martedì 6 luglio 2021

Un altro fenomeno. - Marco Travaglio

 

Siccome non si finisce mai di imparare, ci siamo segnati alcune perle di Stefano Bonaccini, incalzato dal Corriere con domande ficcanti del tipo “Presidente Bonaccini, Emilia-Romagna caput mundi?”. 

1) “Dobbiamo ritrovare un’identità ben definita”. Parole sante, se Bonaccini non fosse affiliato a Base Riformista per Altezza Renziana, la corrente pidina che lavorò alacremente per indebolire il governo Conte in cui il Pd era protagonista e sostituirlo col governo Draghi in cui il Pd è la ruota di scorta. 

2) Conte è caduto perché “a un certo punto gli sono mancati i numeri in Parlamento”. Ma tu pensa. E chissà chi glieli ha fatti mancare: dev’essersi scordato (anche lui) come si chiama. 

3) “Io ero fortemente contrario con la linea del mio partito che diceva o Conte o morte. È stato un grave errore”. In effetti è bizzarro che, con 7 ministri su 21, il Pd appoggiasse il Conte-2 in piena pandemia, campagna vaccinale e scrittura del Pnrr. Avrebbe dovuto unirsi alle opposizioni a urlare “Conte a morte”, per riportare al governo Lega e FI e passare da 7 ministri a 3. Purtroppo Zinga non è astuto come Bonaccini e non ci pensò. 

4) “Draghi non deve essere messo in discussione, mi auguro che rimanga fino al termine della legislatura… L’Italia ha bisogno di stabilità per uscire dalla pandemia”. Ma tu guarda. Sei mesi fa, con l’Italia in zona rossa per la seconda ondata, era sbagliato dire “o Conte o morte” per garantire la stabilità sino a fine legislatura; ora viceversa, con tutta l’Italia in zona bianca, bisogna dire “Draghi o morte” perché Bonaccini ha scoperto improvvisamente il valore della stabilità sino a fine legislatura. E, fra Draghi e la morte, ha scelto entrambe. 

5) “Da quando sono presidente di Regione ho già avuto a che fare con 5 esecutivi”. Povera stella: a pensarci prima, i suoi amichetti renziani avrebbero potuto risparmiargli almeno il quinto, se avessero detto “o Conte o morte”. Ma fino a cinque per lui va bene: è l’idea del sesto che lo angoscia. 

6) “L’agenda Draghi contiene gran parte delle nostre sensibilità”. Che poi è la stessa cosa che dicono Lega, FI, Confindustria e Iv. L’intervistatore si scorda di domandargli quali sensibilità, ma le riassumiamo noi: condono fiscale, sanatoria dei precari della scuola, sblocco dei licenziamenti, taglio dei fondi al Sud, alla sanità territoriale e all’ambiente nel Pnrr, stop al cashback e al salario minimo, infornate di lobbisti turboliberisti ecc. 

7) “L’alleanza col M5S? No a decisioni a tavolino”. Qui, volendo, si poteva domandargli con chi, in alternativa al M5S, dovrebbe allearsi il Pd, visto che ha il 18% e le destre il 50: Iv? Calenda? Otelma? Ma qui la Volpe di Campogalliano non ha torto: se il Pd è la robaccia che ha in mente lui, i 5S devono fuggirne a gambe levate.

ILFQ

Carni sintetiche, gli investitori ci credono. Entro il 2030 business da 25 miliardi $. - Micaela Cappellini

 

Oggi il mondo della bistecca sintetica comprende meno di 100 start-up. Nel 2020, nonostante la pandemia, ha attirato circa 350 milioni di dollari in investimenti e dall’inizio di quest’anno è già arrivata ad altri 250 milioni. 

Oggi, per mettere in tavola un vassoio di manzo wagyu, la preziosissima carne giapponese, si spendono fino a mille euro al chilo. Eppure tra meno di dieci anni, di euro, ne basteranno solo dieci. Fantascientifico? Non troppo: benvenuti nel futuro della carne sintetica, dal laboratorio alla padella senza passare dalla stalla. Perché tra microscopi e alambicchi, si può riprodurre di tutto, persino il manzo wagyu. O il salmone selvaggio del Nord, le ostriche di Normandia e, perché no, anche la carne di Dodo, l’uccello ormai estinto. Tutto al prezzo politico di cinque dollari al chilo.

Sembra fantascienza, ma sono previsioni da non sottovalutare, queste, perchè portano la firma degli analisti McKinsey. E se un think tank di questo calibro si è cimentato nel primo studio organico del settore, significa che la carne sintetica è destinata a diventare un business di un certo peso. Per l’esattezza, un affare da 25 miliardi di dollari entro il 2030. In Europa le associazioni degli allevatori - con quelle italiane in testa - combattono contro i tentativi di Bruxelles anche solo di sdoganare il nome hamburger per le polpette fatte di carne-non carne. In Italia il fenomeno carne sintetica di fatto lo si subisce. Ma altrove, nel mondo, la ricerca corre e fa passi da gigante. Per esempio, alla Orbillion Bio già si studia come replicare il manzo wagyu, mentre alla Vow si lavora sulla fedele riproduzione del gusto della carne di canguro e di alpaca.

350 milioni nel 2020.

Oggi il mondo della bistecca sintetica comprende meno di 100 start-up. Nel 2020, nonostante la pandemia, ha attirato circa 350 milioni di dollari in investimenti e dall’inizio di quest’anno è già arrivata ad altri 250 milioni. Sul settore si sono buttati alcuni tra i più grandi player internazionali del settore delle proteine animali (come Tyson e Nutreco) e investitori del calibro di Temasek e SoftBank.

Per produrre hamburger e filetti che abbiano lo stesso odore, lo stesso gusto e la stessa consistenza dei loro omologhi naturali ci sono varie tecniche: dall’estrusione alla stampa 3D, dall’utilizzo di proteine vegetali alla coltivazione in laboratorio di cellule animali. Secondo gli esperti della McKinsey, più ancora che le resistenze filosofiche, è il costo lo scoglio più grande da superare per convincere i consumatori a passare alla carne sintetica. Ma anche su questo fronte l’industria ha fatto passi da gigante. Nel 2013, per il primo hamburger prodotto con carne coltivata in laboratorio, si spendono 300mila dollari. Passano neanche tre anni, e il prezzo di mercato di una polpetta prodotta dalla Memphis Meat scende a 20mila dollari alla libbra. Fino ad arrivare all’inizio di quest’anno, quando la Future Meat Technologies annuncia di essere riuscita a realizzare un petto di pollo da 160 grammi a soli quattro dollari. Da qui alla soglia dei 5 dollari al chilo, il passo è davvero breve. Gli analisti della McKinsey non hanno dubbi: entro il 2030, la carne sintetica arriverà a costare tanto quanto quella animale.

Il bilancio occupazionale.

A quel punto, molto del futuro della carne di laboratorio dipenderà dalle scelte dei consumatori e da quelle della politica. Calcola sempre McKinsey che per produrre 500mila tonnellate di proteine sintetiche occorrono circa 5mila lavoratori, che è più o meno quanti ne occupa oggi la filiera della carne convenzionale. I governi che scelgono di andare in questa direzione, insomma, non andrebbero incontro a una perdita di posti di lavoro. Alle fabbriche produttive, poi, andrebbe aggiunto tutto l’indotto, a cominciare dalle materie prime come il tradizionale zucchero, ingrediente fondamentale di ogni processo di fermentazione. Per produrre 1,5 milioni di tonnellate di carne sintetica servono fino a 440 milioni di litri di soluzione, l’equivalente di 176 piscine olimpioniche.

Attualmente, però, di questo liquido per la coltura cellulare l’industria farmaceutica ne produce solo 20 milioni di litri. È facile intuire che la carne-non carne si candida a diventare un affare anche per Big Pharma.

IlSole24Ore

G20 e multinazionali, nei paradisi fiscali nascosto un tesoro uguale al Pil dell'Italia. - Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi

Illustrazione di Maria Limongelli/Il Sole 24 Ore

Da Jersey all'Olanda le grandi corporation hanno ammassato utili per oltre 2.000 miliardi di dollari per non pagare le imposte. Ogni anno spostati 700 miliardi per eludere le tasse.

Il dossier del Fisco statunitense con gli ultimi dati è arrivato sul tavolo di Joe Biden all'inizio di marzo 2021. Nel 2018 – rivelavano quelle cifre dell'Internal Revenue Service - le multinazionali americane avevano accumulato fuori dagli Stati Uniti profitti per più di 3.300 miliardi di dollari, una cifra superiore al Prodotto interno lordo della Francia. Il 63% di quel tesoro offshore – vale a dire oltre 2.000 miliardi, pari al Pil dell'Italia – era ammassato in soli 11 paradisi fiscali.

Ben 412 miliardi erano stati spostati nell'isola di Jersey, un fazzoletto di terra di 18 chilometri per cinque al largo della Normandia. Altri 386 miliardi di utili erano parcheggiati in Olanda, paese “frugale” nel cuore dell'Unione europea. E poi 328 miliardi in Lussemburgo, 240 alle Bermuda, 191 alle Cayman, 81,1 miliardi di dollari in Irlanda.

La distorsione del mercato.

Ma i dati del Fisco americano consultati da “Fiume di denaro” evidenziavano soprattutto un'enorme distorsione del mercato internazionale. Perché leggendo i bilanci delle multinazionali Usa passati al setaccio dall'Internal Revenue Service balzava agli occhi un'anomalia che non era più politicamente giustificabile.

Di fronte ai 2.000 miliardi nascosti negli 11 piccoli paradisi fiscali, i profitti accumulati dalle grandi corporation americane in Germania erano di soli 7,6 miliardi di dollari, in Italia erano appena 13,6 miliardi, in Spagna 17,9 e in Francia di 37,2. Paragonati ai 714 miliardi conservati nella piccola Olanda e nel minuscolo Granducato del Lussemburgo, i dati relativi alle grandi economie dell'Unione europea erano la conferma che il sistema fiscale internazionale era definitivamente impazzito e che occorreva riportarlo sui giusti binari, se si voleva finanziare l'ambizioso piano dell'amministrazione Biden per dare una scossa all'economia degli States messa in crisi dal covid 19.

L'offensiva di Biden.

Così, il 31 marzo a Pittsburgh, in Pennsylvania, Biden comincia il cannoneggiamento contro le multinazionali. Il capo della Casa Bianca annuncia che aumenterà dal 21% al 28% le tasse sui profitti delle società. “Un recente studio – annuncia il presidente degli Stati Uniti - ha dimostrato che 91 società sulle prime 500 elencate da Fortune hanno pagato zero tasse nel 2018. Vi chiedo, come è possibile che un insegnante debba versare il 22% e Amazon zero? Non voglio punirle, ma è sbagliato”.

Non c'è alcuna ragione economica perché una tale massa di profitti venga contabilizzata in paesi dove le multinazionali non hanno nessuna struttura produttiva. L'unica ragione è quella fiscale: pagare sempre meno tasse.

E così, mentre le piccole e medie imprese soffocano sotto il peso delle imposte, le multinazionali ingrassano, pagano balzelli irrisori e ammassano i profitti nei paradisi fiscali. Una concorrenza sleale non più sostenibile. Va avanti così da 25 anni (e vedremo perché) ma adesso la pandemia sembra aver cambiato le carte in tavola.

A perderci sono soprattutto i paesi dell'Unione europea, visto che globalmente il 35% dei profitti spostati nei paradisi fiscali proviene dagli Stati membri della Ue (con l'eccezione naturalmente di Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Cipro). La Ue perde il 18% dei ricavi fiscali da utili societari.

La missione del G20.

La soluzione a questa pericolosa asimmetria promettono di trovarla – se tutto andrà bene – i ministri delle Finanze e i governatori centrali dei paesi del G20 riuniti in Italia dal 7 all'11 luglio. I grandi della terra saranno chiamati a esprimersi sulla base di un impegno già sottoscritto dai sette paesi più industrializzati del mondo nel G7 dei ministri finanziari lo scorso 5 giugno a Londra.

In quell'occasione i Sette hanno deciso di istituire una tassa minima globale di almeno il 15% sugli utili delle multinazionali e di prevedere una tassazione aggiuntiva per le più importanti e profittevoli corporation pari ad almeno il 20% degli utili che eccedono un margine di profitto del 10%.

Il 1° luglio anche 130 dei 139 paesi che negoziano il nuovo regime fiscale internazionale sotto l'egida dell'Ocse hanno dato il via libera a un'aliquota minima globale del 15%.In pratica, solo per fare un esempio, se una multinazionale statunitense, francese o italiana paga il 5% di tasse in Irlanda e lo 0,1% a Jersey, gli Stati Uniti, la Francia o l'Italia potranno tassare la società al 10% per i profitti realizzati in Irlanda e del 14,9% per quelli ottenuti a Jersey.

Gli “esattori di ultima istanza”.

Insomma, gli Stati imporrebbero paese per paese imposte tali che l'aliquota fiscale effettiva di quella multinazionale, in ciascuno dei paesi in cui opera, sia pari almeno al 15%. I singoli Stati, dunque, giocherebbero per le proprie multinazionali il ruolo di esattori di ultima istanza: riscuoterebbe le tasse che i paesi stranieri hanno scelto di non raccogliere. Per ora si tratta solo di un principio che ha l'obiettivo di porre fine alla corsa al ribasso della tassazione delle società. Ma non sarà facile applicarlo.

Le cifre fotografate dal Fisco americano rendono bene l'idea delle dimensioni del fenomeno. Nel 2017, prima della riforma fiscale di Trump che aveva diminuito l'imposta federale sulle società e aveva favorito il rimpatrio dei capitali offshore con una tassazione di favore, i dati erano ancora peggiori.

I profitti stipati dalle corporation Usa nei paesi offshore erano addirittura superiori a 4.200 miliardi di dollari, quasi 3.000 dei quali concentrati nei soliti 11 paradisi fiscali, il 70% del totale. Solo nelle Bermuda erano ammassati 634 miliardi di dollari.

La corsa dell'elusione.

Ma sono 25 anni che il sistema al ribasso tra multinazionali e paradisi fiscali viaggia a pieno regime. Tutto è cominciato nel 1996, sotto la presidenza di Bill Clinton. Prima di quella data gli Stati Uniti, come altri paesi ad alto reddito, avevano regole anti-elusione, le cosiddette disposizioni relative alle “società estere controllate”, progettate per tassare immediatamente negli Stati Uniti alcuni redditi esteri (come royalties e interessi) che favoriscono il trasferimento dei profitti.

Nel 1996, l'Irs ha però emanato dei regolamenti che hanno consentito alle multinazionali statunitensi di evitare alcune di queste regole scegliendo di trattare le loro controllate estere come se non fossero società ma soggetti non riconosciuti ai fini fiscali. Questa regola è comunemente chiamata “checking the box” (ovvero “spuntare la casella”) perché basta spuntare una casella su un modulo fiscale e il gioco è fatto.

Dopo l'introduzione di questa normativa, per esempio, gli utili delle corporation registrati in Irlanda sono aumentati dal 5% al 15%. Ed ecco perché le multinazionali americane sono così aggressive e utilizzano i paradisi fiscali più delle altre imprese degli altri paesi, spostando offshore in media il 60% dei loro profitti.

Spostati 700 miliardi all'anno.

Secondo uno studio degli economisti Thomas Tørsløv, Ludvig Wier e Gabriel Zucman, ogni anno quasi il 40% dei profitti delle multinazionali viene trasferito nei paradisi fiscali. Si tratta di una cifra che fino al 2017 oscillava tra i 640 e i 700 miliardi di dollari all'anno.

I ricercatori dell'Institute on Taxation and Economic Policy hanno dimostrato che il 40% dei profitti viene spostato in paesi che tassano le multinazionali a un'aliquota effettiva inferiore all'1% mentre una percentuale compresa tra l'85% e il 90% degli utili viene contabilizzata nelle giurisdizioni che applicano aliquote effettive inferiori al 10%. Sebbene poco ambiziosa, se la proposta sulla tassa minima globale restasse ferma al 15%, colpirebbe quasi la totalità dei profitti immagazzinati nei paradisi fiscali.

Questo spostamento – il profit shifting – si traduce in un risparmio di circa 200 miliardi di dollari all'anno per le grandi corporation, pari al 10% delle entrate fiscali globali provenienti dalle società, ma contemporaneamente provoca un ammanco fiscale della stessa entità per i paesi delle multinazionali.

La competizione tra gli Stati per attrarre investimenti esteri ha provocato negli ultimi decenni un forte calo delle aliquote fiscali effettive. Tra il 1985 e il 2020, l'aliquota media globale dell'imposta sugli utili societari è scesa dal 49% al 23%. Negli Stati Uniti è diminuita da quasi il 50% degli anni 50 del secolo scorso al 17% nel 2018.

Ma dove sono i quartier generali delle multinazionali? Quali paesi dovrebbero svolgere la funzione di “esattori di ultima istanza”? La metà delle multinazionali ha sede negli Usa e in Europa ma secondo uno studio dell'International centre for tax and development (Ictd) pubblicato a marzo 2021, sulla base della banca dati Orbis (che copre oltre 300 milioni di aziende pubbliche e private in tutto il mondo) gli Stati Uniti sarebbero la “casa” di 1.501 multinazionali. La Cina ne avrebbe 583, il Giappone 715, la Francia 206, l'Italia 151. Mancano in questo elenco i dati relativi al Regno Unito e alla Germania.

Il caso delle Bermuda.

“Andate in paradiso se volete, io preferisco rimanere nelle Bermuda”. Mark Twain non aveva tutti i torti quando pronunciò queste parole. Cosa c'è di meglio del paradiso sulla terra? Isolette coralline, spiagge immacolate, mare cristallino. Un arcipelago incastonato nel Mar dei Sargassi che evoca pace, tranquillità, sole, vacanze. Già, le Bermuda sono tutto questo. Ci sono 140mila turisti all'anno ma anche 20mila società che hanno la loro sede proprio qui: grandi gruppi finanziari e assicurativi, multinazionali, banche, studi legali. Ma che ci fanno in un paese di appena 65mila abitanti?

Se ogni società presente nell'arcipelago volesse assumere tre dipendenti dovrebbe arruolare anche i lattanti, i bambini e gli anziani. E dovrebbe ricoprirli d'oro vista la scarsità di manodopera. Ma non è il caso di sottilizzare. Perché la realtà è che tutte le più grandi multinazionali americane sono corse qui per aprire una filiale e se guardiamo i dati ufficiali, fanno utili a non finire. Le Bermuda sono un vero Eldorado. Nel 2017 i miliardi accumulati qui dalle multinazionali americane erano pari a 84 volte il Pil delle Bermuda, che non raggiunge i 7,5 miliardi di dollari. In termini percentuali fa l'8.453% del Pil. Roba da leccarsi le dita. Da queste parti le filiali sono dieci volte più efficienti di tutte le altre nel mondo. Sulla carta, naturalmente. Perché niente è reale. Aveva ragione Mark Twain: meglio le Bermuda del Paradiso.

Boeing, Caterpillar e Coca Cola.

Sì, ma è proprio così? E perché la Boeing possiede una filiale alle Bermuda, se nelle 300 isolette non esiste nessun impianto industriale che fabbrica aerei? E perché esiste anche una sede di Caterpillar? Qui non ci sarebbe nemmeno lo spazio per produrre gli enormi escavatori. E del resto con 65mila abitanti quanti ne venderebbero? E cosa se ne fa la Pepsi Cola delle 15 società che ha aperto nell'arcipelago? Quante lattine bevono ogni giorno i suoi abitanti? La risposta è sempre la stessa: l'irresistibile attrazione del Fisco.

A 2.200 chilometri di distanza, le Isole Cayman, hanno un Pil di 5,5 miliardi di dollari e una popolazione di meno di 60mila abitanti. Sono l'impero degli hedge fund, con circa 11mila fondi d'investimento domiciliati nelle isole (quasi tutti in una cassetta postale). Le quasi 200 banche che hanno qui le loro filiali gestiscono 1.500 miliardi di dollari. Le controllate di società estere sono 100mila (due per ogni abitante) e le multinazionali americane vi hanno accumulato 191 miliardi di dollari di utili nel 2018. Si tratta di una cifra che è 35 volte il Prodotto interno lordo delle Cayman, o se vogliamo il 3.472% del Pil. A George Town, una cittadina di Gran Cayman, sorge un piccolo edificio di quattro piani, la Ugland House al cui interno ci sono 19mila società, ma naturalmente sono solo sulla carta.

Apple in cima alla lista.

Nel 2017 l'Institute on taxation and economic policy (Itep) e il U.S. Public interest research group education fund (U.S. Pirg Education Fund), hanno pubblicato uno studio dettagliato sugli utili delle big companies spostati nei paradisi fiscali. I dati sono precedenti alla riforma fiscale di Trump e dunque oggi sono probabilmente sovrastimati ma rendono bene l'idea delle dimensioni del fenomeno.

Le prime 30 società per quantità di profitti conservati offshore registravano complessivamente più di 1,7 miliardi di dollari nei paradisi fiscali attraverso 2.213 filiali in giurisdizioni segrete.

Apple aveva 246 miliardi di dollari parcheggiati offshore. La società farmaceutica Pfizer (oggi titolare di un vaccino contro il covid 19) ne possedeva 198,9 con un numero impressionante di controllate nei paradisi fiscali (159). Microsoft aveva 142 miliardi all'estero, General Electric 82, Ibm 71,4, Johnson & Johnson (anch'essa titolare oggi di un vaccino anti-covid attraverso la controllata Janssen) 66,2 miliardi (e 60 filiali offshore), Google 60,7 miliardi.

Su queste cifre le tasse pagate erano irrisorie. Apple registrava un'aliquota fiscale del 3,8%, Microsoft del 3,3%, Oracle del 3,2%, Qualcomm dello 0,0%, così come Netflix.Olanda, il paese più attrattivo

Ma non è tutto. Lo studio evidenziava che almeno 366 società (il 73%) comprese nell'elenco Fortune 500, possedevano una o più filiali in paradisi fiscali. Complessivamente si contavano 9.755 controllate offshore. Il paradiso fiscale più popolare tra le 500 più grandi società americane era (ed è ancora) l'Olanda. Più del 50% delle 366 big companies possedeva una filiale nei Paesi Bassi, che nella classifica erano seguiti da Singapore, Hong Kong, Lussemburgo, Svizzera, Irlanda, Bermuda e Cayman.

Nel 2004, poco prima che l'uragano Ivan si abbattesse sulle Cayman, decine di piccoli aerei si levarono in volo dalle spiagge dell'isola. Non portavano in salvo gli abitanti e nemmeno soldi ma i server e gli hard disk che contenevano i documenti delle società offshore e degli hedge fund domiciliati nell'arcipelago. Dopo l'uragano gli aerei tornarono indietro con il loro prezioso contenuto. Anche così si misura la potenza di un paradiso fiscale.

La scelta da compiere.

Come ha sottolineato il segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, riprendendo gli studi di economisti come Gabriel Zucman, Emmanuel Saez e Kimberly Clausing, se si riuscirà a porre fine alla corsa al ribasso della tassazione sulle imprese finalmente gli Stati potranno competere tra di loro sul valore delle loro infrastrutture, sulla qualità dell'istruzione, sulla produttività della forza lavoro, sull'efficienza della giustizia. Una competizione più sana e più trasparente. Non alterata da parametri che rendono l'economia globale più inefficiente e iniqua.

“Non c'è niente nella globalizzazione che impone che la tassazione sulle società debba scomparire – affermano Emmanuel Saez e Gabriel Zucman nel loro ultimo libro “The triumph of injustice” -. La scelta è nostra. Avremmo potuto scegliere di proibire alle multinazionali di contabilizzare gli utili in paesi a tassazione bassa ma non lo abbiamo fatto. Possiamo fare scelte diverse, a partire da oggi”.

IlSole24Ore

Ddl Zan: oggi il voto al Senato per la calendarizzazione. Il relatore della camera: 'Ho i brividi se penso ad accordo Iv-Lega'.

 

Il segretario Dem Letta: 'Si facciano carico con noi della legge'.


In Senato la vecchia maggioranza giallorossa voterà oggi unita la calendarizzione in Aula del ddl Zan per la prossima settimana. Pd e M5s respingono l'offensiva della Lega, che trova, però, in Iv la sponda per cercare un compromesso.

Dal Pd arriva un appello al partito di Renzi. "Non capisco la posizione di Iv - ha detto ieri il segretario Enrico Letta a 'In Onda' su La 7 - che ha fatto un lavoro di merito importante alla Camera, e insieme a Pd, Leu e M5s ha votato la legge alla Camera e improvvisamente ha cambiato idea".

"Questo testo - ha osservato - passa esclusivamente con i voti di quelli che l'hanno approvato alla Camera, Lega e Fdi non la vogliono. Quella maggioranza si deve far carico della legge. Renzi si fa scudo dietro al voto segreto, noi non lo chiederemo". "Tutti quelli che l'hanno votata alla Camera, quelli stessi la votino in Senato, che problema c'è?".

"Voglio escludere che nelle parole di Renzi si celi un accordo con Salvini, ho i brividi all'idea che ci sia", così Alessandro Zan ai microfoni di The Breakfast Club. "Una legge che tutela dai crimini d'odio non si può barattare con un accordo di potere. Renzi vuole essere protagonista di una mediazione, ma rischia di far saltare la legge. La destra invece vuole solo decapitarla. Paura che la legge non venga approvata? Intanto, andiamo in aula dalla commissione giustizia e incrociamo le dita. Poi leggiamo gli emendamenti dei partiti. Nel Pd ci sono dubbi e perplessità su alcuni punti, ma siamo compatti. Se Italia Viva vota compatta, in Senato ci sono i numeri".

"Mi aspettavo un'alzata di scudi dalla Lega e non dal Pd - ha detto questa mattina a Omnibus il presidente dei senatori di Iv Davide Faraone - sulla nostra proposta di mediazione che è quella di tornare al testo Scalfarotto: tra Zan e Pillon esiste una terra di mezzo e noi abbiamo lavorato su quello. Letta prova a gettare fumo negli occhi ma non ci riesce: è una non notizia che non ci sia la richiesta di voto segreto dal Pd ma il segretario dem sa benissimo che bastano 20 senatori. Noi voteremo la calendarizzazione in aula del ddl come sempre abbiamo detto e non faremo mancare mai il nostro voto favorevole alla legge contro le discriminazioni omotransfobiche: se oggi però ci fosse l'intesa ci potrebbe essere un accordo politico per blindare il testo alla Camera. È chiaro che né IV né il Pd chiederanno il voto segreto ma qualcuno lo farà ed allora se il provvedimento sarà affossato in aula, avremo tutti fallito perché avremo lasciato senza tutele tante persone". 

Foto d'archivio. 

ANSA

Algeria, quasi 200 persone intossicate dopo un bagno nel Mediterraneo: “In 178 ricoverati con infezioni polmonari”.

 

Non sono ancora chiare le cause dell'evento che ha provocato anche nausea, febbre e rossore agli occhi. Parla di "un gas che si è diffuso rapidamente grazie al vento che ha soffiato per tutto il pomeriggio di domenica" il direttore della Sanità locale, Nasreddine Benkartalia. Il prefetto ha invece ritenuto come causa "più plausibile quella relativa allo sversamento di una barca al largo di Tenes”. Mentre il professor Réda Djebar della facoltà di Scienze biologiche dell’Università di Bab Ezzouar ha ipotizzato l'azione di un’alga microscopica tossica che prolifera nel Mediterraneo quando la temperatura è alta.

Quasi duecento persone intossicate dopo un bagno in mare. È successo in Algeria, a Tenes, dove in 178, tra cui bagnini della Protezione civile, sono stati ricoverati con infezioni polmonari accusando anche, secondo quanto riferito dal prefetto di Chlef, Lakhdar Seddasnauseafebbre e rossore agli occhi. Sul posto sono state inviate squadre di sommozzatori alla ricerca di scarichi tossici.

Non sono ancora note, però, le cause di questa intossicazione di massa: “Le persone che stavano facendo il bagno nella spiaggia centrale di Tenes avrebbero inalato un gas che si è diffuso rapidamente grazie al vento che ha soffiato per tutto il pomeriggio di domenica”, ha spiegato il direttore della Sanità locale, Nasreddine Benkartalia, citato dall’agenzia ufficiale Aps. Il prefetto ha invece ritenuto come causa “più plausibile quella relativa allo sversamento di una barca al largo di Tenes”. Secondo il sito di informazione Ennahar Online, si tratta di una nave mercantile battente bandiera della Tanzania, la Barhom II, salpata dal porto di Sete nel sud della Francia.

Ma c’è anche un’altra ipotesi al vaglio di chi sta cercando di ricostruire gli eventi che hanno portato all’intossicazione: il professor Réda Djebar, della facoltà di Scienze biologiche dell’Università di Bab Ezzouar ad Algeri, ha ipotizzato che un’alga microscopica tossica che prolifera nel Mediterraneo quando la temperatura è alta possa essere la causa dietro a queste infezioni. In un post pubblicato sulla sua pagina Facebook, Réda Djebar ha ricordato casi simili a Mostaganem, nel nord-ovest dell’Algeria, nel 2009, e su diverse altre spiagge del Mediterraneo.

L’emittente Echourouk Tv spiega che tre spiagge sulla costa di Tenes sono state chiuse al pubblico e che sono stati condotti prelievi per analizzare l’acqua del mare. L’agenzia di stampa Tsa riferisce che come misura di precauzione è stata ordinata la chiusura dell’impianto di desalinizzazione di Tenes.

ILFQ

Ciao, Raffaella.

 

Ciao, Raffaella, ieri te ne sei andata e un altro pezzo della vita se ne va con te, amica di tante serate gradevoli ispirate alla gioia di vivere.

c.

lunedì 5 luglio 2021

Caro Damilano, dopo Genova non arrivò l’anti-politica. - Salvatore Cannavò

 

C’è una sinistra intellettuale talmente ossessionata dal M5S che non riesce a guardare nemmeno dentro la propria storia. Si prenda l’Espresso e l’editoriale che il suo direttore, Marco Damilano, dedica a Genova 2001 e alla Diaz. Che se ne trae da quella storia? Che la dura repressione poliziesca, di cui Gianni De Gennaro non si è mai scusato, e la contestuale violenza dei Black bloc hanno distrutto quel movimento rendendolo un ’68 “durato 48 ore”. E quella potenzialità politica, quella speranza, finendo in un buco nero, ha consegnato giovani e meno giovani all’antipolitica. A Beppe Grillo. Solo che il G8 è del 2001, il Vaffaday è del 2007. In mezzo? Dopo Genova c’è la stagione dei Social forum, un movimento contro la guerra indicato dal New York Times come “la seconda potenza mondiale”, soprattutto c’è la sinistra al governo. Prodi e Bertinotti, Agnoletto eurodeputato e deputati che vengono da quel movimento eletti da Rifondazione. Semmai è la delusione di quell’esperienza, la sinistra che si fa casta e potere, a spingere milioni di elettori verso i 5 Stelle. Ma quell’energia non si spegne ancora: realizza il referendum per l’acqua pubblica nel 2011, scende in piazza con gli Indignados in quello stesso anno, dopo che aveva manifestato contro il governo Berlusconi. E solo dopo l’ennesima mazzata politica, il governo Monti, favorito ancora da quella pseudo-sinistra rimasta in campo, si dilegua. Dieci anni dopo. Ora, possiamo capire l’acrimonia verso Grillo,la foga di voler costringere tutto in una chiave di lettura precostituita arriva a negare la vita e la realtà di quelle centinaia di migliaia di persone che attraversarono Genova venti anni fa. E offrirono una chance di rinnovamento alla sinistra, che questa si guardò bene dal raccogliere. Allora si spiega meglio perché la sinistra italiana e gli “spiegoni” dei suoi cantori non ne azzeccano una.

ILFQ