lunedì 4 novembre 2013

Lo «scivolo d’oro» dei militari italiani. - Goffredo Buccini





Per i cinquantenni esenzione dal servizio di 10 anni con l’85% di stipendio. Resta anche il diritto alla pensione piena.


L’appuntamento è in un bar di largo Argentina: a due passi dai palazzi dove si disegna proprio in questi giorni la nuova faccia delle nostre forze armate. 
Il vecchio ufficiale, ora «consulente istituzionale», chiede l’anonimato bevendo caffè lungo e ben zuccherato: «Sa, ho l’amaro in bocca». Sembra in imbarazzo: «La facciamo, sì, la riforma, ma la scarichiamo sulle spalle degli italiani». Tira fuori le carte. «Mi dica lei se in un Paese di esodati e precari possiamo portare avanti un testo del genere: è uno scivolo d’oro, come diavolo si fa a spiegarlo alla gente?».

La riforma delle riforme, lanciata con lo slogan «meno generali, più tecnologia», sta tutta qui, atti del governo 32 e 33, decreti attuativi della legge 244 del 2012 voluta da Giampaolo Di Paola, allora ministro del governo Monti dopo una carriera da ammiraglio approdata sullo scranno di capo di Stato maggiore della Difesa. 
I provvedimenti del governo Letta recepiscono il lavoro dell’esecutivo precedente, Mario Mauro assorbe la visione del predecessore con le stellette. «Trentacinquemila uomini in meno in dodici anni» e una formula magica che prevede una sostanziosa redistribuzione dei carichi di spesa: quest’anno in un bilancio di circa 14 miliardi per la «funzione difesa» (la «funzione sicurezza» con i carabinieri è a parte) i costi del personale gravano per il 67 per cento, il 10 per cento va all’addestramento (pericolosamente scarso) e il 23 agli investimenti; il mantra di Di Paola è 50, 25 e 25. Ovvero meno uomini, armi migliori e usate meglio.
Ma, attenzione: nel dimagrimento il trucco c’è e s’intravede. 

Molto resta a carico della spesa pubblica e quindi delle nostre tasche, tramite tre canali: il passaggio del personale ad altro ministero, il prepensionamento e, soprattutto, l’«esenzione dal servizio», comma sesto dell’articolo 2209, il punto più controverso nella disciplina del periodo transitorio: dai 50 anni in poi (dieci anni prima del congedo) si può entrare in un magico limbo, lo «scivolo d’oro» appunto, grazie al quale si conserva l’ottantacinque per cento dello stipendio senza lavorare più nemmeno un solo giorno, con tanto di pensione piena; non è esclusa neppure la facoltà di fare altri lavori (il reddito non si cumula). 
Questo bonus decennale per le forze armate in (libera) uscita verrà inserito nel codice dell’ordinamento militare a meno che Camera e Senato non si mettano di traverso in modo plateale (è solo previsto un loro parere) spingendo il governo a ripensarci. 
Fino a oggi il comma dorato stava attraversando zitto zitto l’ultimo guado tra Palazzo Madama e Montecitorio. Eppure era proprio difficile non accorgersene. 
«Quando ho visto quella norma, ho fatto tre salti sulla sedia! 
Così com’è non passerà. 
Non è un articolo di legge, è una provocazione», tuona Gian Piero Scanu, capogruppo pd in commissione Difesa. 
«È vero, fa effetto», ammette Domenico Rossi, ex generale e adesso deputato di Scelta civica: «Però, ci pensi, è la via d’uscita della generazione delle missioni, i cinquantenni di adesso avevano 35 anni in Kosovo. 
Non è che si possono mandar via così». 
Già, ma non è che tutti i trentacinquenni degli anni Novanta andassero in missione... «Va bene, ma non ne faccia una questione di percentuali. 
E comunque la legge era diversa, il Cocer (la rappresentanza “sindacale” dei militari, ndr ) ha ottenuto di aumentare dal settanta all’ottantacinque per cento la quota di stipendio mantenuta intatta». 
Nelle commissioni di Camera e Senato, si combatterà sugli articoli della riforma. 
Ed è da qui che è opportuno partire per cogliere chiaroscuri, miserie e nobiltà dei nostri uomini e donne in divisa.
La faccenda è dura da semplificare, perché ha ragione il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Claudio Graziano, quando dice che «ci serve la certezza di risorse adeguate per l’addestramento del personale e l’ammodernamento, se adeguatamente vogliamo andare in missione. 

Non si tratta di una spesa, ma di un investimento». 
Insomma, il comma d’oro è una goccia che cade nel pieno d’una grande, autentica trasformazione dei nostri militari, passati dalla derisione negli anni della contestazione allo straordinario lavoro nelle missioni, dal Libano in poi, e già radicalmente rinnovati nel 2001 con l’abolizione della leva. 
Quando si parla dei loro sprechi si pensa, per dire, ai circoli (storica la querelle su quello degli ufficiali a palazzo Barberini, a Roma) o agli stabilimenti balneari (tutta roba che ormai è affidata in buona parte a privati con grande contrarietà dei Cocer). 
E certo fa sorridere la battaglia a suon di finanziamenti di Fregene nord contro Fregene sud, scolpita nel rapporto Monti di due anni or sono, un milione di qua, duecentomila euro di là alle rispettive spiagge con cabine riservate alle stellette. 
Fanno mugugnare noialtri gli alberghi camuffati da centri di addestramento dove soggiornare da Dobbiaco ad Alghero per una trentina d’euro a persona; l’«ausiliaria» che ancora consente un 24 per cento in più di pensione garantita per un molto improbabile richiamo in servizio nei cinque anni successivi al congedo (dovesse scapparci una guerra...); già nel 2006 la senatrice Silvana Pisa, Sinistra democratica, rilevava persino le spese di «rifacimento letti» negli appartamenti di generali e ammiragli al top della carriera, parte di un esborso di tre milioni e mezzo l’anno per la pulizia dei loro 44 alloggi di servizio e rappresentanza.
«Noi rischiamo di diventare strumento delle lobby e voi cercate il colore», ci rimprovera la nostra fonte al bar di largo Argentina. Già. Lo «scivolo d’oro» della riforma può fare imbestialire i comuni cittadini ma la partita vera delle spese e, forse, degli sperperi, si gioca su altri tavoli. Gli F-35, con una faida sanguinosa in cui il ministro Mauro ha rischiato di restare impallinato, sono stati solo un assaggio: tutto ora è al vaglio del Parlamento. La commessa più ghiotta per un futuro molto futuribile si chiama Forza Nec: ventidue miliardi di spesa possibile nei vent’anni che verranno; si tratta di digitalizzare l’esercito, immaginando il soldato del 2030 molto prossimo a un robot (l’acronimo Nec sta per Network enabled capability , capacità di fare rete coi sensori sul campo di battaglia). 

Già nel 2006 Di Paola riteneva «prioritaria e ineludibile» la trasformazione «net-centrica» (sic) delle forze armate, salvandola dalla scure montiana della spending review. Con verosimile soddisfazione di Selex Es, la società di Finmeccanica che, quale «prime contractor», gestirà a tempo debito tutto da sola, senza gara né confronto sui prezzi, come consentono le procedure. Il domani in un affarone, insomma, senza voler in alcun modo revocare in dubbio le capacità tecniche dell’azienda italiana.
Tuttavia lo scenario non è pacificato. «Nessuno conosce le cifre esatte, ma chi pensa che Forza Nec sia cosa fatta, sbaglia di grosso. Mauro è molto... incline ad assecondare le richieste dell’amministrazione militare, ma la ricreazione è finita», dice ancora Scanu. 
Fabio Mini, già comandante delle nostre forze in Kosovo, si spinge molto oltre: «Ci sono sistemi per dare soldi all’industria italiana». 
Cioè? 
«Dall’industria dipendono gli incarichi dei vertici militari, cooptati dalle cordate politiche. I debiti si pagano». È un’affermazione molto grave, generale... «Beh, va così. L’ho pure scritto nel mio libro “Soldati”, senza fare nomi, naturalmente». 
Naturalmente.
Sotto le uniformi, battono cuori intossicati. 

La legge di Stabilità è stata l’occasione d’un sotterraneo scontro di lobby per la conquista dei finanziamenti. 
Si chiudono caserme dove mancano i soldi per la bolletta della luce, e le ristrettezze esasperano. 
Perfino il prossimo viaggio umanitario in Africa della portaerei Cavour ci viene segnalato come spreco da una fonte di un’altra arma, «130 giorni di navigazione, ci costa venti milioni. Quanti ospedali potrebbero farci laggiù?». 
Alla fine il nostro esercito è come noi, generosità e invidie, grettezze e slanci, questa è l’Italia del 2013. 
Alla stazione Trastevere due bersaglieri sono di pattuglia con un appuntato dei carabinieri (è la vecchia operazione «strade sicure» che volle La Russa da ministro, soldati e forze di polizia assieme): sono ragazzini, prendono 900 euro per i prossimi quattro anni, «è dura», e dopo non andrà molto meglio. 
Stipendi bloccati dal 2010 come tutti, l’idea della «specificità» del lavoro fagocitata dalla crisi. «Se mi promuovono colonnello sono rovinato, ci perdo», mastica amaro un amico prossimo ai gradi. 
Più grane, meno quattrini. Merito e coraggio negletti come sempre. 
«Usiamo le missioni per addestrare i ragazzi, se no addio!». 
In quelle missioni, dal 1982, sono caduti 103 dei nostri, dall’Afghanistan in poi i feriti sono 651. 
«Io vorrei che il Paese se ne ricordasse», dice l’ex generale Rossi: «Ci sono posti dove si decidono vita e morte in un secondo. 
Chi sta di notte in un avamposto a Bakwa tra colpi e rumori nel buio, beh, vorrei che non si sentisse troppo solo». 

https://apps.facebook.com/corrieresocial/economia/13_novembre_03/scivolo-d-oro-militari-italiani-4b430098-445a-11e3-b60e-fee364a304ed.shtml

Se questa riforma andrà in porto, propongo che chi l'ha ideata e chi l'ha votata venga dato in mano agli esodati che non hanno né stipendio né pensione, lasciandoli liberi d'agire come meglio credono. Mi sono spiegato? (M.P.)

domenica 3 novembre 2013

Casi umani. - Rita Pani


La vera Rivoluzione, illustre ministro Cancellieri, sarebbe quella di esigere non più l’abolizione dei vostri privilegi, ma l’estensione di questi a tutto il popolo italiano. 
In questo paese che gira al contrario, voi pedalate all’inverso con l’arroganza di chi ha capito che a qualunque vostro insulto, non sortirà alcuna reazione, se non l’assurda proliferazione di “nuovi guru” e salvatori di altri interessi privati, che guideranno altri piccoli eserciti di marionette dalla faccia pulita e dalle mani senza calli.
Oggi in tanti esigono le sue dimissioni, e gridano allo scandalo, all’ennesimo sopruso. 
In questo mondo che gira al contrario io vado controcorrente, e data la sua propensione all’umanità le chiedo di restare e di continuare a lavorare per la “Rivoluzione del diritto di tutti”.
Un ottimo ministro umanitario, già da stamattina avrebbe dovuto telefonare a giudici e tribunali per far sì che venissero liberati dal carcere tutti i ladri e i rapinatori che hanno compiuto reati per la sopravvivenza. 
Tutti quei disgraziati tossicodipendenti, finiti in galera per disperazione. 
Gli assassini che hanno ucciso il proprio sfruttatore. 
E quella miriade di persone senza volto e senza nome, che vivono dimenticati dentro le patrie galere, senza nemmeno avere la possibilità di un’assistenza legale che consenta loro di poter arrivare fino a lei, fino al vertice di questa “catena alimentare”, che tutti ci divora.
600  milioni di buco, gravi danni economici a 12.000 piccoli risparmiatori e oggi “casi umani” che meritano l’interessamento diretto di un ministro?
Spregevoli ladri, che dai tempi di Bettino Craxi hanno depredato la vita di tutti noi, continuando col ladrocinio istituzionalizzato da un ventennio berlusconista, che alla fine della razzia ci aveva insegnato a credere che fossimo vittime di questa fantomatica crisi economica. 
Tutta gente raccontata come appartenente ai “salotti buoni” della nostra economia, che a pensarci verrebbe da chiedersi: “se questi son quelli del salotto buono, chi entrerà mai dalla porta di servizio?”
Non è il suo gesto umanitario, a sconvolgermi, Ministro Cancellieri, semmai la solerzia con la quale ci si impegna per tirar fuori, o non far mai finire in galera, tutti gli adepti di questa banda di criminali, che  dovrebbero risarcire un intero paese depredato e ridotto in ginocchio, da un tempo ormai troppo lontano. 
Da quando Mister 5% inventava e perfezionava sistemi tangentizi, corruzione e ladrocinio.
È proprio questa gente ad essere oggi responsabile, almeno moralmente, di tutti quei piccoli reati che hanno portato in galera persino chi ha rubato il cibo per sfamare i suoi figli. 
Gente che almeno in galera ha un pasto garantito.
Si faccia raccontare che significa per una famiglia senza lavoro, avere anche il pensiero di un figlio, un padre o un fratello in galera. 
Si faccia raccontare la disperazione di chi non ha futuro, e soprattutto si faccia ricordare, ancora una volta, che è proprio grazie a gente come quella che merita il suo interessamento, che tantissimi altri non riescono più a vedere il futuro, e che a volte vanno a cercarsi almeno un domani, con una pistola giocattolo dentro un supermercato.

SICILIA, CASABLANCA DELLO SPIONAGGIO INFORMATICO. ISRAELE-CONNECTION. - Salvatore Parlagreco

internet
Da tredici anni Israele è collegata con la Sicilia con cavi sottomarini in fibra ottica che trasportano scambi su web e comunicazioni telefoniche. L’Isola sconta una servitù di passaggio senza avere firmato patti e concessioni con alcuno. Accade con il gas, il petrolio, l’energia elettrica.
Come è diventata la Casablanca dello spionaggio informatico internazionale? Chi ha trattato con i partner internazionali? Quale parte hanno avuto Terna e Telecom nella realizzazione dell’hub siciliano?
Lo scandalo Datagate ha gettato una luce nuova sulle telecomunicazioni. Non è più una questione industriale, un affare fra aziende private, uno scippo, l’ennesimo, di prerogative e poteri decisionali, la prova di una povertà decisionale, ma la certificazione del ruolo opaco, misterioso e inquietante esercitato dalla Sicilia.
Giorno dopo giorno le rivelazioni di Snowden, il tecnico “pentito” della Nsa, e le informazioni pubblicate dalla stampa internazionale, delineano l’esistenza di un mondo parallelo, che spia quello in cui viviamo. E di questo mondo parallelo, l’Isola è protagonista inconsapevole.
Ci sono tutti dentro, meno quelli che “ospitano” le nuove macchine intelligenti costruite per dominare il mondo. La pesca a strascico delle informazioni, da parte della Nationale Security Agency, è soltanto la punta dell’iceberg. Gli inglesi lavorano a braccetto con gli americani, servizi francesi, tedeschi o israeliani non se ne stanno a guardare. La proverbiale efficienza del Mossad israeliano si sarebbe inceppata davanti allo strapotere della Nsa? E il governo italiano è rimasto all’oscuro di tutto?
La Sicilia è un hub internazionale nelle telecomunicazioni e ciò ne fa uno snodo essenziale nell’incrocio di dati e informazioni “grezze”, che vengono “trattate” da vari soggetti attraverso programmi estremamente sofisticati.
L’Isola, insomma, offre la materia prima. La rete di cavi sottomarini risponde ai bisogni del mondo reale, nasce per rendere un servizio pubblico ai paesi che l’utilizzano, ma è una struttura “infiltrata”, senza la quale non sarebbe possibile il reperimento delle informazioni. Uso proprio ed improprio, dunque. I flussi delle comunicazioni vengono “filtrate” dai soft, smistati, decrittati ed utilizzati attraverso target che ne giudicano automaticamente i livelli di utilità.
Due programmi della Nsa, Lithium e Stormbrew, di cui non si sa praticamente niente, “trattano” il materiale raccolto da Upstream, a monte, nei luoghi in cui viaggiano i flussi di comunicazione. Il “prelievo” avviene quando le fibre ottiche salgono in superficie a conclusione del loro viaggio in immersione.
Fairview, altra sigla della Nsa, vigila sulla proprietà delle reti telefoniche e internet a raggio internazionale. Esercita un controllo discreto sul mercato. Il collegamento fra la Sicilia e Israelepotrebbe essere perciò un affare americano, non solo israeliano.
L’alveare della Nsa opera in una mondo “parallelo” affollato, il suo strapotere non gli regala alcun monopolio, ma “solo” una influenza rilevante. La gestione dell’alveare costituisce il problema della Casa Bianca: è materialmente impossibile controllare dei quell’esercito di scienziati informatici, ben 4000, che sotto le varie sigle “spiano” il mondo.
Si sospetta che la megastruttura di spionaggio, ricevute le regole d’ingaggio all’indomani dell’attentato alle torri gemelle, grazie al Patriot act, abbia fatto quel che ha voluto, ed abbia agito liberamente, interpretando in modo indipendente la strategia di contrasto del terrorismo. Nella migliore delle ipotesi, è stato inserito un pilota automatico. La Nsa sarebbe una superpotenza in sè, pur agendo al servizio del suo governo.
Al servizio di chi svolge la sua attività l’hub siciliano? Essenziale al sistema di controllo mondiale delle informazioni, non è un partner istituzionale. Concepito da aziende di telecomunicazioni italiane ed estere, e vigilato dai servizi dei paesi interessati, Italia compresa, è una gigantesca struttura fantasma, ignorata da chi la ospita.
Se è impensabile che il Mossad trascuri le attività d’intelligence “informatico” degli americani – cavi sottomarini in fibra ottica e le antenne della sughereta di Niscemi – è del tutto plausibile che i siciliani non ne sappiano niente e che nei Palazzi romani si abbiano solo conoscenze superficiali e poco attendibili sul ruolo affidato alla Sicilia. Nella guerra al terrorismo ed alle mafie?
No, la finanziarizzazione dell’economia mondiale ha altre priorità.

Telefono amico...



"Sono intervenuta per una detenuta che rischiava di morire, non siamo tutti uguali davanti alla legge? Escludo che ci siano detenuti di serie A e di serie B. Rispondo sempre a chiunque mi telefoni per sollecitarmi un caso importante".
Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri 

Bene, fatelo! Vediamo chi risponde.


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Alfano, per il ministro decine di collaboratori. E una spesa da 3 milioni. - Emiliano Liuzzi


Berlusconi gli ha tolto la segreteria del Pdl, ma l'ex delfino rimane uno degli uomini più potenti del Paese. Da vicepremier e ministro degli Interni ha uno staff ristretto che in indennità costa 1,35 milioni l'anno. A cui si aggiungono addetti stampa, membri del gabinetto e responsabili degli uffici scelti direttamente da lui.

I detrattori lo chiamano Beghelli, per via di quella calvizie arrivata anzitempo; quelli che a capo del Pdl lo avevano sponsorizzato – Gianni Letta su tutti – si limitavano a definirlo servizievole. Questo almeno fino al 2011, quando ha capito che il “gangster”, inteso come Berlusconi, aveva qualche pupa in meno e pochi proiettili ancora da sparare. Perché Angelino Alfano, probabilmente, la parte dell’allegro fessacchiotto, l’ha solo recitata. La faccia vera, quella del delfino che non ha voglia di farsi sbranare, l’ha mostrata il 2 ottobre 2013, giorno della fiducia. Quando ha riunito le colombe che si sono trasformate negli squali assetati di Silvio Berlusconi.
Oggi, l’onorevole Angelino Alfano dalla piana di Agrigento, è uno degli uomini più potenti (o almeno ci prova) di questo Paese. Da servitore a servito. Tra le cariche colleziona quella di vicepremier dell’amico di vecchia data, tempi dc per intendersi, Enrico Letta, ministro dell’Interno e, ovviamente, parlamentare. La carica di segretario Pdl gliel’ha tolta Berlusconi, ma la vicenda dello scontro interno al centrodestra deve ancora essere conclusa.
Tutto questo vuol dire avere al fianco più che una serie di collaboratori, un’industria che arriva a tre milioni di fatturato all’anno solo per i collaboratori scelti direttamente da lui. Per quello che è dato sapere, visto che il fu delfino alcuni emolumenti ai dipendenti del ministero, nonostante siano obbligatori, non ci pensa proprio a renderli noti. Un esercito di persone più che fidate, a partire dalla segretaria, Danila Subranni, ufficialmente stipendiata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con un compenso (diretta collaborazione dice il riepilogativo) di 50 mila euro all’anno che vanno a sommarsi allo stipendio previsto per i dipendenti di fascia E del ministero, che sono pari a 91.364 euro lordi ogni anno. Questo nel ruolo di portavoce e per la parte di emolumenti ministeriali, quelli che potrebbe ricevere dal partito, ovviamente non sono resi noti.
A Capo della segreteria particolare del vicepremier siede invece Giovanni Antonio Macchiarola, professione avvocato: lo stipendio, pagato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, 185.097 euro, divisi tra le voci di “trattamento economico fondamentale”, “accessorio” e “indennità di collaborazione”. Stipendio che per il capo di cabinetto, Manlio Strano, arriva – sempre diviso tra le tre voci – a 195.389 euro lordi all’anno. Salvatore Mazzamuto, che di Alfano è consigliere per le questioni giuridiche, ha uno stipendio ufficiale uguale a quello della portavoce Subranni, 91.364 euro lordi al-l’anno.
L’industria Alfano non si ferma a questi nomi, ovviamente. Marco Villani, consigliere diplomatico di Alfano, percepisce un compenso annuo lordo di euro 92.846,71. Marco Canaparo, anche lui consigliere del super ministro , 55.354,82. Isabella Rauti (figlia dello storico leader della Fiamma Tricolore Pino Rauti, moglie di Gianni Alemanno), consigliere per le politiche di contrasto alla violenza di genere ha un compenso annuo 74.480,98 euro. La nomina al ministero di Rauti è avvenuta – ma si tratta di una casualità o comunque non abbiamo elementi per dire il contrario – lo stesso giorno in cui il marito ha perso la poltrona di sindaco.
Ufficialmente a titolo gratuito è l’incarico a collaboratore della segreteria del ministro dell’ex consigliere comunale di Agrigento Davide Tedesco, parente dell’attuale deputato Pdl all’Assemblea Regionale Siciliana Enzo FontanaRoberto Rametta, anche lui collaboratore della segreteria del ministro, ha uno stipendio di 41.600 euro. Tutti sul tetto dei 41 mila euro l’anno anche gli altri collaboratori, come Natascia Marani, Alfonso Gallo CarrabbaAngelo Pisanu PetriniAldo Piazza (ex sindaco di Agrigento), Ivan Paci (ex consigliere provinciale e capogruppo del Pdl di Agrigento).
Siamo alla modestissima cifra di un milione e 354 euro e rotti, ma parliamo solo di quello che riguarda lo staff ristretto del vicepremier. A questa cifra vanno aggiunti gli addetti stampa (solo i direttori dei vari settori sono cinque), e il gabinetto del ministro che può contare su 12 uffici e, i responsabili degli uffici, sono tutti inquadrati come prefetti con uno stipendio che si aggira attorno ai 150.000 euro all’anno, per un totale di un milione e ottocentomila euro all’anno.

Triste realtà.



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Dai consulenti ai portaborse, più di un milione di persone vivono di politica. - Salvatore Cannavò

Dai consulenti ai portaborse, più di un milione di persone vivono di politica


Non ci sono solo gli eletti in Parlamento e negli enti locali. Secondo uno studio della Uil, coloro che traggono una fonte durevole di guadagno da ruoli legati all'amministrazione pubblica sono in 1.128.722. E i costi, diretti e indiretti, ammontano a 23,9 miliardi.

Un milione di persone. Nemmeno Max Weber, quando scriveva ’La politica e la scienza come professioni’ pensava ci si potesse spingere a tanto. Il grande sociologo tedesco scriveva infatti nel 1919: “Si vive ‘per’ la politica oppure ‘di’ politica”. Chi vive ‘per’ la politica costruisce in senso interiore tutta la propria esistenza intorno ad essa” […] Mentre della politica come professione vive colui che cerca di trarre da essa una fonte durevole di guadagno”.
Secondo uno studio della Uil, invece, coloro che cercano “di trarre dalla politica una fonte durevole di guadagno” sono più di un milione: 1.128.722. Un “paese nel paese” ma non nella forma poetica in cui Pier Paolo Pasolini definiva il Pci. Piuttosto “un mondo a sé”, come lo descrive il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy che ha curato la ricerca. La cifra viene ricavata sommando voci tra loro diverse ma tutte legate alla politica: gli eletti e gli incarichi di Parlamento e governo (1.067) quelli nelle Regioni (1.356),nelle Province (3.853) o nei Comuni (137.660). L’incidenza delle cariche elettive sul numero totale non è molto alta, il 12%.
La forza del sottoboscoI numeri si fanno più forti man mano che ci si addentra nel sottobosco: i Cda delle aziende pubbliche ammontano, infatti, a 24.432 persone; si sale a 44.165 per i Collegi dei revisori e i Collegi sindacali delle aziende pubbliche; 38.120 sono quelli che lavorano a “supporto politico” nelle varie assemblee elettive. I numeri fondamentali della ricerca sono riscontrabili nelle due ultime voci, quelle decisive: 390.120 di“Apparato politico” e 487.949 per “Incarichi e consulenze di aziende pubbliche”. “Quest’ultimo dato si basa su numeri certi e verificati” assicura Loy, mentre quello relativo agli “apparati” costituisce una “stima della stessa Uil ma una stima attendibile”. Nella nota metodologica, infatti, il sindacato spiega che i numeri derivano da banche dati ufficiali e da quello “che ruota intorno ai partiti” (comitati elettorali, segreterie partiti, collegi elettorali, “portaborse”, ecc.”. Loy la spiega così: “Ventimila voti di preferenza non sono il risultato solo di un voto ideologico ma espressione di relazioni concrete”. E, in tempi in cui l’ideologia è fortemente in crisi, “si affermano gli interessi e la spinta ad aumentare il proprio tenore di vita, l’affermazione di un sistema economico”.
La politica si fa industria, quindi. E il dato è riscontrabile nei numeri. Si pensi al costo dei CdA dei quasi settemila enti e società pubbliche: si tratta di 2,65 miliardi mentre per “incarichi e consulenze” la cifra è di oltre 1,5 miliardi di euro. Stiamo parlando di gente che lavora, ovviamente. Alcuni di loro, come i dipendenti di Rifondazione comunista, sono anche finiti in cassa integrazione oppure, come in An, licenziati. “Ma non hanno fatto alcuna selezione pubblica, non hanno seguito nessun merito” commenta Loy, “e vengono pagati con soldi di tutti”. Parliamo di collaborazioni dirette nei vari ministeri, assessorati, consigli elettivi, incarichi elargiti da questo o quel politico di turno. Oltre ai Francesco Belsito, Franco Fiorito, ai diamanti della Lega, alle ricevute di Formigoni o alle consulenze di Alemanno, gli esempi possono essere tutti leciti ma del tutto interiorizzati dalla politica.
I vari ministeri hano speso, nel 2012, oltre 200 milioni per collaborazioni dirette. Tra i dicasteri più attivi, gli Interni, l’Economia e Finanze, la Difesa e la Giustizia. Del ministero diretto da Alfano ci occupiamo a parte. Il Mef dispensa centinaia di incarichi nelle società partecipate. Alla Difesa, il ministro dispone di ben 18 collaboratori quanti ne ha quello della Giustizia. Gli incarichi sono quasi tutti di pertinenza politica. Come proprio addetto stampa, ad esempio, il ministro ha la stessa persona che ha lavorato per Pierferdinando Casini dal 2006 al 2013 e prima, ancora, con l’Udc Vietti, attuale videpresidente del Csm. Una “ricollocazione” avvenuta tutta nei rapporti della politica.
Fedeli al ministroNell’Ufficio di gabinetto troviamo l’autrice di un libro, Guerra ai cristiani, troppo presto dimenticato e scritto insieme allo stesso Mauro. Più esemplare è il caso del “Consigliere per gli affari delegati, del Sottosegretario di stato alla Difesa On. dott. Gioacchino Alfano”, Nicola Marcurio. L’interessato ha iniziato la carriera politica nel Comune di Sant’Antonio Abate, dove organizzava le iniziative religiose per il Giubileo. Diviene consigliere comunale nel 2000 e di nuovo nel 2005. Poi va a lavorare presso il Commissariato per l’emergenza di Pompei, da lì alla Protezione civile per il G8 dell’Aquila. Finisce al ministero come consigliere di Gioacchino Alfano il quale, guarda caso, è stato sindaco proprio di Sant’Antonio Abate. L’altro sottosegretario, Roberta Pinotti, Pd, tiene nel proprio staff Pier Fausto Recchia, deputato non rieletto alle ultime elezioni e quindi ricollocato. Tra i collaboratori del ministro della Giustizia, Cancellieri, troviamo Roberto Rao, già deputato, non rieletto, e già portavoce di Casini ma anche Luca Spataro, già segretario Pd di Catania. Se un deputato non viene rieletto gli si trova un nuovo incarico. Come a Osvaldo Napoli, pidiellino molto presente in tv, bocciato lo scorso febbraio e oggi vicepresidente dell’Osservatorio Torino-Lione. Moltiplicando questi casi per l’intero numero delle cariche elettive si può avere un’idea del fenomeno. Alla Regione Lazio, il presidente Zingaretti dispone di un ufficio stampa con ben dieci addetti mentre in Lombardia, i consulenti della Regione sono passati, con la gestione Maroni, da 57 a 93, tutti riscontrabili sul sito ufficiale. Per questa voce l’ente regionale spende 2,6 milioni di euro l’anno. L’esercito della politica vive e si autoalimenta così.
Un tesoretto da 10,4 miliardi
Secondo lo studio della Uil i costi della politica, diretti e indiretti, ammontano a circa 23,9 miliardi di euro. Per il funzionamento degli organi istituzionali si spendono 6,4 miliardi di euro, le consulenze e il funzionamento organi delle società partecipate 4,6 miliardi di euro, per altre spese (auto blu, personale di “fiducia politico” ecc) 5,8 miliardi di euro, per il sistema istituzionale 7,1 miliardi di euro. La somma che equivale al 11,5% del gettito Irpef pari a 772 euro medi annui per contribuente. La Uil quantifica in almeno 7,1 miliardi di euro i risparmi possibili con “una riforma per ammodernare e rendere più efficiente il nostro sistema istituzionale”. Tra le proposte, l’accorpamento “degli oltre 7.400 comuni al di sotto dei 15 mila abitanti”, con un risparmio di circa 3,2 miliardi. Se le Province “si limitassero a spendere risorse soltanto per i compiti attribuiti dalla Legge”, il risparmio sarebbe di 1,2 miliardi. “Con una più ‘sobria’ gestione del funzionamento degli uffici regionali”, si potrebbero risparmiare 1,5 miliardi di euro mentre 1,2 miliardi di euro l’anno potrebbero arrivare da una razionalizzazione del funzionamento dello Stato centrale. Aggiungendo a questi, una riduzione del 30% dei costi di funzionamento delle istituzioni si potrebbe arrivare a 10,4 miliardi di risparmi annui.