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sabato 30 novembre 2019

Le orribili scelte di Renzi, uno degli italiani peggiori. - Viviana Vivarelli.




























Non capisco come si possa ritenere competente uno che è stato inadeguato e discutibile Presidente del Consiglio come Matteo Renzi.
Per ottenere un posto a tavola alla Casa Bianca, ha trascinato il governo italiano nella campagna elettorale statunitense, sostenendo la candidata sconfitta e rischiando di compromettere i rapporti col nuovo presidente americano.
Si era schierato contro il referendum greco sull’austerity e il popolo greco ha votato l’esatto contrario.
Ha difeso il Remain in Inghilterra e ha vinto la Brexit.
Ha acconsentito alle sanzioni alla Russia, danneggiando per miliardi l’economia delle nostre imprese e creando tensioni inutili tra l’Italia e la Russia stessa.
Si presentò al Forum di San Pietroburgo per la conferenza stampa con Putin, dove sarà ricordato per avere passato il tempo a chattare con il suo smartphone, mentre il presidente della seconda potenza – militare – al mondo parlava dell’Italia.
Qualche mese dopo, decise di schierargli militari italiani contro, al confine con la Lettonia.
Votò il trattato UE-Tunisia, che danneggia il nostro olio, facendo entrare olio tunisino nel nostro mercato.
Ha sostenuto a spada tratta il TTIP, pur sapendo che avrebbe distrutto la nostra economia per favorire le multinazionali americane e, invece di staccare la spina a questo trattato scellerato, per proteggere la nostra economia, si è piegato alle lobby che lo sostenevano.
Ha fatto una riforma costituzionale sotto dettato delle banche d’affari americane per stroncare la democrazia nel nostro Paese, invece di difenderla.
Si è comportato in modo ridicolo in Europa votando sì a 134 risoluzione europee che ci uccidevano, poi finse di fare il broncio a fece togliere la bandiera europea.
Ha usato i soldi per la lotta al terrorismo e il terremoto per le sue mancette elettorali.
Ha aumentato di 120 miliardi il debito pubblico con tasse che colpivano soprattutto i lavoratori dipendenti.
Ha sprecato 16 miliardi di euro delle nostre tasse nel Jobs Act che ha prodotto decine di migliaia di licenziamenti in più.
Ha utilizzato 10 miliardi di euro per un bonus di 80 euro che non ha rilanciato l’economia e, per averci sopra il consenso europeo, ha venduto i nostri porti come unici porti aperti ai flussi migratori dal mare, aprendo il contenzioso di un Patto di Dublino da cui non sappiamo più come uscire.
I cittadini italiani hanno speso gli 80 euro per pagare le tasse locali che nel frattempo lui aveva aumentato.
Ha regalato 150 miliardi alle banche punendo non i malfattori ma i correntisti. In cambio ha tagliato lo stato sociale e si era ripromesso di azzerarlo del tutto, fregandosene dei poveri.
Ha probabilmente avuto rapporti con la massoneria, visto che ne aveva il padre con Carboni a cui chiedeva consiglio.
Ha tentato di stuprare la democrazia parlamentare italiana trasformando il sistema in presidenziale e ha imposto un sistema elettorale incostituzionale e ha tentato di fare l'ennesina riforma orrenda della Costituzione.
Ha gravato il Paese spese inaccettabili come il suo Air bus, mai usato, lusso superfluo che è costato 26 volte il suo valore.
Ha fatto danni enormi con la buona scuola, sistema dittatoriale col preside.sceriffo.
La sua è una famiglia di truffatori e lui stesso si è circondato di un Giglio magico pieno di truffatori e corrotti che sono caduti a uno a uno sotto i colpi della Magistratura.
Ha depenalizzato 120 reati, tra cui lo stalking e la corruzione di minore, dimezzando i tempi della prescrizione per liberare più in fretta i corrotti, mandando al macero migliaia di processi e ha eliminato il carcere per le pene inferiori ai 4 anni.
Si è arricchito con mezzi dubbi probabilmente illeciti, girando il mondo per conferenze sospette e riscuotendo mazzette per affari fatti soprattutto con le armi e soprattutto con Paesi arabi. Ha dichiarato di avere in banca 15.000 euro e contemporaneamente ha comprato una villa da 1,4 milioni di euro senza che si capisca con quali soldi abbia potuto farlo, trovando sempre banche compiacenti e mutui facilissimi. E ora è sotto indagine per i fondi neri ricevuti da Open, la fondazione che finanzia la Leopolda e accusato, tramite questa, di riciclaggio, traffico di influenze illecite e finanziamento illecito ai partiti.
Ha distrutto il Partito democratico, rinnegando e svendendo tutti i suoi valori e le sue battaglie e piegandolo a un liberismo truce e spietato come nemmeno i neocon americani. Dopo averne distrutto l'immagine, se ne è andato per fondare un partito di centro che sta raccogliendo il peggio del peggio della destra, mentre flirta con Berlusconi e cerca costantemente di sabotare il governo di cui formalmente fa parte a cui è chiaramente nemico. Il programma del suo partito è vago ma come primi punti chiede un aumento della spesa in armi e la riunione di Finmeccanica con Fincantieri.
Il suo liberismo sfacciato gli ha meritato l'invito del Bilderberg.
Le sue leggi finanziarie non hanno mai azzeccato una previsione e sono siate puntualmente smentite a fine anno dai dati reali.
Il suo atteggiamento arrogante e supponente non solo ha allontanato tanti cittadini italiani dalle istituzioni, ma ha causato anche scissioni e lacerazioni nel Pd, che oggi ha più correnti che elettori e ha spaccato il Paese.
Ha congegnato un sistema elettorale perverso per bloccare l'ascesa del M5S e lo ha costruito assieme a Berlusconi e Salvini, si immagina per andarci al potere insieme e ha sempre votato i peggiori orrori assieme alla Lega.
Ha fatto una riforma per mettere i suoi fedelissimi nella TV di Stato. Ha deciso tutto lui: direttori generali, presidente, e amministratore delegato. E oggi lui stesso si lamenta delle persone che ha scelto, che stanno portando la nostra televisione pubblica al declino. Malgrado questo, sta brigando per ottenere il controllo di Rai1.
Ha scelto motu proprio 500 docenti universitari per metterli ai propri ordini.
Ora finge di essere contro quello stesso sistema fallimentare che lui ha creato, cadendo nel grottesco.
Tutti possiamo sbagliare, per carità, ma chi sbaglia deve essere in buona fede. Matteo Renzi è sempre dalla parte sbagliata della storia, perché dall’altra parte ci sono i cittadini, e lui non ha scelto mai di stare con loro.


https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=780622449069577&id=100013654877344

domenica 13 gennaio 2019

Una analisi congiunta con Dmitry Orlov sul collasso degli Stati Uniti. - The Saker



L’Occidente è marcio!   Può essere… ma senti che buon odore…Barzelletta dell’era sovietica
La parola “catastrofe” ha diversi significati, ma il concetto originale greco è quello di una “improvvisa recessione” (in greco katastrophē “ribaltamento, svolta improvvisa” da kata “giù” + strofe “girare”). Per quanto riguarda la parola “superpotenza,” anche per questa esistono diverse definizioni possibili, ma le mie preferite sono: 
questa, “superpotenza è un termine usato per descrivere uno stato con una posizione dominante, caratterizzato dalla sua ampia capacità di esercitare influenza o proiettare forza su scala globale. Ciò si ottiene attraverso una combinazione di forza economica, militare, tecnologica e culturale, nonché con l’opera della diplomazia e della capacità di persuasione. Tradizionalmente, le superpotenze si trovano preminentemente fra le grandi potenze,” 
questa, “una nazione estremamente potente, specialmente una in grado di influenzare gli eventi internazionali e gli atti e le politiche delle nazioni meno potenti,” 
o ancora questa“un organo di governo internazionale, in grado di imporre la propria volontà su quella degli stati più potenti.”
Ho già parlato del visibilissimo declino degli Stati Uniti e del suo impero in molti dei miei articoli, quindi non mi ripeterò qui, se non per dire che la “capacità di esercitare influenza ed imporre la propria volontà” è probabilmente il criterio migliore per misurare l’entità della caduta degli Stati Uniti da quando Trump è salito al potere (il processo era già stato avviato da Dubya e da Obama, ma ha sicuramente accelerato con The Donald). Quello che vorrei fare è usare una metafora per rivisitare il concetto di catastrofe.
Se si posiziona un oggetto in mezzo ad un tavolo e poi lo si spinge fino al bordo, ci vorrà una certa quantità di energia, che possiamo chiamare “E1”. Poi, se il bordo del tavolo è liscio e vogliamo spingere l’oggetto oltre il bordo, basterà una quantità di energia molto più piccola, che possiamo chiamare “E2”. E, nella maggior parte dei casi (se il tavolo è abbastanza grande), si scoprirà anche che E1 è molto più grande di E2, ma che E2, per il fatto di essere avvenuta dopo E1, ha innescato un evento molto più drammatico: invece di planare dolcemente oltre il piano del tavolo, l’oggetto cade di colpo e va in pezzi. Questa caduta improvvisa può anche essere definita una “catastrofe“. Questo capita anche nella storia, prendete l’esempio dell’Unione Sovietica.
Il destino di tutti gli imperi
Alcuni lettori potrebbero ricordare come Alexander Solzhenitsyn avesse ripetutamente dichiarato negli anni ’80 di essere sicuro che il regime sovietico sarebbe crollato e che sarebbe potuto ritornare in Russia. Naturalmente, era stato ridicolizzato in modo caustico da tutti gli “specialisti” e da tutti gli “esperti”. Del resto, perché qualcuno avrebbe dovuto ascoltare un eccentrico esiliato russo con idee politicamente sospette (c’erano voci di “monarchismo” e di “antisemitismo”) quando l’Unione Sovietica era un’immensa superpotenza, armata fino ai denti, con un enorme servizio di sicurezza, con alleati politici e sostenitori in tutto il mondo? Non solo, ma tutti gli specialisti e gli esperti “rispettabili” erano unanimi nel ritenere che, anche se il regime sovietico soffriva di diversi problemi, era ben lungi dal collasso. L’idea che la NATO avrebbe presto sostituito l’esercito sovietico non solo nell’Europa Orientale, ma anche in una parte della stessa Unione Sovietica era assolutamente impensabile. Eppure è successo proprio questo, il tutto molto, molto velocemente. Mi verrebbe da dire che l’Unione Sovietica è completamente crollata in meno di 4 anni: dal 1990 al 1993. Come e perché questo sia accaduto va oltre lo scopo di questo articolo, ma ciò che è innegabile è che nel 1989 l’Unione Sovietica era ancora un’entità all’apparenza potente, mentre, alla fine del 1993, era praticamente sparita (fatta a pezzi dalla stessa nomenklatura che l’aveva governata). Come mai non lo aveva previsto quasi nessuno?
Perché un’analisi condizionata dall’ideologia porta al compiacimento intellettuale, al fallimento dell’immaginazione e, di solito, all’incapacità quasi totale di prendere in considerazione, anche ipoteticamente, i possibili risultati. Questo è il perchè quasi tutti gli “specialisti sovietici” si erano sbagliati (il KGB, al contrario, aveva previsto questo risultato e aveva avvertito il Politburo, ma i gerontocrati sovietici erano ideologicamente paralizzati ed erano incapaci, e spesso anche contrari, a prendere una qualsiasi misura preventiva). Il regime massonico di Kerensky in Russia nel 1917, la monarchia in Iran o il regime dell’apartheid in Sud Africa erano crollati molto in fretta, una volta messo in atto e avviato il meccanismo di autodistruzione.
Potete pensare al “meccanismo di autodistruzione del regime” come alla nostra fase E1 nella metafora di cui sopra. Per quanto riguarda E2, potete immaginarla come un qualsiasi, piccolo evento scatenante che innesca il collasso rapido e finale, apparentemente con  grande facilità e minimo dispendio di energia.
A questo punto, è importante spiegare come si presenta esattamente un “collasso finale”. Alcune persone pensano erroneamente che una società o una nazione collassata assomigli al mondo di Mad Max. Non è così. L’Ucraina è uno stato fallito già da diversi anni, ma esiste ancora sulle carte geografiche. La gente ci vive, ci lavora, la maggior parte di essa ha ancora l’elettricità (anche se non 24 ore al giorno e 7 giorni su 7), esiste un governo e, almeno ufficialmente, la legge e l’ordine vengono mantenuti.
Questo tipo di società fallita può andare avanti per anni, forse per decenni, ma è comunque in uno stato di collasso, poiché ha attraversato tutte le 5 fasi del collasso, così come sono state descritte da Dmitry Orlov nel suo libro “The Five Stages of Collapse: Survivors ‘Toolkit”,  dove l’autore definisce le seguenti 5 fasi del collasso:
• Fase 1: collasso finanziario. La fede nell’“ordinaria amministrazione” è persa.
• Fase 2: collasso commerciale. La fede nel “ci penserà il mercato” è persa.
• Fase 3: collasso politico. La fede nel “il governo si prenderà cura di te” è persa.
• Fase 4: collasso sociale. La fede nel “la tua gente si prenderà cura di te” è persa.
• Fase 5: collasso culturale. La fede nella “bontà dell’umanità” è persa.
Avendo visitato di persona l’Argentina negli anni ’70 e ’80 e visto la Russia all’inizio degli anni ’90, posso attestare che una società può collassare completamente, pur mantenendo molte delle caratteristiche esterne di una normale società ancora funzionante. A differenza del Titanic, la maggior parte dei regimi collassati non affondano completamente. Rimangono metà sotto e metà sopra l’acqua, magari con un’orchestrina che suona ancora qualche musichetta. E nelle cabine più costose del ponte superiore, l’elite riesce ancora a mantenere uno stile di vita abbastanza lussuoso. Ma, per la maggior parte dei passeggeri, un simile collasso vuol dire povertà, insicurezza, instabilità politica e un’enorme perdita di benessere. Inoltre, in termini di movimento, una nave mezza affondata non è affatto una nave.
Ecco la cosa più importante: finché gli altoparlanti della nave continuano ad annunciare bel tempo e brunch a buffet, e finché la maggior parte dei passeggeri rimangono nelle loro cabine, incollati davanti alla TV invece di guardare fuori dagli oblò, l’illusione della normalità può essere mantenuta per un tempo abbastanza lungo, anche dopo un collasso. Durante la fase E1 delineata sopra, la maggior parte dei passeggeri verrà tenuta completamente all’oscuro (perchè non insorgano o protestino) e solo dopo l’avvento di E2 (totalmente inaspettato per la maggior parte di essi) la realtà, alla fine, distruggerà l’ignoranza e le illusioni di quei passeggeri a cui era stato fatto il lavaggio del cervello.
Obama è stato veramente l’inizio della fine 
Ho vissuto negli Stati Uniti dal 1986 al 1991 e dal 2002 fino ad oggi e non ho alcun dubbio che il paese abbia subito un enorme declino negli ultimi decenni. In realtà, direi che gli Stati Uniti hanno vissuto in condizioni E1 almeno da Dubya in poi e che questo processo ha accelerato drammaticamente con Obama e con Trump. Credo che abbiamo raggiunto il punto E2, “il bordo del tavolo”, nel 2018 e che da ora in poi anche un incidente relativamente piccolo potrebbe determinare un’improvvisa recessione (cioè una “catastrofe”). Tuttavia, ho deciso di verificare la situazione con l’indiscusso specialista di questo problema e così ho mandato una mail a Dmitry Orlov e gli ho posto la seguente domanda:
Nel tuo recente articolo “The Year the Planet Flipped Over” [L’anno in cui il pianeta si è ribaltato] dipingi un quadro devastante dello stato dell’Impero:
Si può già tranquillamente affermare che il piano di Trump per ripristinare la grandezza dell’America (MAGA) è un fallimento. Dietro le statistiche ottimistiche sulla crescita economica degli Stati Uniti rimane il fatto odioso che [questo dato positivo] è il risultato di un’esenzione fiscale concessa alle società transnazionali, per incoraggiarle a rimpatriare i loro profitti. Non solo non le ha aiutate (le loro quotazioni azionarie sono attualmente in forte calo), ma si è rivelata un disastro per il governo degli Stati Uniti, così come per il sistema economico nel suo insieme.
Le entrate fiscali sono diminuite, con un conseguente deficit di oltre 779 miliardi di dollari. Nel frattempo, le guerre doganali dichiarate da Trump hanno fatto crescere il deficit commerciale del 17% rispetto all’anno precedente. I piani di rimpatrio per la produzione industriale [precedentemente delocalizzata] nei paesi a basso costo sono tuttora in alto mare, perché mancano totalmente negli Stati Uniti i tre elementi chiave che la Cina aveva avuto a disposizione per la sua industrializzazione (energia a basso costo, manodopera a basso costo e bassi costi di gestione).
Il debito pubblico è già oltre il ragionevole e la sua espansione continua ad accelerare, con una previsione che, per quanto riguarda unicamente il pagamento degli interessi sul debito,  dovrebbe superare i 500 miliardi di dollari l’anno, entro un decennio. Questa traiettoria non promette nulla di buono per l’esistenza stessa degli Stati Uniti. Nessuno, negli Stati Uniti o altrove, ha il potere di cambiare questa tendenza in modo significativo. Le sbandate di Trump potrebbero aver fatto precipitare gli eventi più velocemente del normale, almeno nel senso che potrebbero aver aiutato a convincere il mondo che gli Stati Uniti sono egoisti, inoffensivi, in definitiva autodistruttivi, e generalmente inaffidabili come partner. Alla fine, non importa chi sia il presidente degli Stati Uniti, la situazione non cambia.
Tra quelli a cui il presidente degli Stati Uniti è riuscito a far più male vi sono i suoi alleati europei. I suoi attacchi alle esportazioni energetiche russe verso l’Europa, contro le case automobilistiche europee e contro gli scambi commerciali europei con l’Iran hanno provocato una gran quantità di danni, sia politici che economici, senza che potessero essere compensati da benefici reali o almeno percepiti. Nel frattempo, mentre l’ordine mondiale globalista, che una larga parte della popolazione europea sembra pronta a considerare un fallimento, inizia a sgretolarsi, l’Unione Europea sta diventando rapidamente ingovernabile, con i partiti politici governativi incapaci di formare coalizioni e sempre più populisti che escono allo scoperto.
È troppo presto per dire che l’UE ha fallito completamente, ma sembra già abbastanza certo che entro un decennio essa cesserà di essere un attore internazionale serio. Sebbene la qualità disastrosa e gli errori rovinosi della dirigenza dell’Unione Europea abbiano una grossa responsabilità, parte di essa dovrebbe essere attribuita al comportamento erratico e distruttivo del loro Grande Fratello d’oltreoceano. L’UE si è già trasformata in una entità strettamente regionale, incapace di proiettare il suo potere o mantenere ambizioni geopolitiche globali.
Lo stesso vale per Washington, che se ne andrà volontariamente (per mancanza di soldi) o verrà cacciata [a forza] da gran parte del mondo. La partenza dalla Siria è inevitabile, sia che Trump, sotto la pressione incessante dei falchi bipartisan, rinneghi o no questo impegno. Ora che la Siria dispone di una moderna forza di difesa antiaerea fornitale dalla Russia, gli Stati Uniti non mantengono più la superiorità aerea e, senza superiorità aerea, le forze armate statunitensi non possono fare nulla.
L’Afghanistan è il prossimo; è molto probabile che i Washingtoniani non saranno in grado di raggiungere un accordo ragionevole con i Talebani. La loro partenza significherà la fine di Kabul come centro di corruzione, dove gli stranieri fanno man bassa degli aiuti umanitari e delle altre risorse. Durante tutto questo processo, verrà anche ritirato quello che rimane delle truppe statunitensi dall’Iraq, dove il parlamento, irritato dalla visita improvvisa di Trump ad una base americana, ha recentemente votato per la loro espulsione. E questo danneggerà l’intera avventura americana in Medio Oriente; dall’11 settembre in poi sono stati sprecati 4.704 miliardi di dollari, per essere precisi, 14.444 dollari per ogni uomo, donna e bambino negli Stati Uniti.
I più grandi vincitori, ovviamente, sono le popolazioni dell’intera regione, perché non saranno più soggette alle vessazioni e ai bombardamenti indiscriminati degli Stati Uniti. Gli altri vincitori sono la Russia, la Cina e l’Iran, con la Russia che consolida la sua posizione come arbitro definitivo degli accordi internazionali sulla sicurezza, grazie alle sue capacità militari senza precedenti e alla sua comprovata esperienza nell’imporre la pace con metodi coercitivi. Il destino della Siria sarà deciso da Russia, Iran e Turchia, gli Stati Uniti non saranno nemmeno invitati ai negoziati. L’Afghanistan aderirà all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai.
E i più grandi perdenti saranno gli ex alleati regionali degli Stati Uniti, in primo luogo Israele, poi l’Arabia Saudita.
La mia domanda è questa: dove collocheresti gli Stati Uniti (o l’Impero) nelle tue 5 fasi del collasso e credi che gli USA (o l’Impero) siano in grado di invertire questa tendenza?
Ecco la risposta di Dmitry:
Il collasso, in ogni fase, è un processo storico che ha bisogno tempo per seguire il suo corso, perchè il sistema si adatta alle circostanze in continua evoluzione, compensa le proprie debolezze e trova modi per continuare a funzionare più o meno bene. Ma ciò che cambia all’improvviso è la fede o, per dirla in termini più aziendali, il sentimento. Un ampio segmento della popolazione o un’intera classe politica all’interno di una nazione o del mondo intero può continuare a funzionare sulla base di un certo insieme di presupposti per molto più tempo di quanto ci si aspetterebbe in base alla situazione, per poi passare, in un lasso di tempo brevissimo, ad insieme di presupposti completamente diversi. Tutto ciò che sostiene lo status quo [del sistema] al di là di questo punto è l’inerzia istituzionale. Essa impone dei limiti a quanto velocemente i sistemi possono cambiare senza crollare del tutto. Oltre quel punto, le persone tollereranno le metodiche più vecchie solo fino a quando non si sarà trovato il modo di sostituirle.
Fase 1: collasso finanziario. La fede nell’”ordinaria amministrazione” è persa.
A livello internazionale, il principale cambiamento mondiale del senso di fiducia ha a che fare con il ruolo del dollaro americano (e, in misura minore, dell’euro e dello yen, le altre due valute di riserva dello sgabello bancario globalista a tre gambe). Il mondo sta passando all’utilizzo delle valute locali, alle conversioni valutarie e ai mercati delle materie prime sostenuti dall’oro. Il catalizzatore di questa nuova consapevolezza è stato fornito dalla stessa amministrazione statunitense, che ha segato il ramo su cui stava seduta con il suo abuso di sanzioni unilaterali. L’uso del potere di controllo sugli scambi basati sul dollaro per bloccare le transazioni internazionali a lei non gradite ha costretto gli altri paesi a cercare delle alternative. Ora, un elenco crescente di paesi considera l’idea di liberarsi delle catene del dollaro americano alla stregua di un obbiettivo strategico. La Russia e la Cina usano il rublo e lo yuan per il loro commercio in espansione, L’Iran vende petrolio all’India in rupie. L’Arabia Saudita ha iniziato ad accettare lo yuan per il suo petrolio.
Questo cambiamento produce molti effetti a catena. Se il dollaro non è più necessario per il commercio internazionale, le altre nazioni non ne devono più detenere grandi quantità come riserva. Di conseguenza, non è più necessario acquistare grandi quantità di buoni del tesoro statunitensi. E quindi, non è più necessario avere grandi eccedenze commerciali con gli Stati Uniti (cioè operare praticamente in perdita). Inoltre, l’attrattiva degli Stati Uniti come mercato di esportazione cala e il costo delle importazioni verso gli Stati Uniti sale, facendo in questo modo aumentare l’inflazione al consumo. Ne segue una spirale viziosa, in cui le capacità del governo degli Stati Uniti di accendere prestiti a livello internazionale per finanziare la voragine aperta dai suoi tanti deficit risultano compromesse. Dopo vengono il default sovrano del governo degli Stati Uniti e la bancarotta nazionale.
Gli Stati Uniti possono ancora sembrare potenti, ma, con la loro terribile situazione fiscale e con il continuo diniego dell’inevitabilità della bancarotta, sembrano quasi la Blanche DuBois della commedia Tennessee Williams “A Streetcar Named Desire” [Un tram che si chiama Desiderio]. “Dipendeva sempre dalla gentilezza degli estranei,” ma era tragicamente incapace di distinguere tra gentilezza e desiderio. In questo caso, il desiderio è di avere vantaggi e sicurezza per la propria nazione, e di ridurre al minimo i rischi sbarazzandosi di un partner commerciale inaffidabile.
Quanto velocemente o lentamente questo avverrà è difficile da indovinare e impossibile da calcolare. È possibile pensare al sistema finanziario in termini di un analogo fisico, con la massa monetaria che viaggia ad una certa velocità e con una certa inerzia (p = mv) e con forze che agiscono su quella massa per accelerarla lungo una traiettoria diversa (F = ma). È anche possibile immaginarlo in termini di branchi di animali al galoppo che possono cambiare improvvisamente direzione quando vengono presi dal panico. I recenti e bruschi movimenti nei mercati finanziari, dove migliaia di miliardi di dollari, di valore unicamente teorico e speculativo, sono stati spazzati via in poche settimane, sono più in linea con quest’ultimo modello.
Fase 2: collasso commerciale. La fede nel “ci penserà il mercato” è persa
All’interno degli Stati Uniti non esistono veramente altre alternative al mercato. Ci sono alcune enclave rurali, per lo più comunità religiose, che possono autosostenersi, ma questo è un caso raro. Per tutti gli altri non c’è altra scelta che essere dei consumatori. I consumatori diventati poveri vengono chiamati “barboni”, ma continuano ad essere dei consumatori. Nella misura in cui gli Stati Uniti hanno una cultura, questa è una cultura commerciale in cui la bontà di una persona si basa sulle ‘buone’ somme di denaro in suo possesso. Una simile cultura può morire diventando irrilevante (quando tutti sono completamente rovinati) ma, a quel punto, è probabile che sia defunta anche la maggior parte dei portatori di questa cultura. In alternativa, potrebbe essere rimpiazzata da una cultura più umana, che non sia interamente basata sul culto di Mammona, magari, oserei pensare, attraverso il ritorno ad un’etica cristiana pre-protestante e pre-cattolica che ponga le anime delle persone al di sopra degli oggetti di valore.
Fase 3: collasso politico. La fede nel “il governo si prenderà cura di te” è persa.
Al momento tutto è molto oscuro, ma mi azzarderei a dire che la maggior parte delle persone negli Stati Uniti sono troppo distratte, troppo stressate e troppo preoccupate dei propri vizi e delle proprie ossessioni per prestare attenzione alla sfera politica. Di quelli che lo fanno, un buon numero sembra essere consapevole del fatto che gli Stati Uniti non sono affatto una democrazia, ma esclusivamente il terreno di gioco delle diverse elites, dove gli interessi corporativi transnazionali ed oligarchici costruiscono e abbattono castelli di sabbia.
La fortissima polarizzazione politica, in cui due partiti filo-capitalisti e bellicisti, virtualmente identici,  fingono di darsi battaglia mettendo in mostra le proprie virtù, può essere un sintomo dello stato di estrema decadenza dell’intero assetto politico: le persone vengono costrette a guardare le volute di fumo e ad ascoltare un rumore assordante, nella speranza che non si accorgano che il sistema ha smesso di funzionare.
Il fatto che un vero e proprio intrigo di palazzo (la frattura tra la Casa Bianca, i due rami del Congresso e un inquieto, macabro inquisitore di nome Mueller) sia al centro del palcoscenico ricorda stranamente diversi crolli politici avvenuti in precedenza, come la disintegrazione dell’Impero Ottomano o la caduta e la conseguente decapitazione di Luigi XVI. Il fatto che Trump, alla pari dei notabili ottomani, abbia riempito il suo harem con donne dell’Est Europeo, aggiunge una nota inquietante. Detto questo, la maggior parte delle persone negli Stati Uniti sembrano non accorgersi della vera natura dei loro padroni, un atteggiamento che i Francesi, con il loro movimento dei Giubbotti Gialli (solo per fare un esempio) non condividono affatto.
Fase 4: collasso sociale. La fede nel “la tua gente si prenderà cura di te” è persa.
Da alcuni anni sto affermando che, all’interno degli Stati Uniti, il collasso sociale ha già in gran parte terminato il suo corso, anche se la gente, in effetti, crede che la questione sia ancora tutta da chiarire. Dare una definizione della “tua gente” è piuttosto difficile. I simboli sono ancora tutti lì: la bandiera, la Statua della Libertà e una predilezione per le bevande ghiacciate e piatti abbondanti di cibi fritti e grassi, ma il melting pot sembra essersi fuso ed essere colato fino in Cina. Attualmente, negli Stati Uniti, metà delle famiglie parla in casa una lingua diversa dall’inglese e una buona parte delle altre si esprime con forme dialettali di inglese che non sono reciprocamente comprensibili con l’inglese nordamericano standard delle trasmissioni televisive e dei conferenzieri universitari.
Nel corso della loro storia come colonia britannica e poi come nazione, gli Stati Uniti sono stati dominati dall’ethnos anglosassone. Il termine “ethnos” non è un’etichetta etnica. Non si basa unicamente su genealogia, lingua, cultura, habitat, forma di governo o un qualsiasi altro singolo fattore o gruppo di fattori. Questi possono essere tutti importanti, in un senso o nell’altro, ma la possibilità di sopravvivenza di un ethnos si basa esclusivamente sulla sua coesione e sulla reciproca inclusività e sulla comunità di intenti dei suoi membri. L’ethnos anglosassone si era trovato al suo massimo subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale molti gruppi sociali si erano arruolati nell’esercito ed erano venuti a contatto con i loro membri più culturalmente preparati.
Si era liberato un potenziale fantastico quando il privilegio (la maledizione originale dell’ethnos anglosassone) era stato temporaneamente sostituito dal merito e quando agli uomini più ricchi di talento che venivano messi in congedo, di qualsiasi estrazione essi fossero, era stata data una possibilità di istruzione e di avanzamento sociale tramite il GI Bill [1]. Esprimendosi in una nuova forma di inglese americano, basato sul dialetto dell’Ohio, come Lingua Franca, questi Yanks, maschi, razzisti, sessisti e sciovinisti e, almeno nella loro mente, vittoriosi, si erano ritrovati pronti a rifare il pianeta a loro immagine e somiglianza. Avevano iniziato ad inondare il mondo intero di petrolio (la produzione  statunitense di greggio era allora al suo massimo) e con le macchine per bruciarlo. Atti così appassionati di etnogenesi sono rari ma non inusuali: i Romani che avevano conquistato l’intero bacino del Mediterraneo, i barbari che poi avevano saccheggiato Roma, i Mongoli che più tardi avevano conquistato la maggior parte dell’Eurasia e i Tedeschi che, per un brevissimo periodo, avevano posseduto un enorme Lebensraum, sono altri esempi.
E ora è il momento di chiederci: che cosa rimane oggi di questo orgoglioso ethnos anglosassone conquistatore? Ascoltiamo stridule grida femministe sulla “mascolinità tossica” e minoranze di ogni genere che tuonano contro “l’arroganza dei bianchi” e, come tutta risposta, sentiamo qualche piagnucolio, ma soprattutto silenzio. Quei fieri, conquistatori e virili Yanks che si erano incontrati e avevano fraternizzato con l’Armata Rossa sul fiume Elba il 25 aprile 1945, dove sono? Si sono trasformati in una triste sub-etnia di ragazzini effeminati e pornodipendenti, che si radono i peli pubici e hanno bisogno del permesso scritto per fare sesso per paura di essere accusati di stupro?
Gli ethnos anglosassoni diventeranno un relitto, proprio come gli Inglesi sono riusciti a rimanere aggrappati ai loro reali (che, tecnicamente, non sono nemmeno più aristocratici dal momento che ora praticano l’esogamia con il popolino)? O verranno spazzati via da un’ondata di depressione, malattie mentali e abuso di oppiacei, la loro gloriosa storia di rapine, saccheggi e genocidi sarà cancellata e le statue dei loro eroi/criminali di guerra verranno abbattute? Solo il tempo ce lo dirà.
Fase 5: collasso culturale. La fede nella “bontà dell’umanità” è persa.
Il termine “cultura” per molta gente ha significati diversi, ma è più produttivo osservare le culture piuttosto che discuterne. Le culture si esprimono attraverso i comportamenti stereotipati degli individui e sono facilmente osservabili in pubblico. Non stiamo parlando degli stereotipi negativi, spesso usati per identificare e respingere gli estranei, ma degli stereotipi positivi (in realtà, standard di comportamento culturale), che sono i requisiti principali dell’inclusione e dell’adeguatezza sociale. Possiamo facilmente valutare la sostenibilità di una cultura osservando i comportamenti stereotipati dei suoi membri.
La gente esiste come entità unica, sovrana, continua, e inclusiva o come un insieme di enclavi esclusive, potenzialmente in guerra tra loro, segregate per reddito, etnia, livello di istruzione, affiliazione politica e così via? Vedete molti muri, cancelli, posti di blocco, telecamere di sicurezza e cartelli “non oltrepassare”? La legge dello stato è applicata in modo uniforme o ci sono quartieri buoni, quartieri cattivi e zone talmente pericolose dove persino la polizia ha paura ad entrare?
Persone qualsiasi che si ritrovano insieme in pubblico entrano spontaneamente in conversazione fra di loro e si sentono a loro agio nello stare tutte insieme, o sono distanti e paurose, e preferiscono nascondere le loro facce nei piccoli rettangoli luminosi dei loro smartphone, custodendo gelosamente lo spazio personale, pronte a considerare qualsiasi intrusione come un assalto?
Le persone rimangono di buon umore e tolleranti l’una verso l’altra anche se sono sotto stress o si nascondono dietro una facciata di tesa, superficiale cortesia e vanno su tutte le furie alla minima provocazione? La conversazione è tranquilla, gentile e rispettosa o è fatta ad alta voce, stridula, rozza e ammorbata da un linguaggio volgare? Le persone si vestono bene per rispetto reciproco, o per mettersi in mostra, o sembrano tutti solo degli sciattoni decaduti, anche quelli con i soldi?
Osservate come si comportano i loro figli: hanno paura degli estranei e sono intrappolati in un piccolo mondo tutto loro o sono aperti al mondo e pronti a trattare qualsiasi straniero come un fratello o una sorella surrogata, come zia o zio, nonna o nonno, senza chiedere una qualche introduzione speciale? Gli adulti ignorano di proposito i figli altrui o agiscono spontaneamente come un’unica famiglia?
Se capita un incidente stradale, corrono volontariamente in soccorso agli altri ed estraggono i feriti prima che il veicolo esploda, o, secondo gli immortali versi di Frank Zappa, “prenderanno il telefono e chiameranno qualche buono a nulla” che “si precipiterà e farà ancora più danni”?
Se c’è un’alluvione o un incendio, i vicini accoglieranno i senzatetto o li faranno aspettare fino a che le autorità non si saranno fatte vive e li avranno portati in un qualche rifugio governativo improvvisato?
È possibile citare statistiche o fornire prove aneddotiche per determinare lo stato e la sostenibilità di una cultura, ma i vostri occhi e gli altri sensi possono darvi tutte le prove di cui avete bisogno per capirlo da soli e decidere quanta fede mettere nella “bontà del genere umano” che vedete nelle persone intorno a voi.
Dmitry ha concluso la sua replica riassumendo così la sua opinione:
Il collasso culturale e quello sociale sono ancora molto lontani. Il collasso finanziario è in attesa di un innesco. Il collasso commerciale avverrà a tappe, alcune delle quali, i deserti alimentari, p.e., si sono già verificate in molti luoghi. Il collasso politico diventerà visibile solo quando la classe politica si sarà arresa. Non è semplice dire in quale fase ci troviamo attualmente. Stanno avvenendo tutte in parallelo, in un modo o nell’altro.
La mia (totalmente soggettiva) opinione è che gli Stati Uniti hanno già raggiunto gli stadi da 1 a 4 e che ci sono segnali che indicano che la fase 5 è iniziata; sopratutto nelle grandi città, mentre i piccoli centri degli Stati Uniti e le zone rurali (la base elettorale di Trump, tra l’altro) stanno ancora lottando per mantenere le norme di comportamento che si potevano osservare negli Stati Uniti degli anni ’80. Quando ho visitatori dall’Europa, rimangono sempre stupiti di quanto siano amichevoli e accoglienti gli Americani (è vero, vivo in una piccola città nella Florida centro-orientale, non a Miami …). Queste sono le comunità che hanno votato per Trump perché avevano detto “rivogliamo indietro il nostro paese“. Ahimè, invece di restituire loro il paese, Trump lo ha regalato ai Neoconservatori …
Conclusione: unire i puntini; o no
Francamente, i puntini sono dappertutto; è veramente difficile non vederli. Tuttavia, per i superbenpensanti “automi ideologici“, essi rimangono in gran parte invisibili, e questo non è dovuto a problemi di vista, ma alla totale incapacità di questi automi di unire i puntini. Sono quel genere di persone che ballavano sul ponte del Titanic mentre la nave stava affondando. Per loro, quando arriverà l’inevitabile catastrofe, sarà una sorpresa totale e strabiliante. Ma, fino a quel momento, continueranno a negare l’evidenza, non importa quanto evidente sia diventato l’ovvio.
Nel frattempo, le élites al potere negli Stati Uniti sono avvinghiate in una orrenda lotta intestina, che indebolisce ulteriormente la nazione. Ciò che è veramente significativo è che i Democratici sono ancora bloccati dalla loro stessa leadership incompetente ed infinitamente arrogante, nonostante tutti sappiano che il Partito Democratico è in crisi profonda e che sono disperatamente necessari dei volti nuovi. Ma no, sono ancora completamente arroccati nei loro vecchi sistemi e la stessa banda di gerontocrati continua a governare l’apparato del partito.
Questo è un altro sintomo infallibile di degenerazione: quando un regime riesce a produrre solo leader incompetenti, spesso vecchi, completamente fuori dalla realtà e che danno la colpa dei propri fallimenti a fattori interni (“deplorabili”) ed esterni (“i Russi”). Ancora una volta, pensate all’Unione Sovietica sotto Breznev, al regime dell’apartheid in Sudafrica sotto F. W. de Klerk, o al regime di Kerensky nel 1917 in Russia. E’ abbastanza significativo che un leader politico che gli Anglo-Sionisti cercano di spaventare li consideri semplicemente degli “idioti di prim’ordine“, non è così?
Per quanto riguarda poi i Repubblicani, questi sono fondamentalmente una succursale del Partito Israeliano Likud. Date solo un’occhiata alla lunga lista di nullità che il Likud ha prodotto a casa sua, e avrete un’idea di cosa possono fare nella loro colonia statunitense.
Alla fine, gli Stati Uniti si riprenderanno; non ho alcun dubbio a riguardo. Questo è un grande paese, con milioni di persone di talento, enormi risorse naturali e nessuna minaccia credibile al suo territorio. Ma ciò potrà avvenire solo dopo un reale cambio di *regime* (l’opposto di un cambiamento nell’amministrazione presidenziale) che, di per sé, avverrà solo dopo un collasso da “catastrofe E2”.
Fino ad allora, staremo tutti ad aspettare Godot.
The Saker
[1] Si tratta di un programma governativo che dal 1944 offre ai veterani importanti opportunità educative e lavorative, da cui sarebbero altrimenti esclusi.
Fonte: thesaker.is
Link: https://thesaker.is/category/breaking-articles/saker-analyses-interviews/
11.01.2019
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

mercoledì 9 novembre 2016

Donald Trump presidente degli Stati Uniti: choc per i mercati, ma i veri effetti si vedranno nel medio periodo. - Paolo Fior

Donald Trump presidente degli Stati Uniti: choc per i mercati, ma i veri effetti si vedranno nel medio periodo

Wall Street aveva puntato “sull’usato sicuro” rappresentato da Hillary Clinton. Mentre il magnate è imprevedibile e quindi nell'immediato la reazione sarà negativa. Ma la sua vittoria piena potrebbe non avere un esito catastrofico nei prossimi mesi. Dal Ttip alle spese federali, dai trattati alle relazioni internazionali, ecco la linea del nuovo presidente Usa.

Ha vinto a sorpresa, contro ogni pronostico, spiazzando Wall Street che aveva puntato “sull’usato sicuro” rappresentato da Hillary Clinton e dalla sua garanzia di continuità politica con l’amministrazione Obama. La vittoria di Donald Trump, candidato repubblicano sui generis, inviso al partito repubblicano e a praticamente tutto l’establishment statunitense, ha davvero il sapore di una Brexit in salsa americana. Non solo perché ha preso in contropiede i mercati, che nella notte hanno iniziato a scivolare man mano che si materializzava lo spettro di una sua vittoria, ma anche perché ha vinto il candidato che esprime le posizioni più isolazioniste degli ultimi cinquant’anni sotto il profilo dell’economia e del commercio internazionale. Il candidato che in campagna elettorale ha ribadito in tutte le salse non solo la sua contrarietà al Ttip, il trattato di libero scambio con l’Europa che è tutt’ora in fase di negoziazione, ma anche la volontà di rimettere in discussione gli accordi già firmati come il Nafta e il Tpp.
La vittoria di Trump è dunque una doccia fredda per i mercati (almeno nell’immediato, con le borse negative in tutto il mondo) ed è altamente probabile che anche Wall Street reagisca male alla notizia alla riapertura delle contrattazioni. Diversi analisti valutano che l’impatto della sua nomina sulla Borsa si possa tradurre in una correzione del 3-6%, qualcuno si è spinto addirittura a dire dell’8-10%. Ma sarebbe sbagliato pensare che la reazione immediata della Borsa possa dare una misura dell’impatto atteso sull’economia delle politiche della nuova amministrazione: si tratta di una reazione emotiva, in questo caso dettata dal timore dell’ignoto. Trump è un personaggio controverso e imprevedibile, è un populista. Non è un politico, non ha esperienza e, in generale, le sue ricette non paiono in molti casi adeguate al governo di una grande potenza mondiale. Naturale quindi che i mercati reagiscano male.
Statistiche alla mano, però, si può dire che in meno del 50% dei casi l’andamento degli indici di Borsa nel giorno successivo all’elezione del presidente degli Stati Uniti è stato rappresentativo del trend imboccato da Wall Street nei 12 mesi successivi. E occorre anche sottolineare che la vittoria di Trump è una vittoria piena: oltre alla presidenza i repubblicani mantengono la maggioranza alla Camera e conquistano il Senato. In queste condizioni il sostegno alle sue politiche è assicurato, al netto dei problemi di bilancio e dei dissensi in seno al partito. Una situazione opposta a quella che verosimilmente avrebbe incontrato la Clinton se fosse stata eletta.
Trump arriva alla Casa Bianca forte di una leadership piena e raccoglie in eredità un Paese che si è rimesso in carreggiata dopo la tremenda crisi finanziaria del 2007-2009, con un’economia in moderata crescita, una disoccupazione ridotta ai minimi termini e Wall Street ai massimi storici. Un’eredità da maneggiare con cura, perché l’economia sta dando i primi segnali di surriscaldamento, tanto che a dicembre la Federal Reserve dovrebbe decidere l’atteso rialzo di un quarto di punto dei tassi d’interesse, preludio di una graduale inversione di tendenza della politica monetaria. E a preoccupare gli analisti è anche (se non soprattutto) l’ultima ondata di dati trimestrali che ha segnato un sostanziale rallentamento degli utili societari a fronte di una ripresa generalizzata della dinamica salariale. Stipendi più alti stimolano i consumi interni e dunque contribuiscono alla crescita dell’economia, ma dall’altro lato erodono i profitti aziendali. Il combinato disposto tra crescita dei tassi d’interesse e contrazione degli utili potrebbe dunque innescare a breve una decisa correzione sui mercati statunitensi che – come detto – sono da tempo ai massimi storici. In questo quadro delicato, che richiede un attento fine tuning per evitare di soffocare la crescita economica, l’arrivo di Trump rischia di essere dirompente, ma non necessariamente in senso negativo.
Le sue ricette di politica economica, ricette dalla forte impronta reaganiana, potrebbero avere a medio termine un effetto benefico sulla crescita, anche se nel lungo periodo possono creare gravi squilibri nei conti pubblici. Discorso che vale in particolare per la drastica riduzione delle aliquote fiscali promessa in campagna elettorale: dal 39,6 al 33% la massima aliquota individuale e, soprattutto, il taglio dal 35 al 15% delle tasse alle imprese. Una mossa che, secondo le stime del Tax Policy Center, potrebbe costare 7.200 miliardi di dollari in termini di minori entrate nei primi 10 anni e fino a 21.000 miliardi nei successivi 10 anni.
Un forte impatto sulla crescita potrebbe averlo anche il piano di investimenti in infrastrutture che da solo potrebbe valere oltre 500 miliardi di dollari l’anno. La necessità di rilanciare gli investimenti infrastrutturali era un punto in comune nei programmi di Trump e della Clinton, ma la differenza sta nel come finanziarli. Mentre la candidata democratica ipotizzava un incremento della tassazione a carico dei cittadini più abbienti e dei profitti aziendali parcheggiati all’estero, Trump ha promesso tagli alle spese federali, riduzione degli sprechi e il lancio sul mercato di emissioni obbligazionarie ad hoc. Come ulteriore stimolo, in campagna elettorale il neopresidente ha promesso una forte deregulation in molti settori, dalla finanza all’ambiente, con l’obiettivo di mettere il propulsore alla crescita, portandola dall’attuale 2% al 4% annuo. Quanto poi Trump possa realizzare queste promesse è tutto da vedere, ma nell’arco di qualche anno l’impatto teorico del pacchetto sull’economia Usa può essere significativo, anche se al prezzo di un netto peggioramento delle condizioni materiali degli americani più poveri (tra le prime cose a saltare ci sarà l’Obama care, cioè il programma di assistenza sanitaria ai più bisognosi) e delle condizioni dell’ambiente, specie se verranno cancellate le attuali normative sulle emissioni.
Un aspetto delicato della presidenza Trump sarà quello delle relazioni internazionali, in particolare in ambito commerciale. La volontà dichiarata di rinegoziare i trattati può avere ripercussioni non banali sulle imprese americane e sulla loro possibilità di accedere ai mercati qualora l’alzata di scudi isolazionista finisca con il concretizzarsi davvero, anche se pare altamente improbabile soprattutto per via del peso delle grandi lobby industriali e finanziarie che si opporrebbero con forza a mosse per loro penalizzanti. In realtà, superato lo shock iniziale della vittoria a sorpresa di Trump, occorrerà vedere quale equilibrio si creerà nei prossimi mesi con i grandi attori economici. Se è possibile che a medio termine l’economia americana tragga beneficio dal programma del nuovo presidente, è molto più incerta invece la ricaduta che queste elezioni possono avere sull’Europa e la sua economia ed è sicuro che non è una buona notizia per i Paesi emergenti, a partire ovviamente dal Messico la cui valuta ha già iniziato a subire i contraccolpi della vittoria di Trump.

venerdì 17 luglio 2015

Grecia, torna in agenda la ristrutturazione del debito di Atene. Merito dell’asse Draghi-Usa (con buona pace di Schaeuble). - Paolo Fior

Grecia, torna in agenda la ristrutturazione del debito di Atene. Merito dell’asse Draghi-Usa (con buona pace di Schaeuble)

Gli Stati Uniti spingono, Bce e Fmi insistono. Risultato: la partita (tutta politica) è riaperta proprio quando sembrava che il muro tedesco fosse invalicabile. I negoziati saranno lunghi e difficili, specie perché sul tavolo c'è una rimodulazione profonda e non un lifting di facciata. Ma già il fatto di trattare è un punto a favore del governatore centrale nonché un colpo basso alla strategia germanocentrica della Merkel.

L’offensiva diplomatica statunitense e l’arrivo in Europa del segretario al Tesoro Jacob Lew un effetto lo hanno ottenuto subito: da giovedì al centro dell’agenda economica-politica dell’Unione europea c’è la ripresa dei negoziati sulla ristrutturazione del debito greco. Non una ristrutturazione di facciata, ma una rimodulazione profonda, in grado di rendere sostenibile nel tempo il terzo bail-out di Atene. Come verrà fatta – procrastinando di decenni le scadenze, sforbiciando anche i tassi d’interesse o tagliandolo tout court, o ancora in un altro modo ancora – poco importa, le modalità tecnico-giuridiche sono un dettaglio.
Quello che conta è che nelle prossime settimane si discuterà e si deciderà su questo, anche perché i principali creditori della Grecia, vale a dire il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea, sono in piena sintonia su questa linea. La novità è soprattutto rappresentata dalle dichiarazioni del presidente della Bce, Mario Draghi, che mercoledì ha avuto un lungo incontro con Lew, e che giovedì in conferenza stampa ha detto con chiarezza due cose: che è fuori di dubbio che il debito greco vada ristrutturato e che la Grecia resta nell’euro “whatever it takes”. E’ la traduzione politica di quello che Draghi intende per difesa a oltranza della moneta unica e che emerge in tutta la sua forza con la stoccata che riserva al falco tedesco Wolfgang Schaeuble: “Non farò commenti sulle affermazioni di uomini politici”.
Lo ha detto in conferenza stampa ai giornalisti che lo interrogavano a proposito delle reiterate affermazioni del ministro delle Finanze tedesco sull’opportunità di una Grexit temporanea. In quella frase c’è più di una presa di distanza: c’è la consapevolezza istituzionale di avere un ruolo diverso che impone il dovere di guardare le cose da una prospettiva più alta. Una consapevolezza che è emersa anche in queste drammatiche settimane, con manovre sul filo di lana nel tentativo di salvaguardare l’euro, evitare strappi all’interno del board della Bce stessa, che è composto dai banchieri centrali dell’Eurozona, nel non piegarsi ai diktat e alle pretese, come quella di chiudere i rubinetti della liquidità di emergenza alle banche greche. Una storia, quella di questi giorni, che in buona parte è tutta da scrivere, a partire dalla verità sullo scontro Schaeuble-Draghi che si è consumato nel momento più caldo delle trattative con la Grecia.
La difesa dell’euro, come si è visto, non è solo un fatto tecnico che ha a che fare con le leve della politica monetaria, ma è prima di tutto un fatto politico. Le pressioni americane stanno contribuendo a rimettere in gioco la palla, tanto che giovedì, con il via libera nella notte alle prime riforme da parte del Parlamentogreco, la situazione si è sbloccata: è stato approvato il via libera a nuovi negoziati con la Grecia, sono stati sbloccati gli aiuti immediati da 7 miliardi con anche il via libera di Londra(inizialmente contraria), la Bce ha aumentato di 900 milioni la liquidità di emergenza e soprattutto ha chiesto la cessazione graduale dei controlli di capitale, e soprattutto si è iniziato a parlare di ristrutturazione del debito.
Nulla si sa di come sia finito l’incontro Lew-Schaeuble che pur si è tenuto in tardo pomeriggio a Berlino. Tra poche ore il Bundestag dovrà votare il piano di aiuti alla Grecia e, nonostante molti mal di pancia, sembra certo che passerà. I tedeschi però hanno dovuto marcare comunque il punto con Schaeuble che pur dichiarando di votare a favore ha ribadito che una Grexit temporanea non sarebbe una cattiva idea. E la cancelliera Angela Merkel che ha difeso le posizioni del suo ministro: “Trovo espressamente giusto, in una tale situazione, riflettere e decidere su ogni possibile variante”, ha detto ai parlamentari del suo partito in una riunione straordinaria prima del voto. La trattativa che si sta per aprire sarà lunga e difficile, ma qualche speranza ancora c’è.