sabato 5 dicembre 2020

Eurointelligence - Dobbiamo parlare del debito dell'Italia. - (Pubblicato da Carmenthesister )

 

Wolfgang Munchau, il prestigioso editorialista del Financial Times direttore del sito Eurointelligence, auspicando una discussione franca e aperta, dice esplicitamente ciò che il governo italiano tenta maldestramente di nascondere, e cioè che i lavori per la riforma del MES hanno il preciso obiettivo di apparecchiare la prossima ristrutturazione del debito italiano, quando le regole di bilancio verranno ripristinate mentre l'economia italiana ancora si troverà al palo. Suggerisco in proposito l'ottimo commento di Liturri su Startmag e aggiungo un caloroso augurio al Governo che avremo nel 2023, di condurre con successo la nave Italia in queste acque pericolose.   

Newsbriefing, 27 November 2020

Quando David Sassoli, Presidente del Parlamento europeo, ha lanciato l'idea che la BCE cancellasse il debito pubblico contratto a seguito delle misure di sostegno economico del Covid-19, in Germania c'è stata una prevedibile reazione di indignazione. Ora la proposta è stata raccolta da Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di Giuseppe Conte, in un'intervista a Bloomberg che rilancia la questione in maniera importante, pur se la proposta non arriva direttamente da Conte. Ma le reazioni negative sono state immediate. Christine Lagarde ha rifiutato di rispondere a una domanda in proposito, dicendo che la proposta è chiaramente illegale. Siamo d'accordo. Ma la proposta italiana nasce da un giustificato timore delle conseguenze che si avranno per l'Italia quando la Bce ritirerà il sostegno ai titoli di Stato della zona euro, e soprattutto quando verranno ripristinate le regole fiscali. Sembra probabile che ciò accadrà entro il 2023. Sembra inevitabile che il debito pubblico italiano finirà per dover essere ristrutturato. Una delle proposte di Fraccaro era quella di trasformare il debito pandemico in obbligazioni perpetue. Sarebbe di per sé una forma di ristrutturazione del debito.

Per dare alcune cifre, il parere della Commissione europea sul documento programmatico di bilancio dell'Italia, pubblicato la scorsa settimana, prevede che il rapporto debito pubblico / PIL si stabilizzi nel 2021 appena al di sotto del 160% del PIL, in aumento di 25 punti percentuali rispetto alla fine del 2019. Le previsioni del bilancio italiano sono un po' più ottimistiche e prevedono che il debito scenderà ai livelli del 2019 entro il 2031. Si tratta in realtà di un ritmo sostenuto di riduzione del debito, di circa 2,5 punti percentuali all'anno, che però non sarà sufficiente a rispettare il limite dell'indebitamento.

Il Fiscal Compact prevede che il debito superiore al 60% del PIL dovrebbe essere portato a quel livello nell'arco di 20 anni. Partendo da un rapporto debito / PIL del 160%, ciò significa una riduzione del debito del 5% all'anno per 20 anni. È il doppio del ritmo previsto dal governo italiano, per il doppio del tempo. È molto probabile che sia impraticabile. La crescita del PIL nominale dell'Italia non è superiore al 3% da oltre 10 anni, quindi una riduzione del debito annuo di 5 punti percentuali richiede che il governo abbia un avanzo di bilancio del 2% del PIL con un'economia che cresce alla stessa velocità registrata in un qualsiasi anno dalla crisi finanziaria globale ad oggi, quando si sono avuti deficit superiori al 2% del PIL. Qualsiasi percorso di riduzione del debito del governo italiano per il prossimo decennio, anche il più agevole, richiederebbe al governo di mantenere un avanzo di bilancio nominale.

Quindi, non appena le regole fiscali saranno ripristinate, l'Italia si ritroverà in violazione dei vincoli di debito e soggetta a una procedura per disavanzo eccessivo, con la necessità di effettuare un aggiustamento strutturale di forse 4 punti percentuali del PIL. Anche se fosse possibile, con ogni probabilità questo ridurrebbe la crescita e allontanerebbe ulteriormente l'obiettivo del debito. Senza gli acquisti di titoli della BCE, che la banca centrale non potrebbe giustificare con la pandemia ormai sotto controllo, i rendimenti dei titoli italiani potrebbero aumentare di nuovo, aggravando il servizio del debito e rendendo più difficile per il governo italiano raggiungere i suoi obiettivi di riduzione del debito.

Come abbiamo già osservato, anche il governo italiano sta valutando una ristrutturazione del debito con la proposta di Fraccaro di trasformare il debito pandemico in obbligazioni perpetue. Nella zona euro una ristrutturazione del debito pubblico è avvenuta solo in Grecia, con un procedimento ad hoc. Da allora il Consiglio ha lavorato alla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) per creare un meccanismo per la ristrutturazione del debito. Ad esempio, nelle emissioni del debito pubblico europeo sono state introdotte delle clausole di azione collettiva. Queste prevedono le cosiddette clausole “single limb”, che consentono con un singolo voto di ristrutturare tutto il debito per tutti i creditori, piuttosto che avere voti separati per emissioni di debito separate. Il significato  sotteso a tutti questi sforzi è stato quello di gettare le basi per una ristrutturazione del debito italiano, senza dirlo esplicitamente. Il governo italiano lo sa, e ha ritardato il più possibile i lavori, a volte bloccando l'accordo sulla riforma del MES sfruttando le divergenze politiche, ad esempio sull'unione bancaria.

La ristrutturazione del debito italiano è una delle questioni politiche più spinose che non solo l'Italia, ma la zona euro e l'UE nel suo insieme, si trovano davanti. Un programma del MES in Italia sarebbe un anatema. Per quanto queste questioni siano difficili, è ora che si svolga una discussione politica onesta, preferibilmente senza toni moralistici. Ma non stiamo col fiato sospeso....

http://vocidallestero.blogspot.com/2020/11/eurointelligence-dobbiamo-parlare-del.html


Filantrocrazia e marketing della sofferenza: le nuove frontiere dell’imbarbarimento. - Guido Carlomagno

 

Chiunque abbia avuto la sventura di cadere nelle grinfie dei diabolici algoritmi di targetizzazione pubblicitaria, avrà notato come pochi minuti di scorrimento della propria bacheca social siano sufficienti per essere inondati da un fiume di spot finalizzati a promuovere azioni di beneficienza di vario tipo, tendenzialmente a scopo umanitario. Il trend è in sensibile e quasi fuori controllo aumento negli ultimi anni. Sempre più frequente è anche l’utilizzo di immagini di bambini – spesso sofferenti – dal forte impatto emotivo, così come la veicolazione di messaggi dai toni perentori ed emergenziali, se non addirittura imploranti.

Si prendano questi due disperati appelli aventi ad oggetto dei bambini gravemente malati:

“La mia ***** ha solo 4 anni e soffre di un tumore allo stomaco che si propaga fino alla sua testa. Le condizioni della mia primogenita, la mia adorata bambina, stanno peggiorando giorno dopo giorno e la sua unica possibilità di salvezza è quella di sottoporsi a cure dispendiose che io semplicemente non posso permettermi, non ho soldi per salvarle la vita! Il mio cuore si spezza guardando la mia piccola bambina coraggiosa tremare dopo la chemioterapia, piangere per il dolore provocatole dall’ennesimo trattamento. Non posso continuare così.  La mia ***** ama la vita, ama la sua piccola sorellina e la nostra piccola famiglia. E non ci penso nemmeno ad arrendermi. Vi chiedo di non ignorare questo messaggio, lei vuole vivere!”

 

 

“Dio, il mio unico figlio sta combattendo per la sua vita e non c’è nulla che io possa fare per aiutarlo. Vi imploro con le mie mani giunte di donare e salvare mio figlio altrimenti condannato a morire. Ha solo 4 anni, soffre di una letale forma di tumore del sangue.”

 


O questi spot dedicati alle questioni della povertà e della malnutrizione, talvolta messe in relazione con la crisi climatica, recanti immagini di bambini sofferenti al fianco di esortazioni come “Solo tu puoi salvarli” o “Hanno bisogno del tuo aiuto, ora!”.

 

 

Qui si affronta invece il problema della carenza di strumenti medici e assistenza sanitaria, comunicando il nome dei bambini ritratti negli spot per creare maggiore empatia nel destinatario del messaggio e alludendo addirittura a cure che “solo” il potenziale benefattore potrebbe contribuire a donare.

 

 

Ci sono poi numerosissimi spot dedicati a una variegata serie di altre cause, fra cui quella per la ricerca sulle malattie rare e quella per l’accesso all’istruzione, che non differiscono tuttavia dai precedenti in quanto a esposizione dei bambini, toni e contenuti dei messaggi.

 

 

La musica non cambia sui maggiori canali televisivi, i cui costosissimi spazi pubblicitari (in Italia una campagna di dimensioni medie con passaggi da 30 secondi sulle reti Rai o Mediaset richiede un investimento intorno ai 250-300.000€) sono sempre più colonizzati dagli spot umanitari promossi dalle medesime organizzazioni, che evidentemente riservano una parte non trascurabile dei fondi raccolti all’acquisto di tali spazi.
Anche in questo caso, i bambini sono l’oggetto principale degli spot e i messaggi sono altrettanto incalzanti: si va dagli “appelli urgenti” per “migliaia di bambini che stanno morendo di polmonite” ad asserzioni come “la vita dei bambini è in grave pericolo a causa della siccità e dell’emergenza climatica”. Frasi ad effetto come “milioni di bambini oggi non hanno mangiato e andranno a letto con la pancia vuota” o come “i loro bambini non camminano, non giocano e non vivono come gli altri” sono usate con estrema disinvoltura.

Disclaimerl’articolo non mira a esprimere giudizi di merito sul lavoro delle numerosissime organizzazioni internazionali operanti nel settore della carità, né vuole entrare nel dibattito –pur florido – sulle modalità di gestione e indirizzo delle somme raccolte. Non si esclude che nella grande maggioranza dei casi l’attività delle stesse sia mossa da intenti genuini e sia svolta in maniera regolare. E sia – in un contesto come quello attuale – utile se non addirittura indispensabile, rispondendo all’esigenza di rattoppare ove possibile le enormi falle di un sistema economico sempre più disumano e disfunzionale.
Tanto meno si vogliono in alcun modo esortare le persone a boicottare queste raccolte fondi, né più in generale a non compiere atti di beneficienza, nella profonda convinzione che ogni azione caritatevole abbia di per sé connotati del tutto nobili e commendevoli. 

Tanto premesso, l’obiettivo dell’articolo è piuttosto quello di affrontare alla radice la questione e stimolare una riflessione scomoda sui profili di razionalità, equità e giustizia del modello di gestione dei rapporti sociali oggi dominante, del quale la forte espansione del settore della carità rappresenta solo un effetto dal grande valore simbolico, che dovrebbe segnalarne alcune gravi carenze strutturali. Questo per far sì che la meritoria scelta di donare sia auspicabilmente accompagnata da una maggiore comprensione del quadro di insieme e soprattutto che accanto al sentimento di compassione suscitato dalla fruizione degli spot sorga un ancor più profondo senso di indignazione per lo stato attuale delle cose, ancor meglio se canalizzato verso chi quelle cose dovrebbe avere la responsabilità di cambiarle.

Venendo subito al nocciolo della riflessione, può una civiltà auto proclamatasi progredita come quella contemporanea accettare di buon grado che la vita di una povera creatura come quella ritratta nel primo post condiviso sia appesa all’esito di una catena di Sant’Antonio sponsorizzata da un’impresa privata e veicolata attraverso un social network privato? Che la risoluzione dei problemi di malnutrizione e assenza di cure mediche nelle zone più svantaggiate del pianeta sia affidata al buon cuore di privati cittadini e alla loro disponibilità e propensione ad attingere ai propri risparmi per partecipare a collette estemporanee promosse mediaticamente? Come si può affidare al randomico senso di pietas dei potenziali donatori la sorte di bambini e intere popolazioni? Sono domande non certo originali, che verosimilmente a molti è capitato almeno una volta di porsi, ma che troppo spesso si accetta di ignorare.
Ancora, come si possono tollerare livelli sempre più oppressivi e assillanti di estetizzazione della sofferenza, delle malattie, della povertà, in una deriva quasi iconoclasta caratterizzata da una progressiva scomparsa del senso del pudore? Secondo chi promuove questo tipo di marketing comunicativo, il fine ultimo di massimizzare i fondi raccolti giustificherebbe qualsiasi mezzo utile a suscitare il più alto senso di pietà, commozione, compassione nei destinatari dei messaggi. Ma, oltre il piano estetico, quei messaggi mirano soprattutto a generare, seppur in maniera subliminale, un profondo senso di colpa, che aumenta ulteriormente la propensione all’atto di beneficienza. Questo processo di colpevolizzazione di massa è perfettamente funzionale all’affermazione del pensiero oggi dominante, che induce a fare paragoni al ribasso piuttosto che al rialzo (ricordando che c’è sempre qualcuno che sta peggio), a considerare i diritti fondamentali un privilegio calato dall’alto per cui essere grati e riverenti, contribuendo in tal modo a inibire ogni moto di indignazione per le condizioni di degrado che vengono così brutalmente spettacolarizzate.

Gli spot umanitari sono fredda registrazione del fatto, scevra da ogni giudizio di legittimità o giustizia: come da ossessivo mantra contemporaneo, povertà e carenza di risorse sono elevati al rango di totem, esistono in natura, sono un tratto ineludibile del sistema economico, cui non si può porre rimedio in via permanente attraverso azioni collettive sul piano politico, ma che va affrontato all’insegna della contingenza, caso per caso, con il decisivo apporto dei più “fortunati”, i quali hanno l’implicito obbligo morale di mettersi una mano sulla coscienza e supportare quel singolo bambino o quella singola regione o quella singola causa, lasciando che (forse, se capita, ove esista l’interesse dell’organizzazione umanitaria di turno) altri si occupino delle altre.

Ma i destinatari degli spot non sono solo coloro che si trovano all’apice della piramide sociale. Gli spot sono rivolti indistintamente a tutti, quindi il “fortunato” chiamato a donare è di fatto chiunque abbia il “privilegio” – nientepopodimeno – di non fare la fame come i bambini esibiti negli spot. Ora, esattamente con quale faccia, in tempi caratterizzati da un progressivo impoverimento di fasce sempre più ampie di popolazione anche nei paesi sviluppati e da un trend di polarizzazione nella distribuzione della ricchezza senza precedenti, si ha l’audacia di chiedere a persone che vivono sulla soglia di sussistenza, con una capacità di risparmio ridotta al minimo, di risolvere problemi sistemici la cui competenza spetterebbe al piano politico? Spesso quelle persone, smosse da un nobile altruismo unito ai sensi di colpa e pietas sapientemente innescati dagli spot, accettano di prestarsi al gioco e donare quelle che vengono definite piccole somme ma che per loro significano magari rinunciare a una serata al teatro o al cinema o al ristorante con la famiglia. Il problema è che molte di quelle persone lo fanno essendo completamente ignare dei distorti meccanismi di funzionamento dei sistemi monetari e finanziari internazionali; delle facoltà di intervento che governi e banche centrali avrebbero; dell’esistenza di decine di trilioni di dollari che giacciono inoperosi nelle borse mondiali, destinati a un mero gioco speculativo fra i detentori della ricchezza con impatto quasi nullo sull’economia reale; delle numerose voci scettiche sulla reale efficacia del sistema della cosiddetta carità internazionale e sull’effettivo contributo fornito alla risoluzione delle criticità nelle zone di intervento.

E’ questo da sempre l’effetto collaterale dei movimenti per la beneficienza: pur a fronte di innegabili meriti e buoni intenti, essi concorrono involontariamente a smorzare ogni riflessione sulla iniqua bestialità di un sistema sociale dove non sia assicurata senza se e senza ma alla bambina ritratta nel primo post condiviso la possibilità di curarsi, dove non sia inconcepibile l’esistenza di trattamenti sanitari “troppo dispendiosi”, dove la presenza di condizioni di cronica povertà sia tollerata.
L’idea che garantire condizioni di vita e di cura dignitose sia un obbligo di cui ci si debba far carico strutturalmente come comunità umana e come singole comunità nazionali attraverso l’azione degli Stati democratici resta dunque sempre più sfocata, sullo sfondo di un’epoca che al contrario sta rapidamente approdando alla istituzionalizzazione della filantropia, in una distopica transizione dalle socialdemocrazie novecentesche a quella che con un terribile neologismo si potrebbe definire “filantrocrazia”: da una parte, infatti, si chiede alla diffusa platea delle vittime del menzionato processo di polarizzazione della ricchezza di raschiare il fondo dei suoi sempre più esigui risparmi, dall’altra si assurgono i membri del ristretto circolo dei vincitori del processo al ruolo di salvatori dell’umanità. Lungi dall’essere identificati come parte integrante del problema o come illegittimi detentori di risorse che – ove distribuite più equamente – contribuirebbero a estendere il benessere collettivo e porre rimedio alle numerose derive di degrado, i nuovi ultramiliardari (billionaires) vengono oggi ammirati, se non addirittura venerati. Essi sono posti al centro della riproduzione sociale, gli viene affidato un ruolo quasi istituzionale, ma rigorosamente facoltativo: non c’è alcun obbligo a loro carico – anzi si moltiplicano le opportunità di sottrarre le loro oscene accumulazioni di ricchezza a ogni intervento redistributivo sul piano fiscale – ma c’è una grazia volontaria “postuma” (intesa come successiva all’accumulazione semi indisturbata) concessa dall’alto, per il tramite delle loro fondazioni, spesso collegate alle stesse organizzazioni internazionali protagoniste nel settore della carità. Guarda caso, più o meno tutti i suddetti billionaires scelgono di concedere all’umanità la loro grazia (sembra quasi che ci sia un’automatica folgorazione filantropica intorno al raggiungimento del primo miliardo di patrimonio), consci del sommo status sociale oggi riconosciuto alla figura del miliardario benefattore, ma soprattutto consapevoli dell’importanza di dare l’impressione di restituire qualcosa alla collettività (anche perché quello che di fatto restituiscono nell’ambito del loro impegno filantropico è comunque una porzione infinitesimale rispetto a quanto accumulato e a quanto una maggiore equità distributiva imporrebbe), nel malcelato tentativo di inibire o ritardare una generale presa di coscienza sul fatto che “una società che ha bisogno di filantropi e benefattori è una società in cui regnano la diseguaglianza e l’ingiustizia”.

Provocatoriamente, ma non troppo, si potrebbe affermare che quella fin qui descritta è una condizione di barbarie ineguagliata nella storia dell’umanità: in epoche premoderne, la bambina del primo post condiviso avrebbe avuto scarse possibilità di salvezza semplicemente perché non esistevano cure adeguate. Nessuno si sarebbe verosimilmente sognato di mettere ostacoli di tipo economico alla sua cura, ove essa fosse esistita. Al presunto apice della civiltà e del progresso, invece, le cure esistono ma l’intera società accetta senza batter ciglio che la bambina vi acceda solo se per combinazione la colletta per “trovare i soldi” va a buon fine, se il filantropo di turno si appassiona alla causa. Oppure accetta che la ricerca su molte malattie rare, non avendo i crismi per essere condotta in maniera profittevole (“per la ricerca trovare una cura non è vantaggioso economicamente”; “le malattie genetiche rare prese singolarmente non sono statisticamente rilevanti”, per cui esse sono “trascurate dai grandi investimenti pubblici e industriali” e “orfane di ricerca e farmaci”), sia interdetta, rallentata, resa dipendente dai contributi filantropici.

L’orizzonte di immaginazione è ormai atrofizzato: neanche sul piano teorico viene concessa la possibilità di concepire una società dove esistano alcuni diritti e servizi che siano scevri da ogni connotato economico, come peraltro già sancito formalmente da tutte le Costituzioni più evolute, una società in cui a tali diritti e servizi non sia nemmeno associato un prezzo o un qualsiasi valore monetario. Tutto ciò è utopico, hanno insegnato a credere. Probabilmente lo è, ma almeno si comprenda che si tratta di utopia non in sé ma nel contesto dell’odierno squilibrio dei rapporti sociali. Si comprenda che le risorse umane, scientifiche, tecnologiche per garantire diffusamente benessere e condizioni di vita dignitose esisterebbero e che tali obiettivi sarebbero pertanto raggiungibili ove si decidesse di organizzare in maniera più equa e razionale le modalità di allocazione e distribuzione di quelle risorse. In altre parole, la scarsità di risorse così come viene declinata e sfoggiata in quest’epoca, a giustificazione dell’impossibilità di porre rimedio all’enorme mole di ingiustizie sociali che proliferano nel mondo, è in realtà un elemento artificiale, frutto di precise e arbitrarie scelte politiche, compiute in aperto contrasto con i valori universali posti a fondamento della convivenza civile fra uomini e in forza della prevaricazione che alcuni gruppi sociali possono oggi esercitare su altri.

Già riconoscere la brutale e scomoda verità che la bambina del primo spot condiviso, non dovesse malauguratamente riuscire a guarire a causa della mancanza di soldi per pagare le cure, morirebbe non per un tragico caso ma per una precisa scelta politica, sarebbe un primo passo verso l’individuazione dei tratti di profondo regresso che caratterizzano una società in cui tale scelta politica viene consentita, una società in cui si passa da uno spot social su una bambina in fin di vita a quello di un orologio o di un detersivo come se niente fosse. Vale la pena domandarsi: è tutto ciò davvero compatibile con la civiltà e il progresso fieramente ostentati urbi et orbi o si è di fronte a un’inedita frontiera di imbarbarimento? Oppure ancora, che razza di contorto e irrazionale sistema sociale è quello in cui la risoluzione delle situazioni di maggiore ingiustizia e iniquità viene affidata a disorganiche iniziative di soggetti privati, i quali peraltro, nell’intento di massimizzare i fondi raccolti a supporto di tali iniziative, sono costretti a impiegare a loro volta ingenti somme di denaro (nell’ordine dei milioni) per affittare spazi pubblicitari super dispendiosi da altri soggetti privati, somme che per forza di cose vanno a erodere la parte dei fondi devoluti con sacrificio dai donatori che giunge effettivamente a destinazione?

Si badi bene, non si vuole in alcun modo banalizzare una questione di estrema complessità: è chiaro che non esistono soluzioni magiche facilmente alla portata. Da una parte, è sicuramente doveroso portare il dibattito su una dimensione strettamente politica, invocando il ripristino e la diffusione di modelli di Stato sociale in grado di imporre strutturalmente e in via permanente il rispetto dei diritti fondamentali, di favorire una distribuzione della ricchezza infinitamente più equa di quella che si registra oggi, di rimettere al centro della storia gli Stati sovrani nazionali ridimensionando il ruolo di tutte le proliferanti entità privatistiche sovranazionali; è poi altrettanto importante valutare modalità di intervento nelle zone più in difficoltà alternative rispetto a quelle messe in atto finora sulla base dei protocolli della carità internazionale, la cui efficacia è quanto meno dubbia visto che – come già evidenziato – in molti casi il risultato che ne consegue può essere quello di aumentare la dipendenza dagli aiuti, cronicizzando i problemi piuttosto che risolvendoli. Dall’altra, bisogna tuttavia riconoscere con onestà che molte delle questioni irrisolte riguardano alcuni specifici contesti di epocale, atavica e molteplice criticità, come quella che caratterizza il continente africano. E che l’incapacità di individuare soluzioni organiche e di lungo periodo al riguardo è spesso attribuibile – oltre che a gravi carenze politiche e di sistema – a dinamiche esogene, come ad esempio quella demografica e quella climatica, che complicano ulteriormente la situazione. In un simile scenario – giova ribadirlo dopo averlo già fatto in apertura di articolo – sarebbe pertanto ingeneroso affibbiare alle organizzazioni attive nel settore della carità, pur con tutte le profonde perplessità espresse in merito al modello di intervento da esse promosso e incarnato, responsabilità che esse non hanno o non riconoscerne alcuni indubbi successi ottenuti o, più in generale, sottacerne i meriti in termini di gestione contingente dell’enorme mole di emergenze umanitarie esistenti.

Quello che si sottopone a critica feroce in relazione a tali entità, oltre alle già dibattute dimensioni estetica e subliminale delle loro modalità comunicative, è piuttosto la veicolazione da parte delle stesse di messaggi come questo:

 

 

Spot del genere sanno di odiosa presa in giro se non di infimo inganno: quanto è ipocrita e fuorviante, infatti, associare la sacrosanta lotta “per realizzare quell’idea di sanità gratuita, universale e di eccellenza” citata nel post (così come ogni altra lotta per una “società più giusta”) a un sistema di donazioni volontarie di privati cittadini? Come si può pensare di combattere tali lotte sull’onda della filantropia, a forza di improvvisati atti di carità?
Non è di certo donando all’infinito che i problemi si risolvono, anzi il sempre crescente clamore intorno alla beneficienza – unito alla presentazione della stessa come la soluzione ai mali del mondo invece che come un palliativo buono al più a mettere toppe minuscole a falle gigantesche – ha il solo effetto di contribuire ulteriormente alla narcotizzazione della coscienza collettiva, rimandando in maniera indefinita il momento della lotta vera, quella da condurre sull’unico piano dove ha senso condurla: il piano politico.


https://comedonchisciotte.org/filantrocrazia-e-marketing-della-sofferenza-le-nuove-frontiere-dellimbarbarimento/

Danilo Toninelli.

 

Quattro nostri colleghi eletti in Europa hanno deciso di lasciare il MoVimento 5 Stelle per ragioni di presunta coerenza che sarebbe venuta meno tra noi. Stanno commettendo un grande errore e non sono d'accordo con quanto sostengono.

Il M5S non sarà perfetto ma non si è mai piegato al Sistema politico-affaristico-mediatico che ha distrutto il Paese e che ancora lotta contro di noi.
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Alcune battaglie straordinarie le abbiamo vinte, altre no perché mancavano le condizioni per farlo.
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Siamo la forza politica più onesta e altruista di tutto lo scenario politico.

E lo siamo soprattutto grazie alle regole e ai principi che ci siamo dati. Dal taglio degli stipendi al dimettersi dalla carica in caso di uscita dal Movimento.

Su quest’ultimo nostro principio cardine spero che ci sia la coerenza di farlo. Perché fuori ci sono di certo quattro persone che non vedono l’ora di entrare al Parlamento Europeo per battagliare in favore dei cittadini sotto la bandiera del Movimento.
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Chi si ritira da questa lotta si faccia da parte.
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Altrimenti la più ovvia delle conclusioni è che a trasformarsi non sia stato il Movimento,
che continua ad essere baluardo contro le porcherie del passato,
ma chi ne esce mantenendo poltrona e super stipendio.
Tradendo un patto con gli elettori.

https://www.facebook.com/photo?fbid=1710002249181535&set=a.465946793587093

Conte, non temo il voto sul Mes, sei manager per 60 progetti del Recovery Fund.

 

Renzi, se va sotto sul Mes il premier dovrebbe dimettersi. Di Maio, non diamo il fianco a chi vuole sostituire il presidente del Consiglio.

Siamo in guerra con il virus e "l'Italia partecipa ai processi riformatori europei con un ruolo da protagonista e così sarà fino a quando avrò responsabilità di governo". Lo dice il premier Giuseppe Conte in una lunga intervista con la Repubblica.

"Non temo il voto sul Mes" sottolinea. Il Recovery Fund: 'L'attuazione affidata a una struttura di sei manager che potranno agire con poteri sostitutivi", i progetti "esprimeranno una chiara visione del Paese". A chi ipotizza rimpasti fa sapere: "dovete uscire allo scoperto e chiedere cosa volete".

Secondo Matteo Renzi il voto parlamentare sul Salva-Stati non riserverà sorprese, ma in caso contrario, "è naturale che il presidente del Consiglio si dovrebbe dimettere". Lo dice il leader di Italia Viva in un'intervista con La Stampa. Quello del rimpasto di governo per l'ex premier è un "tema chiuso" dopo l'aver "sentito Conte dire, nel giorno in cui abbiamo avuto mille morti che lui dispone dei migliori ministri. Io ne prendo atto". Quanto a durare fino al 2023 "non so. Se questa è la squadra non ci giurerei, ma magari sarò smentito".

"Ho capito che mi dite che Gualtieri non vi ha dato ascolto in Commissione ma non è che per questo noi andiamo contro il presidente del Consiglio che abbiamo nominato noi. Io non ho paura di tornare al voto. Il problema è che perdiamo Conte. E trovare un altro nome come il suo non ci riusciamo". Così Luigi Di Maio chiudendo l'assemblea M5s dove ha aggiunto: "Io non ho paura neppure di un rimpasto, non ho paura di far un'altra squadra di governo. Ma se diamo il fianco a questa cosa quì, diamo fianco a quella parte delle forze politiche che vuole cambiare il presidente del Consiglio".

https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2020/12/05/conte-non-temo-il-voto-sul-mes-_6c2f86df-f1a3-4aba-82e2-c6e5cc26c619.html

Marcucci contro la stretta sugli hotel: è nel cda di 2 società che li gestiscono. - Stefano Vergine

 

Il re della protesta. Il dem ha criticato le chiusure serali a dicembre e chiesto deroghe “per gli alberghi il 31”.

La critica principale contro il nuovo Dpcm è arrivata dall’uomo del Pd più fedele a Italia Viva: Andrea Marcucci, ex renziano e attuale capogruppo dei dem al Senato. “Mi rivolgo al premier Conte: cambi le norme sbagliate inserite nel decreto sulla mobilità comunale del 25, 26 e 1 gennaio. Lo chiedono le Regioni e 25 miei colleghi senatori del Pd”, ha detto due giorni fa il senatore toscano. Nelle proposte fatte al governo dalla fronda interna che guida, Marcucci ha poi voluto specificare quale aspetto in particolare vorrebbe modificare: le chiusure dei ristoranti il 31 dicembre. “Per ora restano alle 18, noi abbiamo chiesto di verificare per gli alberghi”. La richiesta non verrà ricordata per l’assenza di interessi personali.

Una delle misure contenute dal nuovo Dpcm prevede che i ristoranti all’interno degli alberghi non possano servire il cenone di Capodanno al tavolo. Dovranno chiudere al pubblico esterno, sarà consentito solo il servizio in camera. Non proprio la notizia che si aspettavano a Barga, borgo lucchese a metà strada tra la città e la Garfagnana, da sempre terra dei Marcucci. Tra i vari settori economici in cui è attiva la famiglia del senatore dem c’è infatti quello dell’ospitalità, con hotel e ristoranti, e il divieto di offrire il cenone a clienti esterni non potrà che peggiorare i conti delle società di famiglia. L’affare principale dei Marcucci è di gran lunga la sanità: Kedrion, oltre 2mila dipendenti, multinazionale dei vaccini e prodotti medicinali derivati da plasma umano. Ma la famiglia del senatore ha sempre avuto anche il pallino dell’ospitalità, hotel e ristoranti. Due anni fa ha siglato una partnership con il Gruppo Marriott, multinazionale americana con strutture di lusso in mezzo mondo. Ne è nata una società per gestire insieme il Renaissance Tuscany Il, un mega resort con 600 ettari di terreno nel cuore della Garfagnana. La società della partnership si chiama “Shaner Ciocco Srl”: i Marcucci hanno la minoranza del capitale (40%) e il capogruppo del Pd al Senato siede nel consiglio d’amministrazione. L’ultimo bilancio disponibile, quello del 2019, dice che le cose vanno piuttosto bene. La società ha fatturato 9 milioni di euro, riuscendo a chiudere con un piccolo utile netto (16mila euro). Merito dei tanti clienti accorsi al Renaissance Tuscany Il, l’enorme complesso ricettivo tra le colline lucchesi, con piscine, spa e tre ristoranti. Che, la notte di San Silvestro, difficilmente faranno il tutto esaurito.

È messa invece molto meno bene la società che i Marcucci controllano al 100%, senza partner esterni. Si chiama “Il Ciocco Spa”, anche questa ha sede a Barga e conta su un ricco patrimonio turistico tra le colline lucchesi: tre alberghi per un totale di 58 camere, cui si aggiungono 12 chalet, 29 appartamenti e un lido sulla spiaggia di Viareggio. A differenza della joint venture con Marriott, qui il bilancio segna profondo rosso. L’anno scorso, a fronte di un fatturato di 3,2 milioni, “Il Ciocco Spa” – nel cui cda siede il senatore – ha chiuso in perdita per 2,5 milioni di euro. Un buco che si accumula a quello dell’anno precedente, quando il rosso era stato di 4,2 milioni, e a quello dell’anno prima ancora, quando le perdite erano state pari a 2,7 milioni.

Il risultato finale è scritto alla voce debiti: continuano ad aumentare, e alla fine del 2019 erano arrivati a 17,2 milioni, per più della metà nei confronti di banche. L’anno del Covid, e il divieto di ospitare a cena clienti esterni a San Silvestro, non potranno che far peggiorare le cose. Ma sicuramente, quando ha chiesto al governo di cambiare l’orario di chiusura dei ristoranti degli alberghi il 31 dicembre, Marcucci non ci stava pensando.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/05/marcucci-contro-la-stretta-sugli-hotel-e-nel-cda-di-2-societa-che-li-gestiscono/6027312/

La Signora del Grillo. - Marco Travaglio

 

I cosiddetti professori dell’Università per stranieri di Perugia a colloquio sulla promozione del calciatore uruguaiano Luis Suárez, promessa alla Juventus per fargli avere la cittadinanza subito anziché nei quattro anni canonici e consentirne l’ingaggio immediato: “Ma te pare che lo bocciamo!?”. “Oggi c’ho l’ultima lezione e me la devo preparare perché non spiccica ’na parola”, “e che livello dovrebbe passa’ ’sto ragazzo… B1?”, “Eee, non dovrebbe, deve, passerà, perché con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare perché non ha il B1”. Il campione madrelingua che rassicura la prof: “Stai tranchilla porché io lo estudio in l’aviòn”. I vertici bianconeri che convocano i presunti docenti come fossero raccattapalle. E chiamano la ministra dei Trasporti Paola De Micheli, che con molto trasporto non dice “come vi permettete?”, ma li indirizza al capo di gabinetto del Viminale, perché i clandestini sono un guaio solo sotto un certo reddito (“10 milioni a stagione”!).

Al di là degli illeciti penali e sportivi, tutti da accertare nelle indagini, il caso Juve-Suárez è tutto qui. Una storia di ordinario privilegio, una volta si diceva “arroganza del potere”. L’ennesimo capitolo della saga infinita del Marchese del Grillo, personaggio romanzato da scrittori e sceneggiatori, eppure molto più realistico di qualunque figura realmente esistita, nell’Italia della scorciatoia, del “chi conosciamo?”, del “lei non sa chi sono io”, anzi dell’“io so’ io e voi nun siete un cazzo”. L’Italia che celebra Maradona non solo come un prodigio del pallone, ma anche come una via di mezzo fra Robin Hood e Che Guevara sempre in lotta con i poteri forti, a parte i camorristi del clan Giugliano, e sempre correttissimo in campo, a parte i gol con la mano, perché lui era lui e noi non siamo un cazzo. C’era una volta lo “stile Juventus”: ipocrita finchè si vuole, ma attento a salvare almeno le apparenze. Luciano Moggi segnalava i talenti del calcio, perché lo sapeva fare benissimo, ma nella sede della Signora non metteva piede perché Boniperti non ce lo voleva e l’Avvocato lo chiamava “il nostro stalliere”. Poi cadde anche il velo dell’ipocrisia, “la tassa che il vizio paga alla virtù” (La Rochefoucauld). Lucianone entrò dalla porta principale, come direttore generale. E fu subito Calciopoli: condanne penali (poi prescritte), radiazioni sportive, retrocessione in B, revoca dei due scudetti truccati. Eppure ancora 15 anni dopo Andrea Agnelli, che dell’Avvocato ha solo il cognome, rivendica i due trofei sporchi. Poi, quando vince 3-0 a tavolino contro il Napoli assente perché bloccato dall’Asl, dichiara che “la Juventus rispetta sempre le regole”. Come no. Era dall’ultimo film di Totò che non si rideva tanto.

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venerdì 4 dicembre 2020

La Mes è finita. - Beppe Grillo

 

di Giuseppe Rag. Grillo – Non starò qui ad elencare le mille ragioni che fanno del Mes uno strumento non solo inadatto ma anche del tutto inutile per far fronte alle esigenze del nostro Paese in un momento così delicato.

A farlo, ogni qualvolta gli viene messo un microfono sotto al naso, ci ha già pensato il nostro Presidente del Consiglio Conte dicendo più e più volte che “disponiamo già di tantissime risorse (fondi strutturali, scostamenti di bilancio, Recovery Fund ecc..) e dobbiamo saperle spendere”.

Dunque non è una questione di soldi, che sembrano esserci, ma come e dove usarli.

Dal momento che però il dibattito italiano, rimpasto a parte, sembra impegnato esclusivamente su come reperire altri fondi per dar ossigeno alla sanità e alle imprese italiane, ecco due proposte assolutamente praticabili, sacrosante e soprattutto non vincolanti (che non prevedono alcun tipo di indebitamento per l’Italia) che porterebbero un sacco di miliardi nelle casse dello Stato in poco tempo, semmai ce ne fosse bisogno.

1. Far pagare l’Imu e l’Ici non versata sui beni immobili alla Chiesa.

Nel Novembre del 2018, una sentenza della Corte di giustizia europea, ha stabilito che lo Stato italiano deve riscuotere l’Ici non versata dalla Chiesa Cattolica tra il 2006 e il 2011 in virtù di una deroga concessa dal governo Berlusconi, successivamente ritenuta irregolare.

E’ giusto ricordare che, secondo i dati di Gennaio 2018, la Chiesa cattolica è proprietaria di 140 università, 6.228 scuole materne, 1.280 scuole primarie, 1.136 scuole secondarie, 399 nidi d’infanzia, 354 consultori familiari, 1.669 centri di difesa della vita e della famiglia, 111 ospedali di medie dimensioni, 10 grandi ospedali, 1.853 ospedali e case di cura, 136 ambulatori. Tutte queste strutture portano alle casse della Chiesa 620 milioni di euro all’anno dall’Imu non pagata. La questione può essere così riassunta: è giusto che i beni immobili della Chiesa, presenti sul territorio nazionale, siano sottoposti alla stessa tassazione a cui sono sottoposti anche tutti gli altri immobili di proprietà di privati cittadini? Aldilà di come uno la possa pensare, anche alla luce della recente sentenza Ue, la riposta è chiara. Si.

Al momento della sentenza della Corte di giustizia però, era in carica il governo Conte I che, si dice, non fece nulla perché la Lega (con la sua ostentazione di crocefissi e rosari) non intendeva mettersi “contro” la Chiesa. Come se chiedere il pagamento di tasse dovute fosse un atto vessatorio.

Il primo segnale positivo nella scia di quanto stabilito dall’Unione Europea arriva a fine Ottobre 2019 col governo Conte II quando 76 parlamentari del M5S depositano a Palazzo Madama un disegno di legge che punta a recuperare l’Imposta comunale sugli immobili (Ici) non pagata dalla Chiesa e dagli enti no profit tra il 2006 e il 2011 e far pagare la subentrante Imposta municipale (Imu) per quegli immobili sfruttati commercialmente dagli enti religiosi ma che «eludono l’imposta». Un arretrato che, secondo le stime Anci, varrebbe circa 5 miliardi di Euro. Il disegno di legge proposto dal Movimento puntava ad essere tradotto in emendamento nella manovra economica 2019 principalmente per evitare gli aumenti della cedolare secca, dei bolli sugli atti giudiziari, del biodisel e della plastic tax.

Il perché quella proposta sia rimasta sepolta nei cassetti di Palazzo Madama resta incerto, forse, come qualcuno sostiene, i tentennamenti del Pd che su questo tema (come per l’eutanasia) sembra dominato in modo inquietante dalla componente cattolica hanno svolto un ruolo decisivo.

Sta di fatto che ad un anno di distanza e col mondo totalmente stravolto dal Covid, quei soldi tornerebbero utili per un sacco di altri interventi più urgenti e non più prorogabili.

Per quanto ancora il Ministero dell’economia può continuare ad infischiarsene della sentenza dell’Unione Europea?

2. Una patrimoniale ai super ricchi.

Da giorni ormai rimbalza sui social come sui giornali l’ombra nefasta dell’avvento di una patrimoniale sui beni mobili e immobili degli italiani. La proposta presentata da Leu e Pd e subito bocciata dalla commissione Bilancio della Camera che l’ha definita “inammissibile” prevedeva un’aliquota progressiva minima dello 0,2% sui patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500 mila euro e fino a 1 milione di euro, per arrivare al 2% oltre i 50 milioni di euro. Ma, fortunatamente, non è passata e quindi capitolo chiuso.

E se per una volta, invece che sovraccaricare di tasse la classe media che sta lentamente scomparendo, si procedesse a tassare soltanto i patrimoni degli italiani più ricchi?

Nel nostro Paese, secondo l’ultimo rapporto sulla ricchezza globale del Credit Suisse, ci sono 2.774 cittadini con un patrimonio personale superiore a 50 milioni di euro; se sommati, i loro patrimoni, ammonterebbero addirittura a circa 280 miliardi. Secondo la prestigiosa rivista Forbes, che tutti gli anni si preoccupa di stilare le sue consuete classifiche dei paperoni in giro per il mondo, in Italia ci sono altre 40 persone miliardarie o multimiliardarie. Non sarebbe più equo, dunque, rivolgersi a loro piuttosto che al resto della popolazione già stremata da un anno tragico dal punto di vista finanziario, oltre che sanitario?

Un contributo del 2% per i patrimoni che vanno dai 50 milioni di euro al miliardo genererebbe un’entrata per le casse dello Stato poco superiore ai 6 miliardi. Uno del 3% dato dai multimiliardari potrebbe fruttare circa 4 miliardi ulteriori.

Si tratterebbe di ragionare come ragiona una qualsiasi famiglia in difficoltà economica che, prima di rivolgersi alle banche o (peggio) agli strozzini, decide di andare a bussare alla porta di un parente alla lontana che se la passa decisamente meglio. Quello che per una famiglia è tanto (una somma di denaro per uscire dalle difficoltà) per il ricco parente è niente o molto poco. In un momento devastante e di grande difficoltà come questo nessuno può tirarsi indietro e, proprio come una famiglia in difficoltà, l’Italia ha bisogno di dire ai suoi concittadini più abbienti che il Paese ha bisogno di loro.

Una patrimoniale così concepita, significherebbe per le casse dello Stato un’entrata garantita di almeno 10 miliardi di euro per il primo anno, e di ulteriori 10 se la misura venisse confermata anche per il 2022.

Se sommate, le due proposte, porterebbero nel biennio 2021/2022 all’incirca 25 miliardi di euro subito spendibili e liberi da vincoli di rientro.

Per questo motivo incaponirsi sull’assurda discussione sui fondi del Mes, che vengono descritti come la panacea di tutti i mali, è una mera perdita di tempo ed energie.

I soldi del meccanismo europeo, è giusto ricordare che (convenienti o meno) sempre debito sono. Un debito che ormai ammonta a oltre 150 miliardi e che, prima o poi, dovrà essere ripagato dalle vere vittime morali di tutta questa storia. I giovani e le nuove generazioni.

https://www.beppegrillo.it/la-mes-e-finita/