lunedì 7 settembre 2015

Stonehenge, scoperto un altro centro cerimoniale sotterraneo. Potrebbe essere ancora più antico.




Il sito è pochi metri sotto il complesso di Durrington Walls, vicino allo storico simbolo del celtismo. "Questo cambia tutta la nostra conoscenza archeologica dell'Europa preistorica".

Stonehenge, il sito neolitico usato dai druidi per i riti celtici vicino ad Amesbury nello Wiltshire, in Inghilterra, ha un “nuovo” rivale. A circa tre chilometri, in una località chiamata Durrington Walls, è stato scoperto un altro centro cerimoniale risalente all’età della pietra. I monoliti, risalenti a circa 4.600 anni fa, sono stati individuati con tecniche radar e non sono ancora stati dissotterrati.
La scoperta è stata annunciata al British Science Festival dell’Università di Bredford dal professor Vince Gaffney, capo della squadra di esperti che ha lavorato alla ricerca. Pochi metri sotto Durrington Walls si trovano oltre 90 megaliti la cui altezza doveva essere circa quattro metri e mezzo e che componevano una sorta di arena a forma di C. Il complesso di Durrington Walls, che misura più di 1,5 km di circonferenza ed è circondato da un fosso profondo circa 17,6 m, secondo alcuni archeologi era complementare a Stonehenge, secondo altri, trai due, non c’era nessun collegamento.
La nuova struttura è stata individuata dallo Stonehenge Hidden Landscapes Project, realizzato dall’Università di Birmingham e dal dipartimento di prospezione archeologica e archeologia virtuale dell’Istituto Ludwig Boltzmann. I monoliti sono stati scoperti dal team utilizzando tecniche non invasive come i radar trainati da quad.
Gli studi dell’area intorno a Stonehenge in passato avevano portato gli archeologi a credere che solo questo sito avesse delle strutture di pietra “studiate”. Ma la storia potrebbe dover essere riscritta: ora ci sono le prove di una precedente fase di Durrington Walls che include la nascita dei monoliti appena scoperti. Anche la loro conservazione è unica ed eccezionale nell’archeologia britannica.
“Questa scoperta ha implicazioni significative per la nostra conoscenza di Stonehenge e la sua conformazione territoriale – spiega Gaffney – le prove non solo dimostrano un’inaspettata fase dell’architettura monumentale dell’Europa preistorica, ma il sito potrebbe essere contemporaneo a Stonehenge, se non precedente. Siamo davanti ad uno dei più grandi monumenti di pietra d’Europa. E’ davvero notevole, non pensiamo ci sia nulla di simile in nessun’altra parte del mondo”.

domenica 6 settembre 2015

Treni sulle ali del vento: presto sarà attiva in Olanda la prima ferrovia a energia eolica.

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Il progetto "verde" verrà completato entro il 2018 grazie a impianti locali, belgi e scandinavi che forniranno al sistema ferroviario 1,4TWh di elettricità.


 L'Olanda si prepara a realizzare un nuovo ambizioso progetto nel settore delle rinnovabili: attivare entro il 2018 la prima rete ferroviaria alimentata esclusivamente da energia eolica. L'elettricità prodotta dal vento arriverà da impianti olandesi, ma anche dal Belgio e dai Paesi scandinavi. Gli impianti eolici tuttora attivi forniscono già la metà dell'energia richiesta dalla rete ferroviaria elettrica che ogni giorno viene utilizzata da 1,2 milioni di passeggeri.

L'accordo che porterà alla messa a punto del progetto è stato siglato nei giorni scorsi dalla compagnia energetica olandese Eneco e dalla cooperativa Vivens. Ma questo non è certo l'unico esempio di investimento nel settore delle rinnovabili per i Paesi Bassi. Recentemente, infatti, Rotterdam ha annunciato di voler costruire strade di plastica riciclata e un "mulino a vento" di ultima generazione per alimentare il porto. L'anno scorso a Krommenie è stata invece inaugurata la prima pista ciclabile solare

Secondo Michel Kerkhof, account manager di Eneco, questa soluzione potrebbe rivoluzionare l'impiego di energie rinnovabili nel settore ferroviario e in altre industrie primarie. "I trasporti - spiega - sono responsabili del 20% delle emissioni di CO2 in Olanda". Gli impianti eolici forniranno al sistema ferroviario 1,4TWh di elettricità - cioè 1,4 bilioni di wattora, l'equivalente di quanto consumato dalle abitazioni della sola Amsterdam.


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sabato 5 settembre 2015

LA DISTRUZIONE DEL TEMPIO DI BAAL A PALMIRA: UNA LETTURA GEOPOLITICA. - Piotr



Quando visitai il tempio di Baal a Palmira rimasi affascinato e commosso.

Era l'anno prima dell'inizio della cosiddetta (dai nostri media e intellettuali) "rivolta anti Assad", ovvero l'attacco imperiale con mercenari tagliagole alla Siria.
E tagliagole lo sono. L'ultima gola tagliata è stata quella di Khaled al-Asaad, ottuagenario direttore dei siti archeologici di Palmira.
Dopo la sua decapitazione l'ISIS ha distrutto il tempio di Baal. Me lo aspettavo da tempo. Lo hanno fatto ieri.
Chi non lo ha già visto non lo vedrà mai più.

Non è solo fanatismo. Si usa il fanatismo per uno scopo preciso: fare della storia di una nazione, della sua cultura, un ammasso di macerie

Letteralmente.

L'impero in difficoltà, e pertanto pericolosissimo, non vuole davanti a sé nazioni, civiltà, società strutturate e potenzialmente solidali (e qui i devoti della religione laicista, quella del genitore 1 e genitore 2, devono riflettere molto). Sono di ostacolo, anche quando non sono direttamente "competitor". Perché coi competitor possono allearsi o anche solo rimanere neutrali e quindi ostacolare le manovre imperiali di aggiramento, avvolgimento, conquista e minaccia.
Così le civiltà devono essere ridotte a macerie e con esse la bellezza dei loro lasciti.
Se si guardano i tempi storici si vedrà che in Occidente si era appena fatto in tempo ad arrivare al concetto di "patrimonio dell'umanità" che quel patrimonio è incominciato ad essere sistematicamente distrutto.
Tra un po' il nome di Gertrude Bell diverrà familiare, per via di un film, "La regina del deserto", che Werner Herzog ha appena fatto, con protagonista Nicole Kidman.
Gertrude Bell era una dottissima spia inglese dell'Oriental Office, collega di Lawrence d'Arabia durante la I Guerra Mondiale e gli anni successivi.
Ebbene, l'agente inglese Gertrude Bell oltre all'Iraq, fondò anche il museo di Baghdad. In altri termini, l'impero inglese, pur tombarolo e narcotrafficante (guerre dell'oppio), fondò l'Iraq e il Museo Nazionale Iracheno.
Qualche decennio dopo, un altro impero, quello statunitense, scagliò le sue truppe contro la nazione fondata dagli Inglesi e con l'aiuto di esperti al proprio seguito depredò quel museo. Come si sa, alla notizia della prossima invasione la ricca committenza aveva stilato una lista di tesori di ogni tipo da trafugare. Così gli Stati Uniti oltre che narcotrafficanti (Afghanistan e Colombia) si sono dimostrati anche feroci tombaroli, peggiori dell'impero precedente.
Insomma, le crisi sistemiche scatenano guerre. E' sempre stato così. Ma queste, come le potenze che le scatenano, non sono sempre uguali. C'è una marcia verso il peggio e per un motivo preciso. Perché le crisi sono sempre più lunghe, i periodi di sviluppo sempre più brevi e gli ostacoli da superare e le risorse per superarli per venirne a capo sempre più grandi, enormi.
Così l'Occidente americanizzato oltre che post-moderno e post-industriale sta diventando anche post-civile. La civiltà occidentale che abbiamo conosciuto ha avuto una lunga gestazione e il suo pieno sviluppo è durato poco più di due secoli. Un niente nei tempi storici. Un lungo periodo per noi che ne stiamo vedendo con spavento, dolore e nostalgia la fine dopo averne vissuto l'apogeo.
Ci sarebbe da discutere a lungo su un impero ipertecnologico che utilizza una narrazione mitica, il fondamentalismo islamico, per distruggere le basi mitopoietiche che sono alla radice della civiltà umana. Un discorso interessante ma lungo.
Per ora accontentiamoci di vedere cosa dice, a seguito delle contestate nomine Dario Franceschini ai musei italiani, Jean Clear, ex direttore di importanti istituzioni artistico-culturali come la Biennale, il Beaubourg e il Museo Picasso:

«Prima di tutto ho paura che non si rispetti l'identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata[.].Il fatto che molti dei prescelti siano stranieri è in sé un fatto positivo, se non fosse che dovranno operare dentro musei ridotti a macchine per incassare soldi[.].L'idea del neo direttore tedesco degli Uffizi, Eike Schmidt, di dare in affitto delle stanze della galleria segna l'inizio della fine. O piuttostola continuazione di una decadenzadella quale lui stesso sarà il responsabile finale[.].I musei sono utilizzati come riserve auree per dar credito a operazioni di manipolazione finanziaria, forniscono quel deposito che dà pregio alle proposte del mercato privato[.].Viviamo nel tempo dell'arte cloaca. Il museo è il punto finale di un'evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza precedenti.Il crollo della nostra civiltà».
Parola di esperto (su "La Repubblica", sottolineature mie).
La crisi sistemica non solo distrugge tutto ciò che può al di fuori del mondo occidentale, ma oramai porta all'autocannibalizzazione dell'Occidentestesso.
La sinistra, dal canto suo, si è da tempo autocannibalizzata i propri ideali.
Il semicolto medio di sinistra si chiederà infatti un po' accigliato: «La fa facile, questo francese. Ma dove li pendiamo i soldi per i musei?».
A parte che il budget per i musei (e per la cultura) è già ora ridicolo, proporrò un piccolo quesito aritmetico. L'ultimo "salvataggio" della Grecia prevede 86 miliardi di euro. Di questi 79 serviranno per pagare i precedenti interessi e a ricapitalizzare le banche così che possano continuare nelle loro speculazioni "levantine" in combutta con le teutoniche banche tedesche. Domanda: quanti miliardi rimangono? Ne rimangono 7, che non andranno al welfare, ai trasporti, alla sanità, all'istruzione e allacultura(che sono cose che devono essere privatizzate -anche da noi!). Andranno alle aziende in credito con lo Stato.
I soldi ci sono, a palate. Il quantitative easing di Draghi è di un trilione di euro. Ma andrà alla finanza, per tenere in piedi il suo castello di carte. La ricchezza reale prodotta dalle nazioni e quella da esse ereditata deve essere spremuta senza ritegno e senza pietà per lo stesso scopo. Ma il semicolto medio di sinistra crede alla narrazione "siamo senza soldi".
Il semicolto medio di sinistra crede anche alle lacrime da coccodrillo del PD per l'assassinio di Khaled al-Asaad. Ma se sono tanto addolorati da ricordare l'archeologo siriano in tutte le feste dell'Unità, perché l'allora segretario del PD, Pier Luigi Bersani, faceva comizi per la libertà della Siria assieme a un militante jihadista beccato poi dal New York Times nel primo nucleo siriano dell'ISIS mentre uccideva a sangue freddo prigionieri e che oggi è indagato per terrorismo internazionale dalla Procura di Milano?
Il semicolto medio di sinistra pensa che sia stato un "errore", che Bersani non sapesse. Come? Il segretario del maggiore partito italiano, più volte al governo, non sapeva? E come mai persone molto più normali lo sapevano?
La categoria di "errore" è usata dai semicolti e anche dai colti di sinistra, per non fare i conti con la realtà, per poter continuare a votare PD, in base a motivi ideologici, cioè totalmente campati per aria.
Il semicolto di sinistra crede che gli USA e l'Occidente siano contro l'ISIS, che gli faccia orrore. Perché allora il senatore John McCain faceva riunioni con al-Baghdadi, lo sceicco dell'ISIS? Errava? Nemmeno per sogno. Ha ribadito alla televisione americana che continua a tenere contatti con quei tagliagole.
Perché fino a sei mesi fa la Nato passava all'ISIS informazioni satellitari per combattere Assad? Dico "fino a sei mesi fa" perché pare (pare) che queste informazioni la NATO da un semestre in qua le passi solo al Fronte al-Nusra, cioè ad al-Qa'ida, che sarebbero i "ribelli moderati".
La collaborazione sta finendo, o per lo meno riducendosi? Mah! Forse si sta solo spostando di luogo. Che ci fa un nucleo dell'ISIS in Ucraina? E sì, perché mentre promette fiamme su Roma, l'ISIS in Europa c'è di già. È in Kosovo, dove apre madrase, ed è in Ucraina dove a quanto pare ha già formato un "governo in esilio della Crimea".
Manovre imperiali di aggiramento e avvolgimento.

Piotr
Fonte: http://megachip.globalist.it
Link: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=123145&typeb=0&la-distruzione-del-tempio-di-baal-a-palmira-lettura-geopolitica
25.08.2015

http://www.comedonchisciotte.net/modules.php?name=News&file=article&sid=4335

L'UNGHERIA E LA "STAMPA DEMOCRATICA". - MINCUO

Hungarys-central-bank


Se c'è un Paese che gode di cattiva stampa, giusto per non dire diffamazione, quello è l'Ungheria.
E quando non è presente un articolo costruito per parlarne in termini negativi allora è silenzio totale.
Tutti i giornali “progressisti” (ma anche quelli cosiddetti di centro-destra), come qui la solita Repubblica, o il Corriere, o altrove il N.Y.T., l'Economist, la Bild-Zeitung, le Figarò, l'Humanitè ecc...se scrivono un articolo è solo di critica se non proprio per calunniare.
E non è certo un caso.


(N.B. Qui da noi hanno perfino organizzato un “girotondo” per la “democrazia” contro l'antidemocratico Orban. Che però è stato eletto da un'ampissima maggioranza, mentre qui i "girotondi democratici" non si sono accorti che non si vota ormai da 4 anni e Monti è andato su con una congiura di Palazzo. Quisquilie.)


L'Ungheria a Governo progressista-socialista (cioè pro-Troika, perchè questo vuol dire ormai progressista di sinistra da almeno 25 anni, al pari di quelli di centro-destra) aveva accumulato un debito elevato in pochi anni e costruito la dinamica usuale, con relativo intervento dell'FMI per 20mld, aiuti condizionati a programmi EU ecc... con la solita spirale debito-austerity, cioè la ricetta classica della Troika.

Nel 2010 gli Ungheresi hanno eletto il “mostro” Viktor Orban.

Che nel 2011 ha iniziato delle riforme completamente contrarie alle “raccomandazioni” dell'EU e basate sull'interesse Nazionale (una colpa gravissima questa).

Vediamo un po' cosa ha fatto Orban e poi che risultati ha avuto.

- Intanto pur mantenendo l'indipendenza della B.C. ha cambiato i criteri di nomina (che da noi ad esempio sono solo formalmente del Tesoro, perchè comunque sono su “indicazione” della B.d.I., cioè in pratica della BCE, cioè della Troika).
E così ha nominato Matolcsy, che era Ministro dell'Economia, e che segue la sua linea. Cioè ha riproposto uno schema normale in cui Governo e B.C. lavorano in accordo, e non con una B.C. dipendente da interessi e visuali prevalentemente extra-nazionali.
L'Unione Europea si è subito scatenata intentando una procedura di infrazione.
I giornali hanno parlato immediatamente di “attentato gravissimo alla democrazia”.
Contemporaneamente Moody's, S&P e Fitch hanno ribassato, per lo stesso motivo, il rating dell'Ungheria. Hanno poi attaccato il fiorino.
Ma poi hanno smesso. 


Perchè Orban ha tirato dritto e Matolcsy gli ha detto a muso duro che faceva default la mattina dopo e quella dopo ancora Orban nazionalizzava tutto e così ci rimettevano tutti i soldi.

- Ha messo una tassa temporanea (cosiddetta di crisi) su banche e multinazionali.
Subito l'EU ha prodotto una serie di documenti di minaccia.
Intanto i giornali hanno iniziato una musica coordinata con Orban nazista, fascista, sciovinista, razzista, antisemita ecc....
I leader e giornali “di sinistra” nostrani (Il Fatto, il Manifesto ecc...) si sono subito distinti, quanto a senso del ridicolo, perchè, a parte strapparsi i capelli sull'antidemocratico Orban, si sono guardati bene dal menzionare anche vagamente al lettore questa tassa sul grande capitale.
Come del resto gli Stiglitz e i Krugman, pure critici sull'austerity, ma mai una parola su tassare banche e multinazionali.
E più ridere ancora hanno poi fatto i Tsipras e i Varoufakis delle “linee rosse” a favore di lavoratori e pensionati ma che in 6 mesi mai però hanno proposto di fare un provvedimento analogo per reperire i soldi per quei lavoratori e pensionati. Che caso.

-Ha abbassato le tasse (flat tax) al 16% (oggi al 15%) dal 44% che erano, con ciò spingendo i consumi.
L'EU e i giornali si sono scatenati immediatamente in previsioni di default e poi di “iniquità” quando il default non c'è stato.
[Sono molto equi loro con aliquote arrivate al 50 - 60% - 70% di tassazione].

- Ha alzato l'IVA al 27% [che era invero un'aliquota alta nel 2011] cioè ha spostato il carico sulla tassazione indiretta (salvo alcuni beni di prima necessità dove invece ha ribassato l'IVA).
Altre critiche feroci. Però ora l'IVA qui da noi è già al 22% (l'anno prossimo sarà al 23%) e in Grecia è già al 23%, ma con a fianco però tassazioni dirette di oltre il 50%, e non del 15% come in Ungheria.

Ha posto in essere finanziamenti e aiuti massicci alla PMI.
Altre “procedure” della EU sulla “concorrenza violata” (Ma a loro vanno bene i monopoli della grande impresa però). Orban ha tirato dritto.

Ha ridotto progressivamente ed aggressivamente i tassi dal 7,5% all'1,35%.

- Ha convertito i finanziamenti in valuta estera in fiorini (erano i mutui in valuta estera a basso tasso fatti dagli Ungheresi, ma che dopo la crisi e la svalutazione del fiorino erano diventati per loro molto onerosi).

- Ha ripagato in anticipo all'FMI i 20mld che avevano dato all'Ungheria quando era pressochè in bancarotta come la Grecia, per avere le mani più libere, e l'ha invitato pure a chiudere gli uffici FMI a Budapest.

- Ha nazionalizzato parte del sistema bancario nazionale e parte dei fondi privati pensionistici.

- Ha ridotto le bollette e le tariffe dei servizi.

Morale: l'Ungheria era in fallimento, con la spirale austerity-debito/PIL solita.

Oggi viaggia al 3,6% di PIL, con un deficit/PIL sotto il 3% e inoltre ha ridotto il debito dall'80,9% al 77,3% dove ovunque in Europa invece è aumentato.


Ha ridotto il debito estero, ha aumentato le riserve valutarie.

Tutto questo in un'Europa dove la crescita è asfittica e cresce solo il debito.

Qui comunque uno si guarda tutto quello che vuole:
http://www.tradingeconomics.com/analytics/api.aspx?source=chart

L'EU rosica infuriata e non potendo dire niente manda fuori analisi "che non durerà" e l'unica cosa che evidenzia è la poca crescita del credito al consumo, dovuta alla mancanza di osservanza delle sue “raccomandazioni”.

I giornali intanto parlano solo "del muro" e del fatto che Orban ha detto chiaro e tondo che l'Ungheria accetta stranieri [We welcome foreign investors, artists, scientists, but we don't want to mix on a mass scale] ma non vuole essere un Paese multietnico con una immigrazione forzata di massa.


(Questa di non volere una mescolanza forzata è un'altra colpa gravissima per tutti, salvo per Israele). Ma non dicono una riga sul resto, nè fanno un confronto con gli altri Paesi sotto il profilo economico e sociale.

Le multinazionali e le banche estere sono state più pragmatiche, tutto sommato.
Hanno visto che la maggior tassazione verso di loro non ha compromesso più di tanto i profitti, anzi, dato l'aumento di attività e consumi.
Questa tassazione poi sarà man mano ridotta entro il 2020 (e avranno sgravi fiscali per 10mld di fiorini) e già la ERSTE Austriaca è entrata [e con lei Tedeschi, Americani, Inglesi ecc...nei settori industriali e commerciali.]
A Febbraio è stata, dopo lotte infinite, firmata infatti una “pax bancaria” garantita pure dalla BERS (Banca Europea per la ricostruzione e sviluppo) e in cambio di sgravi il sistema bancario si impegnerà però a maggiori finanziamenti di progetti, soprattutto infrastrutturali.

L'Ungheria ha comunicato intanto alla Ue che manterrà il programma di lavori pubblici finanziati dal Governo e manterrà i prestiti a tassi agevolati alle piccole e medie imprese e inoltre farà un altro taglio alle bollette dei servizi per ulteriori 10 miliardi di fiorini.
Bruxelles ha subito fatto sapere che “dovrà valutare” in termini di “normative sulla competizione”.

Il fatto è che a Bruxelles dovranno farsene una ragione: l’Ungheria sta dentro a tutti i parametri Europei e non ha debiti come la Grecia.
Non è perciò molto ricattabile.

Dovranno quindi tutt'al più ridursi a studiare qualche rivoluzione colorata “a la Soros” per “normalizzare” l'Ungheria.

Che non è purtroppo esclusa.

Basterà vedere se e quando comincerà una campagna stampa mondiale in grande stile sui “nazisti, fascisti, razzisti, sciovinisti ecc..”


http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=87706

venerdì 4 settembre 2015

Putin: 'Non ci sarà intervento militare della Russia contro l'Isis. Serve coalizione internazionale'.



Presidente russo ha parlato dell'iniziativa con Obama.


E' prematuro discutere un "diretto" coinvolgimento della Russia in azioni militari contro l'Isis, tantomeno l'adesione alla coalizione guidata dagli Stati Uniti: Mosca sta attualmente considerando "altre opzioni". Lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin, citato dall'emittente Russia Today. econdo alcuni media britannici, immagini diffuse dalla tv di Stato siriana confermerebbero che truppe russe starebbero combattendo in Siria per il regime di Bashar al Assad. Media israeliani parlano dell'imminente apertura nei pressi di Damasco di una base russa per contrastare l'avanzata dell'Isis, sempre più vicino al cuore del potere siriano. Il Cremlino ha confermato ieri l'assistenza militare fornita dalla Russia alla Siria, senza però dal precisarne l'obiettivo.
Il presidente russo propone di formare una coalizione internazionale contro il terrorismo, spiegando di aver parlato dell'iniziativa con il presidente americano Barack Obama. Lo riporta l'agenzia Reuters.
A margine dell'Eastern Economic Forum a Vladivostok, Putin ha detto ai giornalisti di aver avviato discussioni su tale coalizione anche con i leader di Turchia, Arabia Saudita, Giordania e altri paesi. "Vogliamo davvero creare una sorta di coalizione internazionale per la lotta a terrorismo ed estremismo. A tal fine, abbiamo consultazioni con i nostri partner americani: ho personalmente parlato del tema con il presidente Obama", ha spiegato Putin.
Putin ha spiegato che "la Russia ha spesso messo in guardia contro i principali problemi che l'Europa si sarebbe trovata ad affrontare in conseguenza delle politiche occidentali in Medio Oriente e Nord Africa e del terrorismo jihadista, così che la crisi dei migranti in Ue non è una sorpresa".

martedì 1 settembre 2015

Prem Shankar Jha: IL CAOS PROSSIMO VENTURO. - Girolamo De Michele

Il caos prossimo venturo    Prem Shankar Jha
Prem Shankar Jha, Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle nazioni, introduzione di E. Hobsbawm, trad. di Andrea Grechi e Andrea Spilla, Neri Pozza, Vicenza, 2007, pp. 677, € 25,00.
La pubblicazione del grande saggio dell’economista indiano Prem Shankar Jha Il caos prossimo venturo merita attenzione per più di un motivo. In primo luogo, perché consente di focalizzare l’attenzione degli analisti occidentali, inguaribilmente onfalocentrici, sull’alto livello della produzione culturare orientale. È interessante vedere come alcuni fondamenti dell’economia e della storiografia (Arrighi, Polanyi, Braudel , Schumpeter, esplicitamente richiamati dall’autore sin dalle prime pagine) siano tutt’ora attuali, forse perché capaci di visioni globali che sfuggivano alla centralità dell’ombellico occidentale.
In secondo luogo, la ricostruzione di Prem Shankar Jha è utile a ripensare alcune periodizzazioni del Novecento, per scoprirne il fiato cortissimo: quelle elaborazioni che, ponendo il 1989 come termine conclusivo di una fase storica, sono rimaste poi spiazzate dal rapido volgere degli eventi successivi. Le periodizzazioni di Furet (Il passato di un’illusione), Fukuyama (La fine della storia), e ad un più basso livello, la tesi della guerra civile europea di Nolte (improvvidamente sdoganata da Canfora) non riescono infatti a cogliere come il Novecento, al di là delle ricostruzioni affascinate più dalla schiuma degli eventi che dall’onda lunga delle strutture storico-economiche, prolunghi la propria lunga ombra sul terzo millennio. Che è, per contro, la tesi, fatta proprio dall’economista indiano, di Arrighi e del suo Il lungo XX secolo, contemporaneo al più noto Il Secolo breve di Hobsbawm: un testo nel quale, forse per la prima volta con piena consapevolezza critica, compare il termine “globalizzazione”. In quel testo Arrighi, proseguendo l’opera di Braudel, individuava nella storia del capitalismo quattro grandi cicli di accumulazione sistemica: il secolo genovese, il ciclo olandese, il lungo ciclo britannico, e infine il ciclo statunitense. Arrighi ipotizzava (e in questo si è sbagliato) che il ciclo americano fosse sul punto di entrare in crisi a causa del sorgere di un nuovo ciclo, quello delle cosiddette “tigri asiatiche”. Nondimeno, l’ascesa del gigante cino-indiano riporta in primo piano l’opera di Arrighi, che nel frattempo è stato oggetto di critica da parte di Negri e Hardt per il suo impianto strutturale: i clicli di accumulazione, sostengono gli autori di Impero, sembrano configurarsi come strutture quasi ideali, comunque indipendenti dalle lotte e dalle crisi che hanno lacerato il capitalismo e segnatamente, oggi, dal sorgere della moltitudine come causa della crisi del sistema degli stati-nazione. tnegri.jpegIn sintesi: se i cicli e il loro alternarsi sono strutture che agiscono al di sotto dei processi storici, determinandoli quasi secondo necessità, va smarrita la centralità della frattura tardo-novecentesca: il crollo dell’equilibrio disegnato dalla Pace di Westfalia al termine della guerra dei Trent’anni e l’avvento della globalizzazione come epoca in cui gli stati nazionali perdono la propria centralità in favore di istituzioni ed agenzie sovranazionali. Ora, il terzo motivo per leggere con attenzione il lavoro di Jha è il suo tentativo di tenere insieme il piano storico-economico disegnato dalle opere di Braudel e Arrighi con quello storico-politico caratterizzato dalla fine dell’ordine westfaliano. È un rapporto ambivalente (lo ha notato il marxista americano Louis Proyect sul proprio sito) quello che impronta il rapporto Jha-Negri: se alcuni assunti di Impero sono condivisi da Jha, è altrettanto vero che l’economista indiano cerca nelle strutture economiche, e non nel soggettivismo che impronta la comparsa della moltitudine sulle ceneri della classe operaia novecentesca, la causa della crisi che pervade il capitalismo globale, caratterizzato dalla «simultanea comparsa di una disoccupazione di natura cronica (ossia non ciclica)» e dall’allargamento «delle disuguaglianze reddituali dopo un secolo di livellamento». Jha esamina, per escluderle, quattro spiegazioni “canoniche”: lo shock petrolifero degli anni Settanta, il raggiungimento di una maturità industriale, l’esaurimento della spinta tecnologica e il mutamento di paradigma dell’economia politica. Queste cause possono spiegare il rallentamento dell’economia negli anni Settanta, ma non il carattere strutturale della disoccupazione e delle disuguaglianze, né il «mistero della crescita lenta che ha agitato i sogni degli economisti». La spiegazione va cercata nei processi di deindustrializzazione, ossia di spostamento della produzione nelle aree a basso costo, causati sia dal mutato assetto delle periferie del globo, sia dalla ricaduta sulle aziende più deboli degli esiti delle contrattazioni collettive: quindi una combinazione di processi strutturali e di lotte novecentesche che disegnano il quadro attuale, segnato da un profondo pessimismo che l’autore eredita da Hobsbawm: la sua ricostruzione, infatti, in qualche modo riabilita l’idea di un “breve Novecento”, affermando il passaggio da un “breve secolo americano” all’età del capitalismo globale, e costituisce un tentativo di fornire ragioni alla lettura dell’ultimo trentennio del Novecento come un periodo di decadenza da parte dello storico inglese. Jha sottolinea come ogni passaggio da un ciclo di accumulazione all’altro sia segnato da processi distruttivi: il «caos sistemico» verso cui siamo a suo parere rapidamente avviati, anche per effetto del sostanziale fallimento delle politiche imperiali americane, sembra ridefinire negativamente quell’elemento di “distruzione creatrice” che Schumpeter leggeva nel cuore del capitalismo. Lo stato delle cose richiederebbe l’istituzione di «uncommonwealth che possa funzionare immediatamente o in tempi brevissimi»: ma «il modo in cui gli Stati Uniti hanno fatto della coercizione il metodo preferito per trattare con le altre nazioni» lascia pochi dubbi su quanto rapidamente il mondo stia precipitando verso l’oscurità.

Secondo Stephen Hawking si può uscire da un buco nero. - Nadia Vitali

La singolarità al centro di un buco nero costituirebbe l'origine di un nuovo universo, diverso dal progenitore per i valori di alcuni parametri fondamentali.

Il celebre fisico sostiene di essere vicino a risolvere il cosiddetto paradosso dell'informazione del buco nero.

I buchi neri sono un grosso problema per gli scienziati, quanto meno quando sembrano violare teoricamente alcune tra le leggi fondamentali del nostro Universo: ecco perché l'argomento è sempre molto discusso ed è stato centrale nei dibattiti tenutisi per un’intera settimana, giorni fa, a Stoccolma. I più eminenti fisici di tutto il mondo si sono dati appuntamento ad un ciclo di conferenze per cercare insieme alcune nuove ipotesi che rispondano ad una domanda che da diversi decenni non riesce a trovare soluzione. Tra essi c’era anche Stephen Hawking che ha rivelato di aver elaborato una teoria secondo la quale un'informazione sarebbe in grado di salvarsi una volta entrata in un buco nero.

«I buchi neri non sono poi così neri»
I buchi neri non hanno bisogno di presentazioni: regioni dello spazio-tempo delimitate da un orizzonte degli eventi, caratterizzate da un campo gravitazionale talmente forte che qualunque cosa ci finisca dentro non può più uscirne, neanche la luce. Almeno secondo quanto teorizzato a partire da Einstein. L’altro giorno a Stoccolma, però, Hawking ha deciso quasi di “sfidare” lo scienziato annunciando che forse i buchi neri non sono «così neri come ce li hanno dipinti»: anzi, arriva a suggerire di non darsi per vinti qualora si incappasse in buco nero perché, probabilmente, potrebbe addirittura esserci una via d’uscita.

Stephen Hawking
in foto: Stephen Hawking

Tra relatività generale e meccanica quantistica.
Il problema, in particolare, riguarda il destino dell’informazione fisica che cade lì dentro: secondo quanto ipotizzato alla metà degli anni ’70 dallo stesso Hawking, assieme a Jakob Bekenstein, un buco nero fagocita effettivamente qualunque cosa capiti nei propri paraggi per poi emettere esclusivamente una radiazione che risulta del tutto indipendente dalla composizione di quanto è stato precedentemente inghiottito.

Fin qui tutto bene ma il problema nasce dal confronto tra relatività generale e meccanica quantistica: per la prima la teoria è perfetta, naturalmente, ma quando si scende “nel piccolo”, ossia nelle particelle subatomiche di cui si occupa l’altra branca della fisica moderna, le cose si complicano e ci si trova dinanzi ad un paradosso. Questo perché, secondo la meccanica quantistica (ma anche secondo i capisaldi della fisica in generale), è semplicemente impossibile che le informazioni vadano perdute: come uscirne, quindi?

Al di qua dell'orizzonte degli eventi
Hawking  ci pensa da anni e già in passato ha provato a venirne fuori, ma adesso ha spiegato quale potrebbe essere una possibile soluzione: secondo quanto spiegato a Stoccolma l'informazione resterebbe aggrappata lungo i margini del buco nero, al di qua dell'orizzonte degli eventi. Lì sarebbe "tradotta" e preservata, pronta eventualmente ad essere recuperata.

In realtà non si tratta di un'idea del tutto nuova per i cosmologi e ci sono ancora aspetti non del tutto chiari, anche perché l'ipotesi è stata presentata in conferenza ma non è stata ancora descritta in un articolo scientifico; e poi resterà comunque sempre difficile da dimostrare sperimentalmente. Nel dubbio, quindi, sta a voi se fidarvi delle parole di Stephen Hawking, qualora vi trovaste a navigare dalle parti di un buco nero.

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