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giovedì 17 ottobre 2019

Viva le manette. - Marco Travaglio 13 ottobre 2019

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La nostra copertina dell’altroieri, sulla bozza del ministro della Giustizia per le manette agli evasori, non è piaciuta a Gad Lerner che è personcina sensibile e l’ha riprodotta su Twitter con un commento affranto: “Manette sbattute così in prima pagina, non c’è buona causa che giustifichi questa perversione. Con tutto quel che succede nel mondo… e ora datemi pure dell’amico degli evasori”. Sotto, comera prevedibile, una raffica di leggiadre contumelie al sottoscritto e al Fatto Quotidiano (i famosi “hater” e “odiatori” che, quando odiano dalla parte giusta, diventano boccioli di rosa). Insulto per insulto, potremmo rispondere che è quantomeno inelegante, per un giornalista di un gruppo edito da due famiglie fiscalmente a dir poco discutibili, dare del pervertito a chi chiede che gli evasori vadano in galera, come in tutto il mondo civile. Ma non ci abbassiamo a tanto, anche perché non pensiamo che sia la sua frequentazione con editori-evasori a suscitare in Lerner cotanta repulsione per le manette a chi le merita. Non è un fatto personale, ma culturale. Che nasce nei due filoni del pensiero purtroppo dominante, molto diversi fra loro, ma accomunati dall’allergia al senso dello Stato e allo Stato di diritto, cioè per il principio di responsabilità: chi sbaglia paga e chi delinque viene punito.
Il primo è quello da cui proviene Gad: quello dei gruppettari di ultrasinistra anni 60 e 70, così abituati a fuggire dalle forze dell’ordine e dai magistrati da non riuscire a liberarsene nemmeno dopo 40-50 anni. L’altro è l’impunitarismo dei ricchi e dei potenti, abituati a una giustizia di classe forte coi deboli e debole coi forti, ai quali Gad è estraneo, ma che nel suo mondo hanno pescato a piene mani per sostenere sui rispettivi giornali le loro battaglie contro la legge uguale per tutti. Queste due culture, che partono dagli antipodi ma si uniscono nella comune avversione alla legalità, si sono saldate negli anni del berlusconismo, quando molti ex-extraparlamentari di sinistra (che già flirtavano con Craxi per la sua guerra ai giudici) si ritrovarono al servizio di B.. Oppure, anche se stavano sulla sponda opposta (come Gad), invocavano continue amnistie e indulti, intimando alla sinistra di guardarsi dalla “via giudiziaria”: pareva brutto che un amico dei mafiosi, un frodatore e un corruttore di giudici, finanzieri, senatori, testimoni e minorenni finisse a processo e poi in galera. Ora, confidando nella smemoratezza sulle stragi politico-mafiose e sulle retrostanti trattative, insigni esponenti di quelle due culture applaudono insieme le sentenze di Cedu e Grande Chambre contro l’ergastolo “ostativo”.
Quelle che regalano agli stragisti insperate aspettative di resurrezione. Naturalmente ciascuno è liberissimo di pensarla come gli pare. Ma è davvero paradossale che chi difende la legalità e lo Stato di diritto sia chiamato continuamente a giustificarsi dai sedicenti “garantisti” per il sol fatto di chiedere l’applicazione della legge. I “pervertiti”, caro Gad, non siamo noi: siete voi. Le manette sono uno strumento previsto dalle norme per assicurare alla giustizia i criminali: quelli di strada e quelli in guanti gialli e colletto bianco. Ti dirò di più: negli Stati Uniti, e non solo là, gli evasori e i frodatori fiscali, come i corrotti, i corruttori, i bancarottieri e i falsificatori di bilanci, vengono condannati a pene detentive molto pesanti, che regolarmente scontano nei penitenziari di Stato accanto ad assassini, stupratori, terroristi e trafficanti di droga, non solo con le manette ai polsi, ma anche con le catene ai piedi. Per evitare che scappino o che commettano altri reati (le manette salvano anche vite umane, come ha appena dimostrato la strage alla Questura di Trieste: i due agenti assassinati, se avessero ammanettato il ladro appena fermato, sarebbero ancora vivi). Ma anche perché servano di lezione a chi sta fuori, affinché gli passi la tentazione di delinquere. Perciò, non di rado, arrestati e detenuti – poveracci e white collar – vengono esibiti in manette e in catene: perché le pene, quando sono certe e vere, non finte come da noi, hanno una funzione deterrente prim’ancora che rieducativa. E quella rieducativa dipende anch’essa dalla certezza della pena: se uno sa di poter delinquere facendola franca, non si rieduca mai. Anzi si diseduca vieppiù.
Quindi no, non penso affatto che Lerner abbia orrore per le manette perché sia un evasore o un amico degli evasori. Penso che Gad e quelli come lui non abbiano senso dello Stato e non abbiano ancora introiettato il principio di responsabilità che regge lo Stato di diritto, cioè l’unica forma di convivenza civile che trattiene i cittadini dal farsi giustizia da soli come nel Far West. Non vorrei beccarmi altri tweet e insulti. Ma confesso che mi prudono le mani quando ogni anno pago fino all’ultimo euro di tasse e poi penso che, grazie al centrosinistra e al centrodestra, milioni di evasori vivono alle mie spalle senza mai rischiare la galera. E neppure un’indagine, se hanno cura di non superare le soglie di impunità gentilmente offerte nel 2015 da Renzi & C.: 250 mila euro di omesso versamento Iva; 1,5 milioni non dichiarati di frode fiscale; 150 mila euro di dichiarazione infedele; 10% di false valutazioni; 50 mila euro di omessa dichiarazione. Ecco, io questi ladri vorrei vederli in manette (e magari pure in catene), come accadrebbe se queste somme, anziché all’erario, le rubassero in un portafogli, in una borsetta, in un’abitazione, in una banca, in un negozio. Solo le manette possono spaventare gli evasori fino a indurli a rinunciare ai loro enormi guadagni per versare il dovuto allo Stato. Quindi continuerò a pubblicare manette in prima pagina finché non troverò un governo che tratta tutti i ladri allo stesso modo. O lascia rubare tutti, o non lascia rubare nessuno.


https://www.facebook.com/giberto.gnisci/posts/2941647542518768

La bavbàvie. - Marco Travaglio IFQ 17 OTTOBRE 2019.

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L’altra sera avevo appena finito di discutere a Otto e mezzo con due colleghi sulle manette agli evasori (“barbarie!”, anzi “bavbàvie!”), quando ho visto Andrea Orlando, vicesegretario del Pd ed ex ministro della Giustizia, a Cartabianca. Anche lui ripeteva la litania che aumentare le pene agli evasori per mandarli in carcere non serve a niente e non spaventa nessuno: molto più dissuasivo confiscar loro il maltolto. Ora, a parte il fatto che soltanto un mese fa il Pd ha sottoscritto un programma di governo che prevede l’aumento delle pene agli evasori, una simile sciocchezza la può sostenere solo chi non sa nulla delle norme sull’evasione, che già prevedono il sequestro e la confisca delle somme evase. E non dissuadono nessuno dal continuare a evadere. Per un motivo semplice. L’evasione, ancor più della corruzione, è un reato seriale. Nessuno evade un anno e poi basta: chi evade lo fa sempre. Ogni anno mette da parte un bel bottino a spese di quei fessi che pagano le tasse. E sa benissimo che gli accertamenti a campione toccano meno del 10% delle dichiarazioni dei redditi, quindi ogni anno ha il 90% di probabilità di farla franca. Può pure scrivere in dichiarazione “Viva la gnocca” e 9 volte su 10 nessuno se ne accorge. Se poi, una volta nella vita, ha la sfiga di essere scoperto, già sa che potrà tenersi il resto del maltolto (le vecchie evasioni cadono in prescrizione alla velocità della luce); e, quanto all’evasione accertata, lo Stato riesce a riscuotere solo il 12%. Quindi chi evade ha 12% del 10% delle probabilità di dover restituire la refurtiva: cioè l’1,2%. A questo punto, se può evadere e non lo fa è un santo da calendario. O un emerito coglione. E chi pensa di dissuaderlo con la minaccia di levargli un anno di malloppo è come chi crede di dissuadere un pesce minacciando di gettarlo nell’acqua, o una talpa di seppellirla sottoterra.
Martedì dalla Gruber il collega di Radio24 citava Mani Pulite come prova del fatto che le manette di Tangentopoli non hanno dissuaso corrotti e corruttori. Piccolo particolare: nessuno dei condannati per Tangentopoli, a parte tre o quattro sfigati, ha scontato la pena in carcere. Intanto perché le pene per la corruzione sono basse e fra sconti, attenuanti e amnistie portano a condanne perlopiù inferiori ai 3 anni (che in Italia non si scontano in galera, ma ai domiciliari o ai servizi sociali). Eppoi perché, appena partirono i processi, i governi di destra e di sinistra si attivarono per mandarli in fumo con varie leggi salva-ladri spacciate per “garantismo”. Una invalidava le prove e le confessioni raccolte dai pm. Una depenalizzava l’abuso d’ufficio non patrimoniale.
Altre allungavano i tempi dei processi. L’ex Cirielli dimezzava i tempi della prescrizione. L’indulto triennale votato nel 2006 da destra, centro e sinistra salvò i pochi condannati superstiti. Perciò le manette di Mani Pulite non dissuasero nessuno dal ricominciare a smazzettare: perché erano finte. Virtuali. Scritte nei Codici, ma mai scattate se non per brevissime custodie cautelari (e non per gli eletti, protetti dall’immunità-impunità-omertà parlamentare). Quanto alle “manette esibite in pubblico” ai tempi della “bavbavie!” di Mani Pulite, è una leggenda metropolitana: l’unico imputato di Mani Pulite ripreso in vinculis fu il dc Enzo Carra quando fu giudicato per direttissima per falsa testimonianza (e regolarmente condannato). Era – ed è – prassi delle forze dell’ordine accompagnare gli imputati detenuti dai cellulari al Tribunale con le manette ai polsi collegate da una catena per evitare fughe, atti di violenza o di autolesionismo. A quegli schiavettoni erano lucchettati ben 50 imputati, sotto gli occhi di tutti nel corridoio del Palazzo di giustizia. Poi quelli dei casi più semplici (quasi tutti spacciatori extracomunitari) furono via via sganciati per i vari processi e restò solo Carra, giudicato per ultimo. Naturalmente fece notizia e scandalo solo un caso su 50: quello del politico (“bavbavie!”). L’indomani, mentre la casta strillava alla Gestapo e alla tortura, un gruppo di detenuti di Asti scrisse una letterina alla Stampa: “Siamo tutti ladri di galline, eppure in tutti i trasferimenti veniamo incatenati ben stretti, per farci male, e restiamo incatenati in treno, in ospedale, al gabinetto, sempre. Anche noi appariamo in catene sui giornali prima di essere processati, ma nessuno ha mai aperto un dibattito su di noi. Ci domandiamo quali differenze esistano fra noi e il sig. Carra. Al quale, in ogni caso, esprimiamo solidarietà”.
Oggi come allora i garantisti all’italiana non si occupano di loro: si danno pena per i politici (sempreché siano del partito giusto: l’anno scorso Marcello De Vito del M5S fu ripreso e fotografato durante l’arresto, fra l’altro poi annullato dalla Cassazione, senza che nessuno facesse una piega o gridasse alla “bavbavie”) e i ricchi (molto popolari nel mondo dell’editoria perché pagano gli stipendi). È bastato che Conte&C. evocassero le manette agli evasori perché il consueto cordone di protezione si dispiegasse su giornali e talk show. Fiumi di parole sulla nostra copertina con le manette (“perversione”, “bavbavie”, “ovvove”!), ovviamente senza i volti dei destinatari (anche se qualcuno in mente ce l’avremmo). Gargarismi da finti tonti sulla “presunzione di innocenza”, che non c’entra una mazza, visto che non abbiamo mai titolato “Manette ai non evasori”. Balbettii benaltristi sulle “vere armi di lotta all’evasione”, che sono sempre “altre” ma nessuno dice mai quali, anche perché in tutti i Paesi civili chi evade finisce in galera senza che nessuno strilli alla “bavbavie”, e guardacaso quei Paesi hanno meno evasione di noi. Mark Twain diceva: “Se votare servisse a qualcosa, non ce lo farebbero fare”. Ecco: se il carcere agli evasori non servisse a niente, sarebbe previsto da sempre.

martedì 6 giugno 2017

‘Ndrangheta, baciamano dei cittadini di San Luca al boss Giorgi dopo cattura. De Raho: “Nessuna debolezza dello Stato”. - Lucio Musolino



Preso dai carabinieri dopo 23 anni di latitanza il mafioso era atteso sull’uscio della porta. Alcuni cittadini piuttosto che applaudire i militari per lo storico arresto si sono avvicinati come se fossero suoi fan. Il procuratore di Reggio Calabria: "I carabinieri non l’avrebbero mai permesso ma si sono trovati a muoversi in un corridoio lungo e stretto dove era difficile anche muoversi affiancati".

“Avete visto che avete preso il mostro?”. Sono le prime parole del boss Giuseppe Giorgi, uscendo dalla botola nascosta sopra il camino della sua abitazione. La latitanza durata 23 anni si è conclusa così tra baciamano dei cittadini di San Luca e complimenti che lui stesso rivolge ai carabinieri che lo hanno catturato. “Voi siete Mucci?” domanda il boss rivolgendosi al tenente colonnello Alessandro Mucci, “bestia nera” dei latitanti della Locride che per anni ha inseguito Giorgi, prima come comandante del Nucleo investigativo del Gruppo Locri dei carabinieri e poi come comandante dello stesso reparto di Reggio Calabria, coordinato dal colonnello Vincenzo Franzese. “Voi siete bravo”. Giorgi ha perso la partita e ammette di essere stato sconfitto. Ma è quello che è avvenuto dopo che dà la dimostrazione plastica di come il territorio di San Luca e la sua società sia completamente infiltrata alla ‘ndrangheta. Anche in manette, infatti, il Giorgi dà prova del suo carisma e riesce a uscire dalla sua abitazione sotto gli sguardi di ammirazione dei suoi paesani.
Ad attenderlo sull’uscio della porta, infatti, ci sono vicini di casa e parenti i quali, piuttosto che applaudire i carabinieri per lo storico arresto di un latitante che mancava all’appello dal 1994, si sono avvicinati come se fossero suoi fan. Gli hanno stretto la mano e qualcuno gliel’ha anche baciata in segno di rispetto a un boss, conosciuto come “u Capra”, accusato di associazione mafiosa, traffico di droga e ricercato in mezza Europa anche per omicidio.
Fa pochi metri, prima di salire sulla macchina dei carabinieri che lo porterà in carcere, e ci sono altre persone e bambini che vogliono salutarlo. È il “cassiere della cosca” e una stretta di mano non si rifiuta a nessuno. Scene come questa rafforzano la ‘ndrangheta in un pezzo di terra, abbandonato da tutti e dalla politica che alla prossime amministrative non ha presentato nessuna lista. Un pezzo di terra dove la mentalità mafiosa porta a riconoscere le cosche al pari delle istituzioni nonostante le operazioni antimafia degli ultimi anni che hanno stroncato le famiglie storiche di San Luca, i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari, perennemente in faida tra loro e protagoniste della cosiddetta strage di Duisburg.
San Luca è la culla della ‘ndrangheta. A queste latitudini fare le indagini sulle cosche non è mai agevole sia per il contesto ambientale che sociale che caratterizza un paesino dell’Aspromonte conosciuto come teatro di una delle più sanguinarie faide di ‘ndrangheta. Nomi e cognomi che si ripetono da decenni. Tutti imparentati tra loro e tutti in qualche modo complici o vittime di boss, gregari, trafficanti di droga e killer spietati che non hanno risparmiato neanche le donne. Ed è proprio per questo motivo che, per arrivare nell’abitazione del latitante Giuseppe Giorgi, i carabinieri si sono mossi a piedi in modo non destare sospetto neanche tra i vicini di casa che, al posto del baciamano, avrebbero potuto avvertire il latitante dell’imminente blitz.
Una volta entrati nell’abitazione, inoltre, i carabinieri hanno dovuto operare tra i parenti del boss che urlavano e si sentivano male e che non allontanato neanche i bambini durante la perquisizione. Bastava poco per provocare una reazione spropositata di qualcuno per arrestare il latitante con un bilancio ben più grave. Ciò non è avvenuto perché i carabinieri, guidati dal comandante provinciale Giancarlo Scafuri, sono riusciti a mantenere un clima sereno mentre, con professionalità, portavano a termine uno dei più importanti arresti degli ultimi anni. Anche per questo, non deve meravigliare la scena in cui il boss esce dalla botola e si complimenta con i carabinieri e con il colonnello Mucci per l’operazione che ha portato al suo arresto e che, festeggiamenti, baciamani e complimenti a parte, vuol dire una sola cosa: Giuseppe Giorgi deve scontare 28 anni di carcere, molto probabilmente al 41 bis, e uscirà dal carcere solo quando di anni ne avrà 84.
Tuttavia se un boss come Giorgi, ritenuto uno dei principali broker della droga, viene salutato come il Papa a San Pietro, anche da chi quando ha iniziato la latitanza non era ancora nato, evidentemente San Luca continua a essere il luogo dove le regole dei clan e la riverenza ai capicosca sono più forti delle leggi dello Stato, dove un boss è tale anche se in manette e destinato a passare quasi trentanni in carcere. San Luca è anche il paese dove nel 2009 la squadra di calcio è scesa con il lutto al braccio per la morte dell’anziano patriarca Antonio Pelle detto “Gambazza”, il capo crimine della ‘ndrangheta arrestato pochi mesi prima dai carabinieri del Ros all’ospedale di Polistena dov’era ricoverato per curare un’ernia strozzata. Non è la prima volta che avvengono gesti di riverenza nei confronti di boss. Solo pochi anni fa, quando a Reggio Calabria è stato arrestato il boss Giovanni Tegano, fuori dalla questura si sono riuniti centinaia di amici e familiari che hanno salutato il mammasantissima di Archi con la frase “È un uomo di pace”. Mandava i bacetti, invece, il boss Giuseppe De Stefano quando è stato catturato nel dicembre 2008.
Procuratore de Raho: “Nessuna debolezza dello Stato”
La scena del baciamano è “ignobile, ma non è certo né condivisione né tantomeno segno di debolezza dello Stato che anzi, in questa occasione, ha dato una straordinaria dimostrazione di forza” ha dichiarato all’Ansa il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho. “I carabinieri che si abbracciano felici come bambini dopo l’arresto – ha aggiunto – sono la parte più bella di uno Stato efficiente in grado di catturare un latitante“. L’episodio, secondo il capo della Dda reggina, si è verificato per il contesto particolare in cui è maturato. “I carabinieri – ha spiegato de Raho – non l’avrebbero mai permesso ma si sono trovati a muoversi in un corridoio lungo e stretto dove era difficile anche muoversi affiancati. In più è giunto al termine di una perquisizione durata oltre cinque ore nel corso delle quali i militari hanno lavorato in presenza di persone in casa che urlavano e minacciavano dicendo che non c’era nessuno. Noi, inoltre, conosciamo bene la forza militare della ‘ndrangheta, ed in quel contesto, i carabinieri erano anche impegnati a guardarsi intorno. L’importante era portare via Giorgi senza problemi ed è quello che è stato fatto”. “L’aspetto straordinario di questa vicenda – ha sottolineato il magistrato – è stata la capacità dei carabinieri, con il coordinamento della Dda, di raggiungere l’obiettivo della cattura del latitante più importante. Un risultato ottenuto con la sola capacità di indagine, senza ricorrere a confidenti. Noi, inquirenti ed investigatori, non abbiamo rapporti con la criminalità. Non intendiamo dare riconoscimenti a nessuno”. “Un risultato – ha detto ancora de Raho – raggiunto con il sacrificio di uomini e donne dell’Arma che hanno lavorato 24 ore di seguito ed anche di più perché l’importante è raggiungere il risultato. In altri Stati, al termine del servizio staccano, qua no. Quei ragazzi e ragazze sono andati avanti fino a centrare il risultato, senza guardare l’orologio. Una situazione che ho il privilegio e conoscere e condividere. Il festeggiare insieme, l’abbracciarsi è un po’ come tornare bambini, è dimostrare l’amore per il proprio lavoro. E quella è la parte più bella dello Stato“.
Il vescovo di Locri: “Boss non merita alcun rispetto”
“Colpisce questo atteggiamento verso una persona che viene portata via da casa dalle forze dell’ordine per essere arrestato” dice il vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva. Un gesto di “attenzione” e di “rispetto”: “Rispetto tra virgolette – dice il presule – perché esprime un ossequio verso il boss e dimentica quello che c’è dietro comportamenti mafiosi e criminali che non meritano alcun rispetto. Purtroppo tutto questo è sintomo di una mentalità di ossequio al mafioso di turno che sta ad esprimere l’atavica suggestione psicologica della gente verso queste persone”. “Intollerabile il bacio a mani di morte e di sofferenza. Quel gesto – dice all’Adnkronos don Ennio Stamile, referente di ‘Libera’ per la Calabria – è emblematico di una situazione che da decenni si vive in Calabria. Una vergogna intollerabile il bacio a mani di morte e di sofferenza”. Il sacerdote guarda con preoccupazione anche alla circostanza che il boss, prima di essere trasferito in carcere, sia stato omaggiato anche da bambini: “sin da piccoli si educa alla riverenza dei boss come fossero una sorta di eroi o comunque persone che producono reddito”.
Senza manette?
Nessuna debolezza?
Io ne intravedo tanta, troppa direi.
E non mi riferisco solo ai baciamano.