giovedì 19 febbraio 2015

Soprintendenza del Mare riporta alla luce 39 lingotti di Oricalco.



Risalgono a 2600 anni fa. Per Platone era il misterioso metallo di Atlantide.

GELA. La Soprintendenza del Mare  riporta alla luce 39 lingotti di Oricalco: risalgono a 2600 anni fa. Per Platone era il misterioso metallo di Atlantide. 
Un tesoro ripescato nel litorale di contrada “Bulala” nel mare di Gela, in una zona che in passato ha restituito i resti di ben tre navi arcaiche. 
All’interno di un relitto databile alla prima metà del VI secolo a. C., 39 lingotti di un materiale nobile, l’Oricalco, simile al moderno ottone, noto nell’antichità come metallo prezioso, tanto da essere considerato al terzo posto per valore commerciale, dopo oro e argento. Secondo le analisi effettuate con “fluorescenza a raggi X” da Dario Panetta della TQ (Thecnology for Quality) con sede a Genova, ciascun esemplare è frutto di una lega di metalli composta per l’80% di rame e per il 20% di zinco e realizzata con tecniche avanzate, la cui lavorazione, i coloni geloti di origine rodio-cretese avevano appreso molto probabilmente dai Fenici. 
Platone parla dell’Oricalco come di un metallo misterioso presente in Atlantide e di elevato valore «a quel tempo il più prezioso dopo l’oro» e che le mura che comprendevano la cittadella ove insisteva il tempio di Poseidone a Clito «risplendevano con la rossa luce dell’Oricalco». Infine che “L’Oricalco, quel metallo che ormai si sente solo nominare, allora era più che un nome, ed era estratto dalla terra in molti luoghi dell’isola”.
I primi ad individuare i preziosi reperti nel mare di Gela sono stati i volontari dell’associazione ambientalista «Mare Nostrum» diretta da Francesco Cassarino. Il recupero è avvenuto con una squadra di sommozzatori della Capitaneria di Porto, della Guardia di finanza e della Soprintendenza del Mare.
I lingotti di Oricalco erano in arrivo a Gela, provenienti verosimilmente dalla Grecia o dall’Asia Minore, quando la nave che li trasportava affondò forse per il maltempo. Il rinvenimento dimostra la ricchezza di Gela in epoca arcaica, circa 100 anni dopo la sua fondazione del 689 a.C. ad opera di Antifemo e Eutimo, nonché  la presenza di ricche e specializzate officine artigianali per la produzione di oggetti di grande valore estetico. La presenza di Oricalco a Gela potrebbe connettersi con l’origine rodia della città. Non è trascurabile il fatto che gli antichi Greci indicavano in Cadmo (figura mitologica greco-fenicia) l’inventore del prezioso metallo. I 39 lingotti pregiati sarebbero stati destinati a un artigianato locale di alta qualità, per decorazioni di particolare pregio.
“Il rinvenimento di lingotti di Oricalco nel mare di Gela apre prospettive di grande rilievo per la ricerca e lo studio delle antiche rotte di approvvigionamento di metalli nell’antichità mediterranea. Finora nulla del genere era stato rinvenuto nè a terra nè a mare. Si conosceva l’Oricalco attraverso notizie testuali e pochi oggetti ornamentali. Inoltre si conferma la grande ricchezza e capacità produttiva artigianale della città di Gela in epoca arcaica come area di consumo di oggetti di pregio. L’Oricalco era, infatti, per gli antichi un metallo prezioso la cui invenzione produttiva attribuivano a Cadmo. Si pone come ora necessario lo scavo del relitto cui appartengono i lingotti poiché è certo che si tratta di un carico di grande importanza storico-commerciale per aggiornare la più antica storia economica della Sicilia." - ha affermato il Soprintendente del Mare, Sebastiano Tusa.

L’olio di fegato di merluzzo previene il tumore: merito di un particolare Omega-3.

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Usato soprattutto in passato contro il rachitismo, l'olio di fegato di merluzzo si è mostrato utile nella prevenzione del tumore nella poliposi familiare.

Assumere l'olio di fegato di merluzzo non era un piacere per il gusto, ma, assicuravano i genitori, "fa bene". 
La motivazione poteva non apparire convincente, ma oggi quell'usanza in disuso acquista maggiore forza grazie allo studio condotto dal gastroenterologo Luigi Ricciardiello presso l'Università Sant'Orsola di Bologna. 
Il ricercatore, tornato in Italia dopo gli studi sulle alterazioni molecolari nel cancro colonrettale a San Diego e le sperimentazione chemioterapiche nel University Medical Center di Dallas, ha messo in evidenza i benefici di un particolare Omega-3, contenuto in merluzzo, sardine, sgombri e salmone), capace di ridurre il fattore di rischio di chi soffre di poliposi familiare, una malattia che causa polipi al colon che, se non rimossi attraverso colonscopia, evolvono in tumori
Lo sviluppo maligno, nel caso di poliposi acuta, è prossima al 100%, mentre quella attenuata causa tumori nel 50-80% dei casi, a seconda della gravità. 
Il Corriere.it ha raccolto la testimonianza di una delle volontarie sulle quali il ricercatore italiano ha testato gli effetti del particolare acido grasso. 
Il soggetto, una donna di 45 anni periodicamente costretta a sottoporsi a colonscopia, ha sottolineato che, da quando ha cominciato ad assumere due anni fa l'integratore a base del particolare Omega-3, è stata sottoposta ad una sola operazione che le ha tolto un polipo di tre millimetri. 
Il risultato, confrontato con un passato in cui le operazioni erano molteplici e finalizzate sempre ad asportare più polipi, è stato sorprendente.

Se in passato l'olio di fegato era considerato un toccasana contro il rachitismo, oggi le sue virtù si estendono, poiché, secondo il recente studio, previene il tumore del colonretto, spegne gli stati infiammatori cellulari e permette di contrastare il colesterolo a bassa densità (quello "cattivo"). 
Tornerà dunque il cucchiaio di olio di fegato di merluzzo? 
Forse non è necessario, poiché, ricorda ancora Ricciardiello al Corriere.it, potrebbe essere sufficiente correggere le proprie abitudini alimentari: "pesce 2-3 volte la settimanapoca o nulla carne, drink di polifenoli e antocianine (abbondanti nelle arance), verdure. Quasi il 70% dei tumori potrebbe essere prevenuto se tutti avessimo stili di vita corretti".

La pericolosissima fuffa di Renzi. - Andrea Scanzi



Ieri, visitando la General Motors a Torino, Renzi ha detto tra le altre cose: “L’Italia è da sempre la terra in cui il domani arriva prima. L’industria della lagna non è vincente”. 

Rileggete bene: 

la terra in cui il domani arriva prima"
l’industria della lagna“. 

Ma cosa dice? 
Come parla? 
Che roba è? 
Gliel’hanno tolto il ciuccio dal cervello? 
Se un mio compagno all’asilo avesse proferito banalità simili, gli avrei prontamente consigliato di comprare il 45 giri di Cicale di Heather Parisi per darsi un tono intellettuale. 

Questo qua non solo non è un bimbo che fa l’asilo, anche se dallo sguardo e dalla faccia sembrerebbe, ma è pure Presidente del Consiglio. 
La sua pochezza contenutistica è sconfortante. 
Ambirebbe ad avere una narrazione kennedyana, ma ricorda al massimo i testi di Kekko dei Modà. 

Nel frattempo, tra un tweet e l’altro, lui e i suoi bastonano tutto quel giornalismo che non è disposto a celebrare questa ghenga composta – quasi sempre – da arroganti presuntuosi e impreparati: per esempio Il Fatto, per esempio Milena Gabanelli, per esempio Piazzapulita

Proprio come il suo amico Silvio. 

Non è Renzi a essere pericoloso in sé, anzi larga parte di quel che fa induce al ridicolo. 
Al ridicolo e al patetico. 
Renzi non può fare paura, altrimenti toccherebbe aver timore di Jerry Calà o dei Gormiti. 
A essere pericoloso è questo mix tra la pochezza sconfinata e il ruolo che riveste: come dare una Lamborghini in mano a un poppante. 
Poveri noi.

http://www.andreascanzi.it/?p=3028

Libia, analista: “Intervento costerebbe un miliardo e attirerebbe orde di jihadisti”. - Enrico Piovesana .

Libia, analista: “Intervento costerebbe un miliardo e attirerebbe orde di jihadisti”

Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa: "Per la missione in Afghanistan al suo picco, con 4.700 uomini, lo Stato spendeva oltre 800 milioni l’anno". Non solo: "Far sbarcare soldati occidentali in Libia attrarrebbe in quel paese fondamentalisti da tutta la regione, che verrebbero a combattere i crociati come mosche attratte dal miele.”

La scorsa settimana il governo Renzi ha decretato un rifinanziamento per le missioni militari all’estero da 750 milioni di euro fino a settembre. Oggi le missioni militari all’estero ci costano all’incirca un miliardo di euro all’anno, vale a dire 2,7 milioni al giorno. Con la missione il Libia questo costo raddoppierebbe. “Una missione libica da 5mila uomini costerebbe almeno un miliardo di euro l’anno – spiega Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it - tenuto conto che quella in Afghanistan al suo picco, con 4.700 uomini, costava oltre 800 milioni l’anno, e non comprendeva nessun dispositivo navale, né carri armati e artiglieria pesante, che invece in questo caso sarebbero necessari”.
Ma il problema non è solo economico. Sottolineando come parlare oggi di un intervento in Libia sia “puramente accademico, finché non si capirà se ci sarà una missione internazionale, chi vi prenderà parte e quali obiettivi avrà”, Gaiani ritiene altamente rischioso, se non controproducente, l’invio di truppe occidentali in terra libica. “Far sbarcare soldati occidentali in Libia attrarrebbe in quel paese orde di jihadisti da tutta la regione, che verrebbero a combattere i crociati come mosche attratte dal miele”, spiega Gaiani descrivendo uno scenario bellico che mescolerebbe il peggio delle esperienze somala, irachena e afgana, nel quale rischieremmo di finire impantanati per anni, con perdite altissime e risultati tutt’altro che scontati. “L’Italia – si chiede il direttore diAnalisifesa.it – è pronta a imbarcarsi in un’impresa del genere, in una guerra vera e propria?”.
Un’impresa che richiederebbe un contributo di truppe molto alto a tutte le nazioni dell’eventuale coalizione militare, soprattutto se, come sembra chiaro, questa volta non ci saranno gli Stati Uniti a guidare la missione fornendo il grosso dei soldati. Sicuramente più dei 5mila uomini di cui ha parlato la Pinotti, che però, come spiega Gaiani, rappresentano il limite massimo di impiego per le nostre forze armate.
“Per combattere una guerra vera non potremmo certo mandare la fanteria leggera come in una normale missione di peacekeeping: servirebbero forze addestrate ed equipaggiate in maniera adeguata”, dice Gaiani. “Considerando le altre missioni in corso e le esigenze di avvicendamento dopo sei mesi di schieramento, si potrebbe arrivare a quella cifra impiegando l’intera brigata Folgore, da mesi in riserva strategica proprio in vista di un impiego in Nord Africa, più la nuova forza da sbarco della brigata San Marco e una consistente aliquota di forze speciali”.
Le truppe italiane attualmente impegnate nelle altre missioni all’estero sono 4mila (1.100 in Libano, 850 in Afghanistan, 500 in Iraq, 500 nei Balcani, 330 in Gibuti e Somalia, 240 nell’Oceano Indiano, 170 nel Mediterraneo e altre 200 e passa tra Egitto, Repubblica Centrafricana, Palestina, Malta, Mali,Georgia, Cipro, India/Pakistan e Marocco) e scenderanno a 3.500 a fine anno con il ritiro quasi completo dall’Afghanistan. Considerando che il massimo schieramento recente di truppe italiane all’estero è stato di 8.500 uomini nel 2010, la differenza risulta proprio di 5mila uomini.

Addio epatite C: ecco i farmaci gratuiti per 15mila persone.


Serviranno a dire definitivamente addio all’epatite: ecco i farmaci gratuiti per 15mila persone che saranno garantiti da un fondo già stanziato dal ministero della Salute.

Ora è ufficiale, l’Italia ha stanziato un fondo da un miliardo e mezzo di euro previsto dalla legge di Stabilità per mettere a disposizione di 15mila italiani quattro farmaci contro l’epatite C che verranno distribuiti gratis.

Nonostante la carenza di fondi che non consente una copertura totale, a causa dell’elevato costo dei trattamenti, l’investimento sui farmaci porterà al Servizio sanitario nazionale un grande risparmio, che consentirà di cancellare il virus nell’80 per cento dei casi. Guarire dall’epatite C 15 mila pazienti, significa infatti evitare i problemi legati all’infezione, come cirrosi, tumori e complicazioni anche mortali, per un risparmio calcolato in un miliardo l’anno tra ricoveri e trapianti evitati.

In Italia ci sono oggi oltre 300 mila pazienti con epatite C e patologie correlate che generano un costo complessivo per il Sistema sanitario nazionale di oltre un miliardo di euro all'anno. Perciò, chiarisce Francesco Mennini, dell'Università Tor Vergata di Roma, direttore del Centro per la valutazione economica, “l'introduzione di nuovi farmaci che permettono la guarigione dalla patologia può diventare un elemento importante anche dal punto di vista economico”.

“Siamo a una svolta epocale. È come passare dalla radio a internet“, commenta il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin.  Ma non tutto fila liscio, perché le associazioni come Epac, stanno registrando casi di inadempienza in alcune regioni come Campania, Calabria e Sicilia che ostacolano la somministrazione gratuita del farmaco agli ammalati

Farmaci anti epatite C: c’è anche il Simeprevir

Dopo il Sofosbuvir, il primo farmaco di nuova generazione arrivato in Italia a ottobre che guarisce l’epatite C nella quasi totalità dei casi, entro questa settimana sarà disponibile anche il secondo ritrovato, chiamato Simeprevir che precede l’approvazione di altri farmaci similari ancora in attesa della definitiva approvazione.

Il Simeprevir, prodotto in Italia dalla Jansenn Italia, avrà inoltre ricadute positive anche sull’occupazione: si parla di 80 milioni di euro dal 2016 al 2021. Si tratta della prima terapia combinata orale, senza interferone che, insieme al Sofosbuvir, ha rivelato percentuali di guarigione dal virus anche del 90 per cento.

Il nuovo farmaco avrà le sembianze di una comune compressa da assumere per via orale che dopo un lungo periodo di trattamento, debellerà nel paziente in modo permanente il virus dell'epatite c.

Emissioni, le energie rinnovabili europee stanno riducendo la CO2.

  • Emissioni, le energie rinnovabili europee stanno riducendo la CO2

  • Senza l’uso delle green energy, dal 2005 al 2012 il consumo di combustibili fossili nella UE sarebbe stato superiore di circa il 7%.

  • (Rinnovabili.it) – Senza l’impiego delle energie rinnovabili, dal 2005 al 2012 in Europa le emissioni di gas a effetto serra sarebbero cresciute di oltre il 7%, rispetto ai valori effettivi. A rivelare il percorso di decarbonizzazione avviato dall’energia pulita è oggi l’Agenzia Europea dell’Ambiente nel rapporto “Renewable energy in Europe – approximated recent growth and knock-on effect”. Il documento, come riporta il titolo stesso affronta gli effetti a catena innescato dalla crescita delle fonti alternative e spiega come le tecnologie verdi  in questi anni abbiano aumentato la sicurezza energetica, ridotto le emissioni e posizionato l’Unione in una posizione di leadership sul fronte ambientale. Nel dettaglio gli autori del documento spiegano che senza l’uso delle energie rinnovabili, nei sette anni in questione, il consumo di combustibili fossili nella UE sarebbe stato superiore di circa il 7%. Fotovoltaico, eolico ed idroelettrico hanno fatto le veci soprattutto del carbone, rimpiazzandone il 13% del consumo, mentre in loro assenza l’uso del gas naturale sarebbe stato superiore del 7%. “L’energia rinnovabile – ha dichiarato Hans Bruyninckx, direttore esecutivo dell’AEA – sta rapidamente diventando una delle grandi storie di successo europee, ma possiamo andare ancora oltre: se sosteniamo l’innovazione in questo settore, le rinnovabili potrebbero diventare un importante motore dell’economia europea, abbattendo le emissioni e creando posti di lavoro.

    L’energia rinnovabile non è stato però l’unico fattore di riduzione delle emissioni di gas serra in Europa. Hanno contribuito anche le politiche e le misure volte a ridurre la CO2 e migliorare l’efficienza energetica. In base alle stime pubblicate dall’Agenzia, il consumo finale di energia da fonti rinnovabili è aumentato in tutti gli Stati membri nel 2013. A livello comunitario, la quota di green energy è arrivata a quasi il 15%, di due punti percentuali sopra al target fissato dalla direttiva sulle energie rinnovabili. In Svezia, Lettonia, Finlandia e Austria le fonti alternative hanno rappresentato più di un terzo del consumo energetico finale nel 2013, prime di una classifica che vede invece agli ultimi posti: Malta, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito (tutti inferiori al 5%).

mercoledì 18 febbraio 2015

Libia, l’Italia fa affari su export armi. Ma il Parlamento non ne parla da 8 anni. Thomas Mackinson

Libia, l’Italia fa affari su export armi. Ma il Parlamento non ne parla da 8 anni

L'ultima Relazione al Parlamento certifica il record dell'export di sistemi d'arma in Medio Oriente e Nord Africa. Così, indirettamente, l'Italia alimenta la guerra e anche i ribelli dell'Is che conquistano posizioni e arsenali. Poco o nulla ne sanno i politici chiamati a deliberare un eventuale intervento: il documento (1672 pagine l'ultimo) che viene trasmesso alle Camere non viene discusso dal 2008.

Gheddafi non era ancora morto quando l’inviato del Corriere della Sera metteva piede nel suo bunker e scriveva: “Nelle stanze adibite ad arsenali militari ci sono le scatole intatte e i foderi di migliaia tra pistole calibro 9 e fucili mitragliatori, tutti rigorosamente marca Beretta. A lato, letteralmente montagne di casse di munizioni italiane”. Non è più un segreto per nessuno: l’Italia che oggi si interroga in chiave anti Is sull’opzione militare in Libia ha armato fino ai denti il regime e probabilmente le fazioni di ribelli che l’hanno fatto cadere. Indirettamente ha rifornito pure gli jihadisti, che ora quelle armi se le prendono a forza mentre avanzano dalla Cirenaica alla Tripolitania. Ma in Parlamento quasi nessuno lo sa. I politici italiani poco o nulla discutono e sanno di sistemi d’arma e di forniture militari, e tuttavia sono gli stessi che presto potrebbero essere chiamati a prendere una decisione su un eventuale intervento delle Forze armate, con tutte le conseguenze del caso per gli italiani e la sicurezza nazionale.
A denunciarlo è la Rete Italiana per il Disarmo che domani, presso la sala stampa della Camera dei Deputati, insieme ad altre associazioni pacifiste lancerà un appello contro la soluzione militare e contro la politica che sempre asseconda il grande business dell’industria bellica nazionale. Com’è noto, il governo deve produrre annualmente una Relazione sulle esportazioni di sistemi militari e inviarla alle camere. L’ultima, quella relativa al 2013, è stata inviata a giugno dell’anno scorso ed è un malloppo di 1672 pagine (leggi). E’ un documento di non facile lettura e infatti nessuno, a quanto pare, lo legge. “Le informazioni che riporta – spiega Giorgio Beretta – sono così generiche, incomplete o aggregate che non si riesce a capire a chi in definitiva finiscano le nostre armi, verso quali paesi il governo abbia autorizzato le aziende all’esportazione, di quali specifici sistemi militari, per quale quantità e valore. Viene indicato il numero di elicotteri esportati, ma non specificato se si tratta di mezzi per il soccorso venduti alla Guardia Marina o un Mangusta d’attacco. Così le navi, non puoi sapere se è un mezzo per lo sminamento o una nave anfibio d’attacco come quella che abbiamo venduto all’Algeria”. I parlamentari potrebbero però chiedere delucidazioni a chi redige il documento, ai ministeri degli Esteri, della Difesa e del Tesoro. Ma raramente lo fanno, e la ragione è “disarmante”.
Quella documentazione infatti non viene neppure discussa nelle competenti commissioni di Camera e Senato (Affari costituzionali, Esteri, Industria, Difesa e Finanze), nonostante la legge preveda che ciò avvenga entro 30 giorni dalla trasmissione del testo. “Sono otto anni, dal 2008 a oggi, che le Commissioni parlamentari non prendono neppure in esame queste Relazioni. Solo ora, dietro nostre insistite sollecitazioni, si comincia forse a discuterne”, spiega Beretta. “E’ un fatto preoccupante: il Parlamento deve tornare a esercitare un adeguato controllo sulle attività dell’esecutivo in una materia che tocca direttamente la politica estera e la sicurezza nazionale. Deve verificare se queste esportazioni corrispondono alla politica estera e di difesa del nostro Paese o se, invece, non siano soprattutto dettate dall’esigenza di incrementare gli ordinativi a favore delle industrie militari, in particolare di quelle a controllo statale come Finmeccanica”.
E che cosa dice l’ultima relazione sull’export di armi? Che il conflitto, finché non bussa alle porte, fa bene all’Italia. Per quanto opaco e approssimativo, il documento certifica che nel 2013 non c’è stato alcun crollo nelle esportazioni di sistemi militari italiani come sovente sostenuto dalle imprese e da ambienti della Difesa: sono stati infatti spediti nel mondo armamenti made in Italy per oltre 2,7 miliardi di euro (€2.751.006.957), cioè solo poco meno della cifra-record realizzata nel 2012 (€2.979.152.816): un calo quindi (del 7,7%) ma non certo un “crollo”. E dunque l’Italia che vuole imporre la pace nel mondo continua ad armarlo alla guerra. C’è di più: nel 2013 si è registrato un record di autorizzazioni e di esportazioni di sistemi militari proprio nella zone di maggior tensione del mondo. Su un totale di 2,1 miliardi di euro di esportazioni autorizzate, oltre un terzo (709 milioni) sono state rilasciate ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Anche il 29,4% dei sistemi d’armamento, per una cifra pari a 810 milionidi euro, sono stati effettivamente esportati verso questi paesi e nelle zone più calde e conflittuali. Un record ventennale, si diceva, che la Relazione omette però accuratamente di segnalare ai Parlamentari. Casomai, è inteso, la leggessero.