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domenica 20 agosto 2023

Lettera a Nordio di 320 magistrati in pensione: “La separazione delle carriere stravolgerebbe la Carta. Rischio pm controllati dal governo”. - GIUSTIZIA & IMPUNITÀ Lettera a Nordio di 320 magistrati in pensione: “La separazione delle carriere stravolgerebbe la Carta. Rischio pm controllati dal governo” Lettera a Nordio di 320 magistrati in pensione: “La separazione delle carriere stravolgerebbe la Carta. Rischio pm controllati dal governo” - Paolo Frosina

 

“Siamo magistrati in pensione, civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro l’annunciata riforma della separazione delle carriere“. Inizia così la lettera-appello rivolta al ministro della Giustizia Carlo Nordio dalle toghe della sua stessa generazione, che avvertono dei “pericoli” a cui si andrebbe incontro se diventasse realtà l’antico proposito del centrodestra di creare due distinte figure professionali per la magistratura giudicante e requirente. A sottoscrivere il testo sono stati già in 320 in poco più di tre giorni, tra cui alcuni dei magistrati più famosi d’Italia: si va dall’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi agli ex pm di Mani pulite Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, dall’ex procuratore di Milano Francesco Greco all’ex procuratore di Torino Armando Spataro, dall’ex presidente aggiunto della Suprema Corte, Renato Rordorf, agli ex capi del Dipartimento carceri del ministero Giovanni Tamburino e Dino Petralia. Uniti, nonostante le differenze (anche notevoli) di sensibilità politiche e culturali, nel chiedere al loro ex collega un ripensamento (il 6 settembre avrà inizio l’esame parlamentare delle quattro proposte di legge costituzionale in materia, presentate da Forza Italia, Lega e Azione-Iv).

I firmatari ricordano che già con la riforma Castelli (2005) e ancor più con la riforma Cartabia (2022) della legge sull’ordinamento giudiziario “sono già stati praticamente eliminati i passaggi da una carriera all’altra”: al momento, infatti, il cambio di funzione è possibile una sola volta e nei primi dieci anni di carriera, con l’obbligo di trasferirsi in un altro distretto. E infatti a sceglierlo, negli ultimi anni, sono state poche decine di magistrati. Ma il problema, sottolineano le toghe in pensione, è di principio: la riforma “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale che prevede non solo l’appartenenza di giudici e pm a un unico ordine giudiziario, indipendente da ogni altro potere, ma anche un unico Csm“, il Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno. E a chi sostiene che questo stato di cose “darebbe un vantaggio al pm rispetto al difensore” ribattono che la tesi “non ha alcun fondamento, perché i giudici guardano alla rispondenza agli atti e alla logica degli argomenti delle parti, e non certo alla posizione di chi li propone; se fosse fondato questo sospetto, anche il giudice dell’impugnazione non dovrebbe far parte della stessa carriera del precedente grado di giudizio”.

È “essenziale”, invece – scrivono gli ex magistrati – “che il pm abbia in comune con il giudice la stessa formazione e cultura della giurisdizione, godendo anche della stessa indipendenza, perché la sua azione deve mirare all’accertamento della verità, e deve poter essere rivolta nei confronti di chiunque, senza alcun timore”. E in questo senso la separazione delle carriere farebbe “perdere all’Italia una peculiarità dataci dai padri costituenti che molti colleghi all’estero ci invidiano, vale a dire avere realizzato una vera autonomia dell’ordine giudiziario, perché solo con un pubblico ministero indipendente si ha la garanzia che potrà essere portata davanti al giudice qualsiasi persona che abbia commesso un reato”. Oggi infatti – prosegue la lettera – “il pm, proprio perché organo di giustizia, è obbligato a cercare anche le prove favorevoli all’indagato e non di rado chiede l’assoluzione: avverrebbe lo stesso con un pm formato nella logica dell’accusa e del tutto separato dalla cultura del giudice?”. Non solo: “Oggi il pubblico ministero è valutato dal Consiglio superiore della magistratura anche per il suo equilibrio e non certo per il numero di condanne che è riuscito ad ottenere. Ci sorprende che i fautori delle carriere separate non vedano i pericoli di un corpo specializzato nel sostenere l’accusa che, secondo i promotori della riforma, agirebbe senza essere sottoposto ad alcun controllo”. A meno che, concludono, “il vero intento non sia quello di consentire al governo di controllare l’azione del pubblico ministero”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/08/19/lettera-a-nordio-di-320-magistrati-in-pensione-la-separazione-delle-carriere-stravolgerebbe-la-carta-rischio-pm-controllati-dal-governo/7265504/

martedì 6 luglio 2021

Ddl Zan, perché la modifica proposta da Italia Viva rischia di rendere incostituzionale il testo. - *Luigi Testa


Che le fattispecie coperte dal ddl Zan possano essere affette da vaghezza, è stato detto. È stato pure detto, d’altra parte, che ogni disposizione normativa ha una sua naturale, ineliminabile, vaghezza, ma che l’ordinamento ha tutti gli “anticorpi” del caso. Il diritto non è fato di minuziose casistiche. Lo sapeva pure chi scriveva i primi codici, più di due secoli fa: “la dangereuse ambition de vouloir tout régler et tout prévoir”, la chiamavano.

Quello che ancora non era stato detto – e che ci si augurava non fosse detto, per la verità – è che per ridurre questa vaghezza, la cosa migliore sarebbe stato – indovinate cosa? – andare a eliminare l’articolo del ddl che contiene le “definizioni” delle parole chiave della normativa (come del resto fa l’art. 1 della gran parte dei testi normativi).

Così, se prima si poteva stare tranquilli – salvo posizioni ideologiche, ovvio –, ora sì che c’è da temere. Perché la (principale) modifica richiesta da Italia Viva, in realtà, rende veramente pericolosamente indeterminate le fattispecie penali previste dal ddl Zan. Rischiando, peraltro, di essere a ragione cassata di incostituzionalità dalla Consulta.

Dire – come si chiede – che sono puniti gli atti “fondati su omofobia e transfobia” è, infatti, incomparabilmente più vago di quel tuziorista elenco di definizioni che si andrebbe ad eliminare. Anche solo fermandosi ad un piano di analisi del linguaggio, “omofobia” e “transfobia” sono concetti che si definiscono per relationem, che non si definiscono autonomamente, ma che necessitano a loro volta che sia definito l’oggetto primario. Che è quello proprio che tentava di definire l’art. 1, che si vuole cancellare con colpo di spugna.

Che poi, a dirla tutta, è chiaro che a dar fastidio ai più non è mica tutto l’art. 1. L’uomo nero – absit iniuria – è uno solo: l’identità di genere. Solo che dire “cancelliamo tutto l’art. 1” fa meno brutto che dire “cancelliamo l’identità di genere” – salvo la disastrosa eterogenesi dei fini che poi ne vien fuori, come si diceva appena sopra.

Una volta che è chiaro che la proposta emendativa in commento mira in realtà a stralciare il riferimento all’identità di genere, va riconosciuto che si tratta di una proposta infelice almeno sotto tre profili: uno politico, uno giuridico in senso stretto, ed uno che forse si potrebbe definire di politica costituzionale.

Da un punto di vista politico, è almeno assai stravagante che una formazione politica, che in prima lettura alla Camera ha espresso il proprio voto favorevole per il testo di un disegno di legge, muti di parere ora che il testo è approdato alla Camera sorella. Beninteso, si tratta di una scelta che può sorprendere, ma che resta del tutto legittima: ironia della sorte, a permetterlo è proprio quel bicameralismo perfetto che la riforma Renzi aveva tentato di rottamare senza successo nel 2016.

Spostandoci su un piano più strettamente giuridico, l’obiezione che muove la proposta emendativa sembrerebbe essere, in definitiva, la mancanza di una generale condivisione del concetto di identità di genere.

Bene, qui va anzitutto chiarito che ‘identità di genere’ non è certo un concetto nuovo nel nostro ordinamento (e di cui quindi manchi una geografia definitoria): basti pensare alla legge sulla rettificazione del sesso del 1982, e alla giurisprudenza che ne è derivata, sia dalla Cassazione che dalla Corte costituzionale. Addirittura nel 2015 la Consulta parlava di un “diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona” – anche quando, peraltro, non vi è una modificazione chirurgica dei caratteri sessuali (sent. 221/2015). Senza contare i vincoli che discendono per il nostro Paese dal diritto internazionale.

D’altra parte, qui va chiarito con lucidità un equivoco di fondo. È vero che la questione dell’identità di genere presenta una serie di implicazioni giuridiche non facili. Ma il ddl Zan non mira a regolare effetti, conseguenze e limiti della scelta in materia identità di genere: su questo interverranno altri strumenti legislativi. Semplicemente offre protezione giuridica a chi subisce discriminazione e violenza solo perché si percepisce (e manifesta) in maniera divergente dal sesso biologico. Una ben più modesta ambizione, tutto sommato.

E poi l’ultimo argomento. Lo stralcio dell’identità di genere dal ddl Zan ridurrebbe evidentemente il novero dei soggetti cui l’ordinamento presterebbe tutela da atti discriminatori e violenti. Una tutela che – se si potesse fare una triste classifica – forse sarebbe ancora più urgente di quella pur necessaria da prestare alle altre categorie interessate nel ddl Zan. Ebbene, uno Stato di diritto non può permettersi di negare questa forma di tutela solo perché non si è tutti d’accordo (circostanza, peraltro, tutta da verificare) sulla definizione della categoria delle vittime. È una tentazione frequente, questa, per un giurista: leggere la realtà alla luce delle sue categorie, e non piuttosto adattare le sue categorie alla realtà. Ma un legislatore che cadesse nella stessa trappola avrebbe fallito, senza mezzi termini.

(*Assistant Professor di diritto costituzionale all’Università Bocconi)

ILFQ