessivo di 11 miliardi di euro. I pm titolari del fascicolo hanno avviato accertamenti sul trust che vede come beneficiario l’ex ad dell’Eni, Paolo Scaroni, la moglie e i loro discendenti, in particolare con una rogatoria in Svizzera. L’ex top manager in questa inchiesta è indagato per corruzione internazionale. Stesso reato contestato nella più recente inchiesta della Procura di Milano che invece riguarda presunte mazzette versate per l’acquisizione di un giacimento petrolifero in Nigeria in cui è indagato l’attuale amministratore Claudio Descalzi. 
Obiettivo dei pm milanesi è ricostruire l‘origine di tutti i flussi di denaro in entrata del trust. Sono state quindi avviate, oltre alla rogatoria in Svizzera riguardante il Paolo Scaroni Trust, anche in Lussemburgo, Abu DhabiAlgeriaFranciaHong KongSingapore e quella considerata più importante ai fini dell’inchiesta, in Libano. Gli inquirenti vogliono tracciare gli spostamenti dei soldi pagati da Saipem alla Pearl Partners, basata a Hong Kong e controllata da Farid Bedjaoui, uomo di fiducia del ministro Khelil e intermediario tra gli algerini e i manager Saipem.
In questa inchiesta, oltre a Scaroni, sono indagati per corruzione internazionale l’ex amministratore delegato di Saipem Franco Tali, l’ex direttore operativo Pietro Varone (arrestato nell’estate del 2013), l’allora direttore finanziario Alessandro Bernini, l’allora direttore generale per l’Algeria Tullio Orsi e quello che all’epoca dei fatti era responsabile Eni per il Nordafrica Antonio Vella. L’ipotesi della Procura di Milano è che una parte della ipotizzata bustarella multimilionaria pagata nel paese nordafricano sia poi rientrata in Italia per finire nelle tasche dei manager del gruppo petrolifero. Per quanto riguarda il Paolo Scaroni Trust, stando agli atti dell’assemblea degli azionisti 2013 di Eni, risulta costituito nel 1996, contestualmente al trasferimento di Scaroni in Gran Bretagna per ricoprire la carica di amministratore delegato della Pilkington. Secondo l’ex numero uno del cane a sei zampe, il trust è servito per amministrare e raccogliere quanto guadagnato all’estero. Di sicuro, agli atti dell’inchiesta della procura di Milano c’è che – come risulta da documentazione della Banca d’Italia che ha ispezionato la Camperio Sim, di cui il trust era cliente – al momento del rimpatrio in Italia della maggior parte dei fondi del trust, il suo valore era di circa 13 milioni di euro e che oltre 11 milioni furono scudati (al lordo dell’imposta del 5%) con lo scudo fiscale ter.
La maggior parte degli 11 milioni scudati sono stati poi reinvestiti nella Immobiliare Cortina srl, che al momento dell’ispezione di Palazzo Koch risulta al 100% di Paolo Scaroni. Il trust fu costituito quindi nella seconda metà degli anni Novanta con sede nell’isola Guernsey, una delle isole della Manica e aveva un trustee con sede nella stessa località. Il compito di trustee (ovvero il gestore del trust, ndr) nel 2006 passò a un altro trustee, con sede negli Stati Uniti, fino ad arrivare all’attuale situazione per cui il Paolo Scaroni Trust ha due trustee, uno è la Camperio Legal and Fiduciary Service con sede in Virginia negli Stati Uniti e uno è la Severgnini Family Office con sede a Milano in via Camperio. Il trust risulta avere anche due protector: Rolando Benedick e Oreste Severgnini. 
Tornando agli atti dell’assemblea 2013 di Eni, in quella occasione, rispondendo alla domanda di un azionista, si specifica che “il Trust non ha mantenuto alcun collegamento con l’isola di Guernsey salvo la legge applicabile, in accordo con la convenzione dell’Aja” e che “data la presenza del co-trustee italiano, il Paolo Scaroni Trust è fiscalmente totalmente residente in Italia e adempie a tutti i relativi obblighi fiscali e dichiarativi in totale trasparenza”. 

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