mercoledì 14 novembre 2018

‘Ndrangheta, 24 arresti a Lamezia Terme. L’ex sottosegretario di Forza Italia Giuseppe Galati ai domiciliari. - Lucio Musolino

‘Ndrangheta, 24 arresti a Lamezia Terme. L’ex sottosegretario di Forza Italia Giuseppe Galati ai domiciliari

Dodici indagati sono finiti in carcere e altri dodici agli arresti domiciliari. Nell’inchiesta, coordinata dal procuratore Nicola Gratteri e dal procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla, sono coinvolti anche funzionari pubblici legati al mondo della sanità. Sequestrati dieci milioni di euro. I clan conoscevano in anticipo quali pazienti stavano per morire e imponevano i loro servizi di onoranze funebri.

“Oh! Grande compare mio, ma poi sei andato a Catanzaro? Non mi hai fatto sapere niente”. “No, io poi ti avevo chiamato ed ero andato a Catanzaro… si sono andato, ci ho parlato”. “Tutto a posto, si!”. “Diciamo di si”. A parlare sono l’ex deputato di centrodestra Giuseppe “Pino” Galati e il consigliere comunale di Lamezia Terme, Luigi Muraca. La guardia di finanza li ha intercettati entrambi. Galati e Muraca, infatti, sono due delle 24 persone destinatarie dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro.
Nelle carte dell’operazione “Quinta Bolgia” vengono definiti gli intermediari grazie ai quali le aziende legate alle cosche avevano il monopolio di molti servizi all’interno dell’ospedale di Lamezia Terme. A partire da quello delle ambulanze sostitutive al servizio pubblico, ma anche delle imprese che si occupavano delle onoranze funebri, della fornitura di materiale sanitario e del trasporto sangue.
Dentro l’ospedale di Lamezia potevano lavorare solo aziende legate alla cosca Iannazzo-Daponte-Cannizzaro, riconducibili alla famiglia mafiosa Giampà, che tramite i due politici erano riusciti ad ottenere l’appalto delle ambulanze nel 2010. Un appalto per un anno che, però, senza alcun bando pubblico, è stato prorogato fino al 2017.
Tutto grazie al politico locale Luigi Muraca, consigliere comunale fino allo scioglimento per mafia avvenuto l’anno scorso, e all’ex deputato Pino Galati, parlamentare dal 1996 al 2018: candidato con la lista Noi con l’Italia al Senato, alle ultime politiche non è stato rieletto. Nella sua carriera, Galati ha ricoperto anche incarichi di governo: è stato, infatti, più volte sottosegretario quando a Palazzo Chigi sedeva Silvio Berlusconi e segretario dell’ufficio di presidente della Camera dei Deputati. Nel 2010, inoltre, è stato vicepresidente della Commissione per le questioni economiche e dello sviluppo del Consiglio d’Europa oltre che sottosegretario all’Istruzione.
Condotta dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza di Catanzaro e dallo Scico di Roma, l’indagine ha dimostrato come l’ospedale di Lamezia era di fatto occupato militarmente dalla ‘ndrangheta attraverso i gruppi Putrino e Rocca, veri e propri mattatori di appalti. Per l’accusa agivano sotto l’egida di Vincenzo Torcasio, boss dei Giampà, che in un’intercettazione conferma tutti i sospetti della procura: “Compà – dice inconsapevole di essere intercettato – Pugliese, il direttore amministrativo di Catanzaro, lo abbiamo messo noi”. Con lui c’era il consigliere Luigi Muraca e l’imprenditore Pietro Putrino che ribatte: “Ce l’ha messo Galati”. “E non lo so?” Se ce l’ha messo Pino?” “Ci chiami e gli dici che vado io domani”. “Gli dico: ‘deve andare lo zio Pietro là che deve parlare con Pugliese”. Secca la risposta del boss: “E si deve risolvere questo problema”.
Il problema alla fine è stato risolto. Come scrive la guardia di finanza: “Il gruppo Putrino ha continuato ad operare all’interno dell’ospedale di Lamezia Terme in assenza di una gara formale”. Nell’ordinanza di custodia cautelare, il gip scrive che “i due personaggi ‘politici’ sono il necessario trait d’union tra i Putrino e gli esponenti apicali dell’Asp di Catanzaro, senza il cui interessamento non sarebbe stato possibile ottenere gli illeciti vantaggi”.

Ai domiciliari sono finiti anche l’ex direttore generale del’Asp Giuseppe Perri, l’ex direttore amministrativo Giuseppe Pugliese e il responsabile del Suem 118 Elieseo Ciccone. Tutti sono accusati di numerosi episodi di abuso d’ufficio. 
L’intreccio tra ‘ndranghetasanità pubblica ha danneggiato soprattutto gli utenti dell’ospedale di Lamezia Terme dove venivano utilizzate ambulanze fatiscenti che non avevano nemmeno i requisiti tecnici per circolare. Alcuni mezzi, infatti, erano senza freni e con i motori danneggiati. Per non parlare dell’ossigeno scaduto che veniva somministrato ai malati soccorsi da personale non autorizzato e senza alcuna preparazione medica.
Grazie ad accordi corruttivi con i tre dirigenti dell’Asp catanzarese, il sodalizio criminale aveva ottenuto le certificazioni di qualità richieste per l’affidamento del servizio autoambulanze sulla base di una semplice verifica documentale, senza le necessarie operazioni di riscontro fisico dello stato dei mezzi, delle dotazioni e delle strutture aziendali. I due gruppi imprenditoriali avevano instaurato un regime di sottomissione del personale medico e paramedico. Basta pensare che le chiavi di alcuni reparti erano custodite dalle ditte mafiose e non dai medici che dovevano lavorare in quei reparti. 
Per esempio, le ditte Putrino e Rocca avevano libero accesso al deposito farmaci dedicato alle urgenze del pronto soccorso, situazione questa ben nota alla dirigenza dell’azienda sanitaria. 
Le imprese della ‘ndrangheta, inoltre, avevano le password per accedere ai dati sensibili dei pazienti e verificare le loro condizioni di salute. Questo serviva alle imprese del clan di conoscere in anticipo quali pazienti stavano per morire in modo da poter imporre i loro servizi di onoranze funebri.
Nel corso della conferenza stampa, il procuratore Nicola Gratteri ha spiegato il coinvolgimento dell’ex parlamentare Pino Galati: “Durante le indagini abbiano ricostruito diversi incontri tra il politico e gli altri arrestati. A un certo punto si accorge di essere pedinato e a Roma denuncia che ha paura per la sua vita e quindi chiede di sapere cosa sta accadendo. Si è accorto che l’indagine la stava conducendo la guardia di finanza”. “Dall’inchiesta emerge un quadro inquietante. Si esercitavano le funzioni pubbliche in modo corrispondente agli interessi privati”, ha dichiarato il procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla. “C’erano servizi – ha sottolineato il generale Alessandro Barbera, comandante dello Scico – che venivano eseguiti in maniera indegna di un paese civile”.
Sulle ambulanze fatiscenti, Gratteri non vuole sentire alibi: “Era una questione di calcolo. Loro sapevano che non avevano concorrenti quindi potevano usare anche un calesse. Questa  è un’indagine che ci lascia più tristi del solito. Pensare che c’è gente spregiudicata che vive nell’agiatezza lucrando sui morti, sui funerali. C’era una sorta di racket. Imponevano la propria agenzia con il coinvolgimento di impiegati dell’ospedale che sostanzialmente regolamentavano anche i tempi di consegna del cadavere per dare tempo a queste agenzie di imporre il loro carro funebre. Questo è abbastanza triste e agghiacciante. Quando parliamo dei vertici dell’Asp, sono funzionari che non agiscono per stato di necessità. Hanno uno stipendio che gli consentiva di vivere bene e non c’è nessuna giustificazione per poter aderire a richieste seppur di gente mafiosa o borderline”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 12 novembre 2018

La banda del buco.- Marco Travaglio

L'immagine può contenere: 2 persone, persone in piedi e spazio all'aperto

Dopo aver sorseggiato i fiumi d’inchiostro versati dai giornaloni sull’oceanica manifestazione "Sì Tav" di sabato a Torino, che ha visto sfilare nientepopodimenoché un torinese su 35 o un piemontese su 177, una domanda sorge spontanea: cosa sapeva tutta questa brava gente del Tav Torino-Lione? Si spera vivamente che ne sapesse un po’ di più di una delle sette madamine organizzatrici dell’Evento, Patrizia Ghiazza, cacciatrice di teste all’evidenza sfortunata, che l’altra sera esibiva tutta la sua competenza a Otto e mezzo: “Né io né le altre organizzatrici siamo competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera”. Non male, per una manifestazione apolitica e apartitica, ma soltanto tecnica, sul merito del treno merci ad alta velocità (anzi, a bassa, perché le merci di solito viaggiano a non più di 100-120 km l’ora). Essendosi “informati sui giornaloni che hanno sponsorizzato la Lunga Marcia, era prevedibile che organizzatori e partecipanti ne sapessero pochino, e che quel pochino fosse falso. Infatti sventolavano cartelli “Sì alla Tav”, ignorando che è l’acronimo di Treno Alta Velocità, dunque è maschile, con buona pace di Stampubblica che ha spacciato l’iniziativa per una “rivolta delle donne” contro non si sa bene cosa, anche se in piazza sfilavano soprattutto maschietti di una certa età.
L’acronimo, fra l’altro, è una patacca (femminile), perché per le merci l’espressione giusta è Treno ad Alta Capacità (Tac). I marciatori, e Salvini a ruota, ripetevano che l’opera va assolutamente “completata”: ma un’opera si completa quando è già iniziata e qui non è stato costruito nemmeno un millimetro di ferrovia: i cantieri che tutti vedono da 15 anni sono quelli del tunnel esplorativo, nulla a che vedere con l’opera vera e propria, il “tunnel di base”, cioè il mega-buco dovrebbe attraversare 57 km di montagna e che fortunatamente non esiste: le gare d’appalto non sono state neppure bandite. Dunque non c’è nulla da completare. Alcuni sognano di salire un giorno a bordo del mirabolante supertreno, ma purtroppo, escludendo che i Sì Tav si considerino merci, resteranno mestamente a terra anche se l’opera venisse realizzata. Chi volesse invece raggiungere ad alta velocità Parigi o Lione da Milano o da Torino, può montare sul comodo Tgv, che dalla notte dei tempi percorre rapidamente quella tratta. Ma i nostri eroi strillano contro l’“isolamento dell’Italia” e per il “collegamento con l’Europa”, evidentemente ignari dell’esistenza del Tgv da e per la Francia, dei treni veloci da e per la Svizzera e così via.
Forse pensano che, per affacciarsi oltre la cinta daziaria, sia necessario scalare le Alpi a piedi. Monsù e madamine saranno tutti interessati al trasporto merci? Benissimo, allora possono stare tranquilli: le loro merci da trasportare ad altissima velocità da Torino a Lione possono depositarle in uno a caso dei container (perlopiù vuoti) che ogni giorno viaggiano sui treni della tratta Torino-Modane- Chambéry-Culoz, che dal 1871 attraversa il Frejus, ci è appena costata 400 milioni per lavori di ammodernamento ed è inutilizzata all’80-90%. 
Siccome alla marcia c’era pure Paolo Foietta, commissario dell’Osservatorio Tav, qualcuno avrebbe potuto domandargli con che faccia sostenga ancora l’utilità dell’opera, dopo avere scritto un anno fa al governo Gentiloni che “molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali della Ue, sono state smentite dai fatti”. 
Ma nessuno lo sapeva. E chissà se quanti invocano “lavoro” sanno che attualmente nel cantiere lavorano appena 800 persone, che salirebbero a non più di 3-4mila per il tunnel di base, con un costo stratosferico per ogni occupato. La delibera 67/2017 del Cipe stima il costo complessivo del solo tunnel di base in 9,6 miliardi: il 57,9% lo paga l’Italia e solo il 42,1 la Francia (anche se il tunnel insiste per l’80% in territorio francese e solo per il 20 in territorio italiano: perché?). E chissà se chi si riempie la bocca di paroloni come “futuro”, “sviluppo”, “modernità” è stato informato che, in 17 anni di studi e carotaggi, abbiamo già buttato 1,6 miliardi, oltre a tenere la Val di Susa in stato d’assedio permanente.
Ora servono sulla carta un’altra quindicina di miliardi, che poi nella realtà salirebbero a 20-25 (le grandi opere in Italia lievitano in media del 45%). È questa la “decrescita infelice”, non quella di chi si oppone a un’opera ad altissima voracità e a bassissima occupazione. 
E chi vaneggia di “penali da pagare” o di “fondi europei da restituire” o “da non perdere” ignora che la parola “penale” non compare in alcun contratto o accordo con la Francia, con l’Ue o con ditte private. L’Italia, sul suo tracciato, può fare ciò che vuole. Recita la legge 191/2009: “Il contraente o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualunque pretesa risarcitoria eventualmente sorta in relazione alle opere individuate… nonché ad alcuna pretesa, anche futura, connessa al mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi”. Quanto all’Ue, finanzia solo lavori ultimati: se il Tav non si fa più, l’Italia non deve restituire un euro. Ora però le nostre disinformate madamine si sono montate la testa: chiedono udienza al Quirinale, danno ordini alla sindaca Appendino e al governo Conte, come se 25mila persone in piazza contassero più dei 10.935.998 italiani che hanno votato per i 5Stelle (No Tav) nel 2018 e dei 202.754 torinesi che nel 2016 hanno eletto la sindaca No Tav Chiara Appendino contro il Sì Tav Piero Fassino. Invece i No Tav, che negli anni hanno portato in piazza ora 40 ora 50mila persone, non se li è mai filati nessuno. A parte, si capisce, i manganelli della polizia.

Fonte: ilfattoquotidiano del 14 novembre 2018

Le casette marce e i terremotati di nuovo sfollati.


Pannelli marci e zuppi d'acqua che hanno reso le casette dei terremotati del centro Italia pericolanti. Roberta Rei è andata a indagare su cosa non ha funzionato nella ricostruzione.
Per la ricostruzione dopo il terremoto che ha colpito il centro Italia due anni fa abbiamo speso un miliardo e 188 milioni di euro di soldi pubblici per la costruzione delle casette per i terremotati. Che però si sono ritrovati con pareti e soffitto zuppi d’acqua, e molti di loro si sono dovuti nuovamente trasferire negli alberghi sul mare, a centinaia di chilometri dalle loro città, perché le abitazioni erano diventate pericolanti.
Com’è possibile? I carotaggi eseguiti hanno rilevato un’altissima presenza di umidità, e questo perché i pannelli delle case sono stati tenuti all’aperto. Come ha rivelato un operaio addetto al cartongesso a Roberta Rei: “Venivamo pressati per concludere nel minor tempo possibile. E così abbiamo montato i pannelli con le fessure tra uno e l'altro, e molto spesso non abbiamo completato le lavorazioni perché non facevamo in tempo. E si montavano i pannelli anche bagnati, perché non c'era un posto per lo stoccaggio dei materiali, e quindi venivano lasciati sotto la pioggia e la neve”. 
Casette che sono arrivate a costare anche 5.000 euro al metro quadro.
Ma non è tutto. La Procura di Macerata sta indagando sulle condizioni dei lavoratori. Uno di loro ha detto a Roberta Rei che "Nessuno di noi ha mai avuto il casco o i guanti, ed eravamo pagati in nero". Per ricevere il compenso ogni operaio doveva avere due carte ricaricaribili. In una veniva caricato lo stipendio, nell’altra gli straordinari. Gli operai raccontano alla Rei di aver visto cifre altissime che nulla c’entravano con gli straordinari e ipotizzano tentativi di riciclaggio. Anche su questo sta indagando la Procura. Roberta Rei è andata a chiedere conto proprio al presidente del consorzio Arcale Giorgio Gervasi, all’assessore responsabile della Regione Marche e ad Angelo Borrelli, capo della Protezione civile
“Ci sentiamo sballottati a destra e a sinistra, ci trattano come animali”, ha detto uno sfollato alla Iena. “Ci sentiamo presi in giro, da tutti quanti”, ha aggiunto un terremotato.
Fonte: iene.mediaset 13 11.2018

martedì 13 novembre 2018

Crisi di astinenza da crescita.- Miguel Martinez



Seguo la straordinaria manifestazione che si è svolta ieri a Torino a favore del TAV.
Alla testa di tutto, c’è la Confindustria:
“Confindustria ribadisce “con forza l’assoluta necessità di completare i lavori della Tav”. E annuncia “che proprio a Torino convocherà un Consiglio generale straordinario allargato alla partecipazione dei Presidenti di tutte le Associazioni Territoriali d’Italia per protestare insieme contro una scelta, il blocco degli investimenti, che mortifica l’economia e l’occupazione del Paese”.”
Leggo su Repubblica la composizione, invece, della piazza:
“Il sit-in è stato promosso dall’associazione “Sì Torino va avanti” e da “Sì lavoro”, legata a Mino Giachino, ex sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi, che ha lanciato una petizione online arrivata a più di 65mila sottoscrizioni. Hanno aderito il Partito democratico, i moderati, Forza Italia e anche la Lega, nonostante il partito di Matteo Salvini governi insieme al Movimento 5 Stelle che intende bloccare i cantieri e ha annunciato l’analisi costi benefici per l’alta velocità.
In piazza anche i Radicali e Fratelli d’Italia, che raccolgono firme per due referendum.”
Casa Pound, che è ovviamente fortemente schierata dalla parte delle Opere che Fanno Grande l’Italia, all’ultimo momento ha deciso di non scendere direttamente in piazza,
«Pur condividendo le legittime proteste degli amici del No Ztl non intendiamo manifestare formalmente con il Partito Democratico e il circuito di poteri forti che la sinistra rappresenta».
Mettiamo da parte per un momento i pareri sul valore o sul pericolo dell’opera in sé, e partiamo dalla parolina che meno vi avrà colpiti: “gli amici del No Ztl”.
Non è solo in Oltrarno che le cose piccole permettono di cogliere la chiave di quelle grandi: no Ztl, cioè i commercianti che sotto l’egida di Casa Pound si stanno battendo perché il flusso di auto nel centro della città non si fermi nemmeno per un istante.
Auto prodotte con frammenti provenienti da tutto il mondo, che trasformano il petrolio ricavato dai deserti arabi in veleno per i nostri polmoni e in gas serra e tutto il resto. Va da sé che i No Ztl si battono soprattutto su Facebook regalando i propri profili al signor Zuckerberg, quindi tranquilli, non sono antisemiti.
Benzina e sottoprodotti portano un momentaneo sollievo alla crisi, che somiglia piuttosto a una crisi di astinenza. E certamente hanno ragione i piccoli commercianti a sentirsi addosso il fiato della morte addosso.
Però tutta la sciarada di ieri diventa più comprensibile, se partiamo da questo concetto: la crisi da astinenza da crescitaE’ chiaramente il motivo della scelta della Confindustria, ma anche di tutte le piccole realtà a scendere, giù giù fino ai Fratelli d’Italia.
Insomma, stiamo parlando qui di politica vera e non solo di politica spettacolo, per questo si mescolano tra di loro i giocatori delle varie squadre.
Apriamo una parentesi.
Nel 1936, Daniel Guérin scrisse Fascisme et gran capital, pubblicato in italiano come Fascismo e gran capitale dall’amico Roberto Massari.
Guérin, osservando da vicino la nascita del fascismo e del nazismo, aveva osato fare ciò che oggi i furbi evitano accuratamente di fare: dare una definizione falsificabile di fascismo.
Con molti esempi calzanti, Guérin diceva che gli imprenditori dell‘industria pesante, in particolare metalmeccanica, godevano di un enorme potere, strettamente legato agli appalti statali, perché dallo Stato ricavavano sia le infrastrutture che gran parte delle loro commesse.
Dallo Stato l’industria pesante aveva ottenuto la più Grande Opera Inutile e Imposta di tutti i tempi, la prima guerra mondiale.
Dall’altra parte, c’era l’industria leggera (segnatamente quella tessile della Toscana, che lui evidentemente conosceva bene), che non aveva bisogno di Grandi Opere, ma di traffici internazionali; era molto meno dirigista, non era legata allo Stato; e cercava di mediare nello scontro con i lavoratori.
Con la fine della pacchia (cioè della Grande Strage), l’industria pesante si trovava in una crisi paurosa: quando non c’è più da ammazzare, non ti comprano più le bombe.
A lungo termine, la soluzione più semplice sarebbe stata quella geniale adottata dagli Stati Uniti nel 1945: “facciamo altri ottant’anni di guerra, ovunque sia!”
Ma nel 1919, gli operai – che avevano goduto di una piccola pacchia anche loro – pretesero di avere il controllo sul luogo dove passavano la maggior parte delle loro vite da svegli.
Fu a quel punto che la Confindustria decise di finanziare lo squadrismo fascista.
Ma siccome la crisi si faceva dura, si aggregarono anche l’industria leggera, e tutto il mondo agrario.
Questa analisi del fascismo, a ottant’anni di distanza, presenta diversi problemi.
Intanto Guérin era un latino, e all’epoca solo anglosassoni e germanici intuivano qualcosa del vero problema del mondo, la catastrofe ecologica in preparazione.
Poi, esiste oggi una “industria pesante” e una “industria leggera” in Italia?
Come facciamo a distinguere capitali che girano vorticosamente per il pianeta su computer, e definirli “italiani” o “americani” o magari “nigeriani”?
In un mondo di anziani, esistono reduci ventenni fuori di testa per aver passato tre anni di vita e morte in trincea?
Esistono operai che rivendicano il controllo della fabbrica in cui lavorano?
E se nel 2018 cerchi l’olio di ricino, vai su Amazon e trovi questo:
Insomma, si fa presto a dire che stanno tornando i fascisti.
Ma fatta la tara a tutto ciò, la Confindustria esiste ancora; la crisi c’è; la crescita bisogna farla lo stesso; i lavoratori vanno flessibilizzati, globalizzati, delocalizzati, automatizzati; e almeno in Toscana, i padroni delle terre che producono il vino e i palazzi che ospitano i turisti sono i pronipoti degli stessi conti e marchesi che qui inventarono il fascismo.
Abbiamo finito di scherzare, quando si deve decidere sul serio, arrivano i produttori e decidono loro come bisogna fare.
E il momento tremendo arriva, quando compare anche il No Ztl, quando tutti i piccoli disperati spaventati dalla crisi si aggregano, e i profitti di pochi diventano la furia di tanti.
Con la differenza che gli squadristi del 1920 si limitavano a bastonare contadini e operai. Questa nuova furia crescista che non picchia nessuno e usa l’olio di ricino solo per abbellirsi le ciglia, è diretta contro la sopravvivenza della vita sull’unico pianeta che abbiamo.
Immaginatevi questa gente che si agita per un’ipotetica linea ferroviaria, il giorno che qualcuno minaccia di privarla della plastica usa e getta.
E mi dicono che Marte è proprio bruttino.
Fonte: comedonchisciotte del 10/11/2018

Grazie del pensiero. - Marco Travaglio

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Ogni tanto riceviamo lezioni di diritto dagli “amici” di Repubblica. Càpita, per carità: le polemiche vanno e vengono. Noi però siamo sfortunati: non riusciamo mai a capire dove avremmo sbagliato.

Di solito funziona così: noi scriviamo che Repubblica dice il falso e Repubblica, nel vano tentativo di dimostrare di aver detto il vero, scrive un altro falso. Sarà perché noi abbiamo il brutto vizio di documentarci e di parlare solo di cose che conosciamo.

Ora, per dire, Luca Bottura – che abbiamo conosciuto in altri tempi come “umorista” autore di varietà tv e mai abbiamo incontrato in una procura o in un tribunale, ergo non lo sospettavamo esperto di inchieste e processi – ci spiega i casi Consip e Raggi.

E parte subito col piede giusto: “Il padre di Renzi è stato assolto”. Invece purtroppo è indagato per traffico di influenze illecite (e per altre vicende inquisito per bancarotta fraudolenta e imputato per false fatturazioni) e il pm ne ha chiesto al gip l’archiviazione (non ancora concessa), dopo averlo definito “non credibile” e “largamente inattendibile” sull’incontro con l’imprenditore Alfredo Romeo. È un po’ come se un professore di astronomia, alla prima lezione, premettesse: “Sia chiaro, il Sole gira attorno alla Terra”. Anche gli studenti più digiuni in materia sospetterebbero che sia un impostore.

Tornando al nostro giurista per caso, cogliamo fior da fiore.
1) “Il padre di Renzi è stato assolto”
(falso: richiesta di archiviazione).

2) “Ma, siccome quel che scriveva Travaglio era accaduto davvero, è colpevole”
(falso: mai scritto che sia colpevole; abbiamo riportato le frasi dei pm che lo sbugiardano e alcune circostanze ignorate o trascurate nella richiesta di archiviazione).

3) “Virginia Raggi è stata assolta” (vero).

4) Ma “quel che hanno scritto i giornali era vero” (falso).
La Raggi era imputata di falso ideologico per una risposta a una domanda dell’Anac sul ruolo di Raffaele Marra, capo del Personale, nella nomina del fratello Renato (graduato dei Vigili) a dirigente del Turismo: un ruolo, scrisse la sindaca, soltanto “compilativo” di una decisione assunta da lei con il competente assessore Meloni. Poi si scoprì, da alcune chat, che Raffaele suggerì a Meloni di prendere Renato al Turismo (lui peraltro lo nega, nel processo per abuso d’ufficio: deciderà il giudice). E Meloni, che aveva già lavorato con Renato, ne fu felice. Su quest’unico punto verteva tutto il processo: la Raggi sapeva o no che Marra aveva messo lo zampino, quando scrisse che aveva svolto un ruolo “compilativo”? Secondo i pm, sì: cioè la sindaca mentì sapendo di mentire.
Secondo i difensori, no: scrisse all’Anac ciò che risultava a lei, ignara di riunioni in altri uffici e in sua assenza, peraltro su un “interpello” per la rotazione di tutti e 200 i dirigenti del Campidoglio, non solo di Renato. Il giudice ha dato ragione a lei: e non perché “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova” (art. 530 comma 2), ma perché “il fatto non costituisce reato” (art. 530 comma 1). Cioè perché la Raggi non sapeva ciò che i pm l’accusavano di avere consapevolmente taciuto. Dunque non ha mentito, anzi ha detto quanto risultava a lei: all’Anac, ai pm e al tribunale. Punto. Assolta con formula piena.

Bottura sostiene che la Raggi è “il peggior sindaco/a di Roma di sempre”: liberissimo di preferirle Alemanno e gli altri galantuomini che spalancarono il Campidoglio a Buzzi, Carminati & C.

Ma, non sapendo nulla di questo come di nessun altro processo, il nostro giureconsulto sostiene che negli ultimi 2 anni e mezzo i giornali han fatto solo “cronaca giudiziaria spicciola”. E molto si duole perché ho riepilogato le balle più grosse dei giornali.

Repubblica, per esempio, riuscì a scrivere che: le inchieste sulla Raggi erano il “mesto déjà vu di una stagione lontana, quella della Milano di Mani Pulite” (falso: Mani Pulite si occupava di tangenti e appalti, l’inchiesta Raggi di una lettera all’Anac);

“Salvatore Romeo ha un legame privato, privatissimo con la Raggi, in pieno conflitto d’interesse” (dunque la Raggi era l’amante di Romeo, oltreché di altri; a questo si riferisce Di Battista quando, ricordando quanti l’hanno dipinta come una puttana, restituisce l’insulto a loro, non a tutta la categoria);

“Quelle polizze potrebbero avere un’origine non privata, ma politica”, “il rebus della provenienza dei fondi”, “soldi di chi? Per garantirsi quale ritorno?”, “tesoretti segreti e ricatti” per “garantire un serbatoio di voti a destra” (non è mai esistita alcun’indagine sulle polizze di Romeo che ipotizzasse fondi occulti, tesoretti segreti o compravendite di voti, anzi la Procura dichiarò subito le polizze “prive di rilevanza penale”;

quella, dunque, non era cronaca giudiziaria spicciola, ma linciaggio organizzato a base di menzogne costruite a tavolino: gli unici veri falsi materiali visti in quel processo).

Alla fine, dopo aver inanellato una collezione di balle da Guinness, il Bottura si avventura in un ardito parallelo fra 25 anni di assalti di B. alla libera stampa, dall’editto bulgaro ai conflitti d’interessi editorial-televisivi, e gl’insulti di Di Maio&C. ai falsari del caso Raggi. E spiega che, diversamente da oggi, “a quei tempi eravamo tutti insieme da questa parte della barricata”.
Però – minaccia – se le nuove SS verranno a prendermi, “noi saremo lì a difenderti”.

Non so dove fosse lui ai tempi di B., ma so dov’era Repubblica.
Nel 2008, quando B. tornò al governo e osai ricordare in tv i rapporti del neopresidente del Senato Schifani con alcuni mafiosi, fui attaccato da tutto il centrodestra, da mezzo centrosinistra e Repubblica mi “difese” schierandosi con Schifani e insinuando che mi facessi pagare le ferie dalla mafia.

Quindi grazie del pensiero, ma per la mia difesa preferisco fare da solo.
Come se avessi accettato.

Fonte: ilfattoquotidiano del 13 novembre del 2018

Intascava soldi dall'imputato La Consulta boccia il Csm: «Quel giudice è da cacciare». - Luca Fazzo



I colleghi provano a salvare il magistrato che andava licenziato. Stop della Corte Costituzionale.

Va a sbattere contro la Corte Costituzionale uno dei tentativi più arditi del Consiglio superiore della magistratura di salvare la poltrona a una toga scoperta a prendere soldi.

Che nel giudicare le colpe dei giudici al Csm siano inclini al garantismo è cosa risaputa: di magistrati assolti, o puniti blandamente, nonostante prove granitiche sono piene le cronache di questi anni. Ma nel caso di Luisanna Figliola, giudice preliminare a Roma e oggi pm a Napoli, sembrava che non ci fosse scampo: la legge prevedeva per lei come unica sanzione possibile la destituzione, ovvero il licenziamento. Il Csm ha ritenuto che l'obbligo di sfilare la toga alla collega violasse addirittura la Costituzione, e si è rivolto alla Corte Costituzionale perché cancellasse la norma. Ricevendone in risposta una brusca bocciatura. Se un magistrato si fa pagare da un imputato, non può continuare a fare il magistrato: sembra una ovvietà, ma per farla digerire al Csm c'è voluta la Consulta.
La Figliolia è un magistrato maturo e di grande esperienza, con alle spalle processi importanti nella Capitale (compreso quello alle nuove Brigate Rosse) e con un passato di militante in una delle correnti della magistratura. Ma questo rende ancora più grave quanto avviene tra lei e Vittorio Cecchi Gori, il produttore cinematografico finito in dissesto.

La sentenza della Corte Costituzionale riassume così le colpe: alla Figliolia «è contestato di avere ottenuto da un imprenditore, che sapeva essere indagato presso il proprio ufficio di appartenenza per il delitto di bancarotta fraudolenta, vantaggi indiretti (consistenti nel conferimento al proprio coniuge di un contratto per un corrispettivo mensile di 100.000 euro) e diretti (costituiti da numerosi soggiorni in lussuose abitazioni, viaggi in aereo privato, una borsa del valore di 700 euro e una festa di compleanno del valore di 2.056 euro)». Più colorito il contesto dei rapporti tra i due come li ha raccontati, nel processo alla Figliolia, l'ex fidanzata di Cecchi Gori, Mara Meis: secondo cui la giudice avrebbe imposto al produttore oltre ai servigi del marito anche la presenza di una maga, grazie alla quale l'uomo poteva dialogare con la madre morta.
La Figliolia è stata assolta in sede penale, perché non si è dimostrato quali favori - a parte i dialoghi con l'Oltretomba - fornisse a Cecchi Gori in cambio dei soldi. La cacciata però sembrava inevitabile. Il Csm, nel luglio 2017, prova a salvarla. Ma la Consulta, con la sentenza depositata ieri, va giù dura: se l'obiettivo deve essere «restaurare la fiducia dei consociati nell'indipendenza, correttezza e imparzialità del sistema giudiziario», allora «una reazione ferma contro l'illecito disciplinare può effettivamente contribuire all'obiettivo delineato (...) non essendo affatto scontato che esso possa essere conseguito mediante una sanzione più mite». E il licenziamento lascia alla Figliolia «la possibilità di intraprendere altra professione, con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale».
Fonte: ilgiornale del 13/11/3018

lunedì 12 novembre 2018

Milano, la figlia della Boccassini investe e uccide un pedone sulle strisce | Polemiche sul capo dei vigili.

Milano, la figlia della Boccassini investe e uccide un pedone sulle strisce | Polemiche sul capo dei vigili

Il sindacato di Polizia locale milanese denuncia: "Sul luogo dellʼincidente lʼex collaboratore del magistrato madre dellʼinvestitrice".


Un uomo, investito sulle strisce pedonali da uno scooter: la vittima, il medico e infettivologo Luca Voltolin, muore in ospedale. Un tragico incidente stradale come molti altri accaduti a Milano, non fosse altro che il motorino è condotto dalla figlia di due noti magistrati milanesi, Alberto Nobili e Ilda Boccassini. La motociclista viene indagata per omicidio stradale, ma la notizia per più di un mese non arriva ai giornali. E, a rendere più "sospetta" la vicenda, ci pensa l'Usb, sindacato di base dei vigili urbani, che segnala la presenza sul luogo dell'incidente, prima di volanti e ambulanze, di Marco Ciacci, attuale capo dei vigili di Milano ed ex dirigente di polizia giudiziaria, nonché ex collaboratore della stessa Boccassini, madre dell'investitrice.

L'incidente risale alla sera del 3 ottobre in viale Monte Nero, quando lo scooter guidato da Alice Nobili, 35 anni, urta un pedone sulle strisce pedonali. L'uomo cade e batte la testa: morirà al Policlinico dopo sei giorni di coma. La Procura apre un'inchiesta per il reato di omicidio stradale, indagando la conducente dello scooter, figlia dei due magistrati.

Due cose di questa vicenda colpiscono: la prima è il fatto che nessuno la faccia trapelare, e solo il quotidiano Libero la riprenda (poi ripresa da altri quotidiani milanesi), quasi un mese dopo. La seconda, denuncia il sindacato della Polizia locale Usb, è che che quella sera in viale Monte Nero "sarebbe intervenuto sul posto prima delle pattuglie proprio Marco Ciacci", che "...ha collaborato per anni con la Boccassini quando dirigeva la sezione di polizia giudiziaria della Procura".

Si tratterebbe, sempre secondo il sindacato, di una "violazione del codice" di comportamento dei dipendenti pubblici" che, all'articolo 7 dice: "Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale". Viene inoltre affermato che "non sarebbe stato eseguito l'alcol test, cosa che di norma, anche se non obbligatorio, in incidenti del genere andrebbe fatto". Nel frattempo ad Alice Nobili è stato sequestrato il mezzo e sospesa la patente. Ora a processo, con l'accusa di omicidio stradale, rischia dai 2 ai 7 anni di carcere.

Fonte: tgcom24 del 12 novembre 2018