giovedì 21 novembre 2019

L’anima de li mortacci. - Marco Travaglio


Scusate se rompo ancora l’anima con la storia del governo senz’anima (se non l’abbia mai avuta o l’abbia persa per strada, non si è ben capito). Ma ci sono sviluppi succulenti. L’altra notte, al vertice di maggioranza sulla Giustizia presieduto da Conte, s’è rischiata la crisi di governo perché il Pd e Forza Italia Viva pretendono di cancellare il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che da un anno è legge dello Stato (la Spazzacorrotti) e vale per i reati commessi dal 1° gennaio 2020. Ufficialmente si dicono preoccupati perché, senza prescrizione, i processi non finiranno mai, ma sanno benissimo che è esattamente il contrario: è grazie alla prescrizione che i colpevoli, almeno i ricchi e potenti che possono mantenere l’avvocato a vita, allungano i processi per farla franca. Senza quell’aspettativa, i processi dureranno molto meno. Specie se, come previsto dalla riforma Bonafede, i giudici rischieranno l’azione disciplinare se sforeranno i termini di ogni grado di giudizio. Il bello è che chi teme processi eterni – il Pd e i renziani – sta bloccando la riforma della giustizia che li accorcia, con la scusa che prima bisogna bloccare la blocca-prescrizione accusata di allungarli. Roba da Comma 22.
Siccome però la blocca-prescrizione è già in vigore e scatta dal 1° gennaio, per bloccarla ci vuole un’altra legge, da approvare entro il 31 dicembre alla Camera e al Senato, fra l’altro impegnate sino a Capodanno con la legge di Bilancio. È già pronta quella del forzista Enrico Costa che ci riporta al vergognoso sistema precedente, quello che falcidia 200 mila processi e salva 3-400 mila colpevoli all’anno (gli innocenti che vogliono essere assolti nel merito rinunciano alla prescrizione e si fanno giudicare oltre i termini). Tra i quali guardacaso c’è il capo di Costa, Silvio B., nove volte prescritto per corruzione di giudici e di senatori, falso in bilancio e frode fiscale. Ora tenetevi forte: Pd e renziani annunciano che, se il M5S non ripristina la prescrizione fino alla Cassazione, voteranno la legge forzista. Per Costa sarà un momento epico: sono 13 anni, da quando il figlio d’arte albese entrò in Parlamento con FI, che il centrosinistra lo attacca per la produzione industriale di leggi ad personam. Nel 2009, per meriti acquisiti sul campo, fu relatore del “lodo Alfano” che bloccava i processi a quattro alte cariche dello Stato (soprattutto una). Poi purtroppo la boiata incostituzionale fu cancellata dalla Consulta. Lui ne partorì subito una nuova, con altri giuristi del calibro di Brigandì (il leghista appena condannato in primo grado a 26 mesi per patrocinio infedele e autoriciclaggio).
Cioè il presunto Legittimo impedimento che sospendeva i processi al premier e ai suoi ministri: anche quello, purtroppo, incostituzionale. Poi, non contento, fabbricò il bavaglio sulle intercettazioni. Poiché – come diceva Totò – il talento va premiato, Renzi se ne assicurò i servigi nel suo primo e fortunatamente unico governo, nominando Costa (nel frattempo trasvolato da FI a Ncd) viceministro della Giustizia. Gli elettori mostrarono di gradire, infatti nel 2014 il giovine Enrico si candidò a presidente del Piemonte e rastrellò un ragguardevole 2,98%. Il trionfo gli valse la promozione a ministro degli Affari regionali, delle autonomie e pure della famiglia. Poltrona che mantenne anche nel governo Gentiloni, che purtroppo lasciò dopo otto mesi per l’irrefrenabile richiamo della foresta forzista. Grande però fu la delusione quando B. pose il veto, costringendolo ad aderire a un altro movimento di massa: “Fare! (col punto esclamativo, ndr) -Pri- Liberali”, poi tramutatosi in “Noi con l’Italia”, detto anche la “quarta gamba del centrodestra” e popolato di altri noti frequentatori di se stessi tipo Fitto, Lupi, Zanetti e Tosi. A quel punto B., in vista delle elezioni 2018, decise che non si buttava via niente e si riprese la compagnia della buona morte. Così il Costa fu rieletto deputato. Un mese dopo mollò Noi con l’Italia (ormai ridotto a Lui per l’Italia) per tornare all’ovile forzista. E ricominciò a sfornare leggi salva-ladri e anti-giudici. Quando la Lega ingoiò e votò obtorto collo la Spazzacorrotti, con tanto di aumenti di pene, certezza del carcere, Daspo ai corrotti, confische più facili, trojan, agenti infiltrati e blocca-prescrizione, col contorno del fermo alla Svuotacarceri e al bavaglino di Orlando e del nuovo reato di voto di scambio, rischiò l’ictus (per empatia con B.): in un colpo solo cadevano come birilli 25 anni di Codice Silvio al servizio della criminalità e dell’impunità.
Ma non si diede per vinto e, battendo sul tempo anche i primatisti mondiali di leggi ad personam come Ghedini e Schifani, piazzò il colpaccio: un ddl che riporta la prescrizione ai fasti del passato. Ma in cuor suo temeva che non se lo sarebbe filato nessuno: Lega e M5S l’avevano appena cancellata e il Pd l’aveva sempre osteggiata. Ancora nel 2015, per dire, i dem volevano fermarla addirittura prima della sentenza di primo grado: discutevano se fosse meglio al rinvio a giudizio o alla richiesta del pm. E Renzi, quando finirono prescritti e impuniti i manager-killer di Eternit, tuonò: “Se la vicenda Eternit è un reato ma prescritto, vuol dire che bisogna cambiare le regole del gioco sulla prescrizione: non ci deve mai più essere l’incubo della prescrizione” (20.11.14). Insomma, il ddl Costa pareva mestamente avviato sul binario morto. Ma mai disperare nel Pd e nei renziani. Da quando si son messi a caccia dell’anima del Conte 2, hanno pensato bene di trovargliela loro. E, non avendone una prêt-à-porter l’hanno presa in prestito direttamente da B. e dal sottostante Costa. Un caso di trapianto d’anima che ricorda paurosamente le possessioni diaboliche. Qualcuno chiami l’esorcista.

mercoledì 20 novembre 2019

I Beccafichi. - Anna Lombroso



Il saòr è un tipo di marinatura da sempre usata a Venezia, che somiglia al condimento delle sarde a beccafico, con lo scopo di conservare gli alimenti durante le lunghe traversate. È talmente efficace che, narra una leggenda cara a Hemingway, quando morì un alto prelato di Torcello considerato alla stregua di un santo, si volle seppellirlo in Basilica. Ma imperversava da giorni una tremenda tempesta con trombe marine che impedivano il trasporto, così per mantenere l’augusta salma si pensò di coprirla con l’antico bagnetto di cipolle, aromi e aceto e il feretro giunse in perfette condizioni in San Marco pronto per le celebrazioni e l’adorazione di fedeli.

E cosa c’è di meglio per le sardine del saòr, come vuole la ricetta tradizionale, che aggiunge sapore ma soprattutto raggiunge lo scopo di conservare le pietanze, le carni e i pesci, compresi quelli in barile. Si moltiplicano in questi giorni i paragoni tra gli intrepidi banchi marini e altre espressioni movimentiste del recente passato: il popolo viola, gli schizzinosi girotondi, le madamine Si-Tav, eredità approssimative di quel situazionismo che concepiva la politica come costruzione di eventi e momenti di vita collettiva destinati a creare una qualche forma di comunicazione effimera tra la gente, egemonizzata dalla spettacolarità e unita dalla musica, da slogan, da parole d’ordine, da performance creative senza sceneggiatura e copione.

E infatti senza perdere troppo tempo a definire questo “agire” e i suoi attori – e chi li vuole sinistra sommersa, e chi li vuole riscatto di popolo purché non populista, e chi li vuole  intrinsecamente rivoluzionari, e chi li vuole post qualunquisti – viene bene il paragone con un’altra “situazione”, il plebiscito su scala nazionale del Se non ora quando, contro il Berlusconi puttaniere, fedifrago nei confronti della paziente consorte che ebbe l’onore non delle lettere alla posta del cuore, ma delle prime pagine, volgare e spudorato nelle sue esternazioni maschiliste proprio come un cumenda incarnazione della maggioranza silenziosa.

Scesero in piazza allora insieme a centinaia di migliaia di signore inviperite, al seguito di alcune penne intinte in quota rosa,  numerose perfino per la questura, anche tanti uomini della società civile e della politica, che non avevano mai manifestato  e non lo fecero nemmeno dopo, contro il golpista, contro il deus ex machina delle leggi ad personam che avevano trasformato l’interesse generale in occupazione privata della società imponendo la corruzione in forma di legge, contro l’amico dei mafiosi, contro l’utilizzatore finale di ragazze ma pure di deputati e senatori, oltre che di intellettuali pronti a mettersi in vendita nel mercato delle vacche dell’editoria e delle tv.

È facile da spiegare, vien meglio una manifestazione di dissenso che preveda l’incendio in piazza di un simulacro riconoscibile, che potrà risorgere dalle ceneri, se, una volta dato alle fiamme il gattopardo, tutto può andare avanti come prima, permettendo in quel caso la più mesta e iniqua austerità, la rinuncia definitiva alla sovranità statale, il sopravvento delle lobby delle privatizzazioni, lo smantellamento dell’edificio costituzionale e democratico perfino per via di referendum.

E allora si capisce l’entusiasmo per questi vispi ragazzotti, ben attrezzati di buone conoscenze e di un certo istinto per lo spettacolo che va ben oltre la recita della poesia sullo sgabello a Natale davanti a nonno Romano e prima che arrivino in tavola i tortellini fumanti.

Il fantoccio da bruciare per esorcizzarne l’oscuro potere era pronto, preceduto da una fama a lungo confezionata a tavolino per farne un Hannibal Cannibal, come incarnazione dell’eversione fascista.

Se  fascista lo è di sicuro, è meno certo che si tratti di un sovvertitore dell’ordine costituito e dell’establishment: appena ha fatto irruzione sulla scena governativa, ha dimostrato nelle parole e nei fatti la sua adesione alla irriducibilità e incontrastabilità dell’Ue, ha testimoniato la sua fidelizzazione al modello di sviluppo rappresentato emblematicamente dai suoi monumenti e altari: Tav, Mose, trivelle, Muos, ponti e piramidi, ha  riconfermato la volontà di essere ammesso alla cerchia padronale multinazionale. E diciamo la verità, sulla questione immigrazione non ha spostato di un centimetro il già pensato e fatto dai predecessori in qualità di ministri e legislatori, da Bossi e Fini, a Turco e Napolitano, a Alfano e Minniti, seguito dagli attuali esecutori come dimostra il rinnovo degli accordi con la Libia e il prolungamento delle serrate dimostrative dei porti.

A essere maligni, non può che venir bene un po’ di saòr, che copra lo squalo fritto e conservi tutto com’è e dov’è. Non a caso le sardine piacciono al movimento 5Stelle costretto a una riservatezza coatta e prona alla tracotanza degli alleati di governo di oggi ancora più subordinata che a quello del passato, che hanno nostalgia dei rave party dell’opposizione opposizione, che sognano di riprendere consenso facendo casino, sì, ma anche stando sulle poltrone irrinunciabili dei trascurabili dicasteri concessi loro.

E perché dovremmo aspettarci che le sardine dettino una linea se sono come i pesci pilota che precedono l’arrivo degli squali, e se la linea politica c’è ed è quella del progressismo perbenista che accoglie e integra purché in crestina e grembiulino, in tuta sull’impalcatura incerta, con le forbici da giardiniere o la cesta per le olive i pomodori, quella del politicamente coretto che cede su lavoro, sulla scuola, sulle delocalizzazioni, sulle svendite,  sulla privatizzazione dello stato sociale per fare il muso duro sul minimo accettabile dello isu soli, che doveva essere obbligatorio almeno cinque governi fa, quella del sindacalismo dei patronati senza lotta di classe ormai assimilata all’odio da censurare tramite commissione parlamentare.

Le sardine, vezzeggiate da tutti,  piacciono alla gente che piace, ecologisti che fanno giardinaggio, femministe che vogliono che l’altra metà del cielo si conquisti mediante al sostituzione di stronzi maschi al potere con altrettante stronze femmine nei ruoli di comando, agli antifascisti sì, purchè non antisistema, quelli che pensano che sia sufficiente togliere di mezzo la ferocia in felpa per addomesticare il totalitarismo che si esprime con i metodi criminali di sempre per ridurci a Ausmerzen vite indegne di essere vissute.

E infatti eccoli a Bologna contro Salvini, ma non contro il Global Compact di Merola fotocopia della cooperazione secondo Renzi, quel neo colonialismo che dovrebbe normalizzare  l’invasione fornendo un esercito di riserva al padronato in modo che il potere di ricatto di una concorrenza avvilita e intimidita faccia recedere da conquiste e diritti del lavoro i lavoratori locali. Si esibiscono in tutta l’Emilia, la loro culla, senza riservare una parola di dissenso  nei confronti della pretesa di autonomia divisiva e quella si, eversiva, patrimonio indiscusso della Lega. Oggi ci sono anche in Puglia, dove non abbiamo visto manifestazioni di piazza di una qualsiasi specie ittica, nemmeno le cozze pelose,  per dare appoggio alla città martire di Taranto. Ci sono in Sardegna dove resistono da anni quelli che si battono contro la militarizzazione dell’isola, o in Sicilia dove i No Muos sono ridotti al silenzio dalla repressione e censurato dalla stampa.

Eppure sono ben altri l’argento vivo del paese, quello che non dovremmo lasciare solo perchè fa paura e viene tacitato e emarginato,  quello che si muove per noi e che non si piega a essere costretto dentro al vecchio termometro che non registra mai la febbre di chi vorrebbe davvero rovesciare il tavolo e cambiare le cose.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/20/i-beccafichi/

Ex Ilva, i finanzieri negli uffici di Arcelor. L’accusa: materie prime comprate a prezzi alti, prodotti finiti svenduti a società del gruppo. - Francesco Casula

Ex Ilva, i finanzieri negli uffici di Arcelor. L’accusa: materie prime comprate a prezzi alti, prodotti finiti svenduti a società del gruppo

Agli investigatori toccherà studiare i documenti per comprendere come sia stato possibile che in soli 12 mesi la costola italiana del gruppo abbia accumulato il doppio delle perdite rispetto a quelle certificate dai commissari. Mercoledì nuova delega della procura ai carabinieri del Noe per le verifiche su operazioni di bonifica, situazione dello stabilimento, attività di manutenzione finora eseguite e sicurezza sul lavoro.

Sono entrati poco dopo le 10 i finanzieri di Taranto e Milano negli uffici dello stabilimento ex Ilva e nella sede di ArcelorMittal in via Brenta, nel capoluogo lombardo. I militari delegati dalle due rispettive procure hanno passato al setaccio materiale cartaceo e dispositivi elettronici alla caccia di una serie di documenti della contabilità di ArcelorMittal per verificare le questioni sollevate dai commissari straordinari nei palazzi di giustizia. In particolare gli investigatori delle fiamme gialle tarantine, guidati dal tenente colonnello Marco Antonucci, hanno sequestrato i documenti di acquisto delle materie prime e quelli di vendita dei prodotti finiti nei periodi di gestione di ArcelorMittal e in quelli della precedente gestione commissariale: l’obiettivo è quello di comprendere come sia stato possibile che in soli 12 mesi ArcelorMittal Italia abbia accumulato il doppio delle perdite rispetto a quelle certificate dai commissari. I reati ipotizzati dal procuratore capo Carlo Maria Capristo, l’aggiunto Maurizio Carbone e il pm Mariano Buccoliero sono distruzione di mezzi di produzione e di appropriazione indebita.


Il fronte milanese: l’ipotesi della ‘crisi pilotata’.

A Milano l’aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi, che in mattinata ha sentito come persone informate sui fatti due dirigenti dell’area commerciale di ArcelorMittal, e Mauro Clerici si stanno concentrando sull’aggiotaggio informativo, ossia alle presunte false comunicazioni al mercato negli ultimi 3 mesi, e la distrazione di beni del fallimento in relazione al magazzino (valore 500 milioni) ‘scomparso’ secondo i commissari. In sostanza, l’ipotesi è quella di una “crisi pilotata” per lasciare solo “macerie” dell’acciaieria, come ipotizzato dai commissari nel ricorso d’urgenza presentato al Tribunale civile di Milano. Un fascicolo a parte riguarda l’omessa dichiarazione dei redditi di una società del gruppo con sede in Lussemburgo.

L’ipotesi al vaglio degli investigatori di Taranto è invece che la multinazionale dell’acciaio abbia operato con una serie di escamotage per far lievitare le perdite. I finanzieri dovranno accertare se davvero c’è stata una svendita a prezzi eccessivamente bassi dei prodotti finiti presenti nei magazzini dell’Ilva: acciaio che sarebbe stato venduto a società del gruppo a prezzi bassissimi, particolarmente fuori mercato. Le società del gruppo poi li avrebbero rimessi sul mercato a prezzi regolari. Al contrario andrà invece fatta la verifica per le materie prime: carbone e minerale di ferro, infatti, sembrerebbero essere state acquistate a prezzi più alti di quanto non facessero i commissari. In questo modo, secondo quanto ipotizzato in queste ore, ArcelorMittal Italia avrebbe segnalato perdite maggiori mentre il gruppo non ne risulterebbe per nulla danneggiato, anzi. Non solo: un faro è acceso anche sulle quantità acquistate negli ultimi mesi per comprendere se queste siano state sufficienti per consentire agli impianti di marciare in maniera regolare e senza essere danneggiati. Tutto da verificare, insomma. I prezzi degli uni e degli altri dovranno chiaramente essere confrontati con le oscillazioni di mercato, i prezzi di acquisto di altre società che operano nel mercato dell’acciaio per comprendere se siano state scelte obbligate oppure se davvero queste operazioni facessero parte di quel disegno “preordinato” che secondo i commissari mira a chiudere la fabbrica di Taranto.


La nuova delega ai carabinieri del Noe.
Nell’esposto firmato dal l’avvocato Angelo Loreto che ha dato il via a un’indagine contestando i reati di distruzione di prodotti o industriali o di mezzi di produzione che danneggerebbero l’economia italiana e l’appropriazione indebita. L’esposto oltre a ripercorrere i fatti salienti descritti nel documento arrivato ai giudici milanesi, sottolinea come i commissari, nei giorni scorsi, avessero comunicato d ArcelorMittal l’intenzione di effettuare una visita ispettiva nell’impianto di Taranto a cui la multinazionale avrebbe risposto che “essendo stato risolto il contratto con la comunicazione del 4 novembre 2019” non era più tenuta rispettare l’obbligo di garantire l’accesso ai commissari. A questo si aggiunge la “scomparsa” delle materie prime: al momento della presa in consegna dei rami d’azienda, secondo i commissari, Arcelor “ha ricevuto un magazzino del valore di circa euro 500 milioni” e ora si appresta a riconsegnare lo stabilimento senza giacenze e rifiutandosi “di procedere ad alcun ulteriore acquisto”. Un punto che potrebbe essere stato temporaneamente superato dalla comunicazione diffusa lunedì con la quale l’ad Lucia Morselli ha annunciato che la regolare ripresa delle attività e degli ordini commerciali in attesa di una definitiva decisione della Procura di Taranto. Tutto quanto, però, passerà ora al vaglio dei finanzieri e già nei prossimi giorni potrebbero arrivare clamorosi risvolti. Tenuto conto, tra l’altro, che i magistrati tarantini mercoledì delegherà i carabinieri del Noe a nuove indagini riguardanti le operazioni di bonifica, la situazione dello stabilimento, le attività di manutenzione finora eseguite e la sicurezza sul lavoro.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/11/19/ex-ilva-i-finanzieri-negli-uffici-di-arcelor-laccusa-materie-prime-comprate-a-prezzi-alti-prodotti-finiti-svenduti-a-societa-del-gruppo/5570051/?fbclid=IwAR1hX7eJfcz-co6ZEY6M7yGFrMjMoBpwmvwrpiei79Ijh6gG6N0d4O76dY8

Ghostbusters. - Marco Travaglio

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Fermi tutti, che nessuno si muova. Dopo Ezio Mauro, Folli, Gramellini e De Angelis, anche Nicola Zingaretti ha perso il sonno perché il governo non ha l’anima. Il grido di dolore del segretario-ghostbuster del Pd è così straziante che Repubblica ha aperto la prima pagina con la sua conversione all’animismo: “Il governo trovi l’anima”. Il che è già un passo avanti rispetto agli allarmi dei quattro suddetti teologi, convinti che il Conte2 sia irrimediabilmente sprovvisto di anima, diversamente dai feti che ne hanno una fin dal concepimento, figurarsi dopo due mesi di vita. Invece quell’anima in pena di Zinga è più ottimista: “La manovra finanziaria ha un’anima. Il governo ancora no. E se non la trova rischia”. Quindi questa benedetta anima da qualche parte c’è: lui, per dire, l’ha intravista per un attimo nella legge di Bilancio, poi più nulla. Qualcuno l’ha sentita sussurrare: “Scendo a comprare le sigarette” e ciao. Si sa come sono queste anime governative: vanno e vengono, oggi qui domani là, fanno un po’ come pare a loro. Forse è fuggita, o è solo in vacanza, o è finita sotto l’acqua alta con Brunetta, magari l’ha sequestrata l’Anonima Anime in cambio di un riscatto. Ora bisogna trovarla a ogni costo. Anche con una caccia al tesoro, un safari, un’operazione di soul searching con i cani sanbernardo.

Si potrebbero affidare le ricerche a quell’essere inanimato di Conte, che però è piuttosto indaffarato a rintuzzare i 5 mila emendamenti alla legge di Bilancio (di cui 1700 della sua maggioranza, di cui 900 del Pd),
 a far ragionare i sedicenti alleati (tipo il Pd) che vogliono riesumare la prescrizione e lo Ius soli (fuori dal programma di governo) e a risolvere quisquilie tipo Ilva, Mose, Alitalia (eredità dei governi Pd). Però il premier, se gli resta tempo, un’occhiatina nei cassetti di Palazzo Chigi potrebbe darla. Se poi proprio non saltasse fuori, potrebbe prenderla a prestito da chi sicuramente ce l’ha, e da vendere. Tipo la giunta Zingaretti che governa il Lazio dal 2013. È vero che nessuno aveva mai preteso un’anima da una giunta o da un governo. Ma chi la esige dagli altri avrà almeno verificato di averne una in casa. Noi, potendo scegliere, preferiremmo che la giunta Zinga barattasse l’anima con un piano rifiuti, essendo ferma a quello della Polverini del 2012, quand’era ancora aperta la discarica di Malagrotta, il che spiega l’emergenza continua nella Capitale. Ma non si può avere tutto dalla vita. Piuttosto: se l’anima del Conte2 non si trova, bisognerà fabbricarne una nuova di zecca. Ma chiederlo al Pd, che esprime 9 ministri su 21, pare brutto: ha già troppi problemi col corpo. Elettorale.


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martedì 19 novembre 2019

Il miracolo dei conti della Raggi. - Gaetano Pedullà



Tra falsi scandali (il premier Giuseppe Conte che butta miliardi nel Fondo europeo Salvastati, ma non è stato firmato niente) e vergogne vere (l’ex ministra Elisabetta Trenta che non lascia l’alloggio di servizio) ai più è sfuggita una notizia davvero clamorosa. A Roma, paradigma nazionale dello sperpero della politica, della connivenza tra criminalità e colletti bianchi, delle tasse che salgono mentre i servizi scendono, ieri è stato approvato un progetto di bilancio con un miliardo e duecento milioni di investimenti nei prossimi tre anni.

Chi ricorda com’erano ridotte le casse pubbliche all’arrivo della sindaca Virginia Raggi può usare solo la parola: miracolo. Dal 2016 a oggi la città ha sofferto, e non è stato facile incidere chirurgicamente come si è fatto sull’azienda dei trasporti Atac (in concordato), sulla gestione dei rifiuti (l’ex monopolista Cerroni messo alla porta), sullo scandalo di una pletora di costose società partecipate da far invidia all’Iri dell’epoca in cui lo Stato Pantalone gonfiava il debito pubblico. Questi sacrifici non sono finiti e nessuno in buona fede può aver immaginato che la soluzione ai problemi di Roma arrivasse in poco tempo e senza sacrifici.

Ma i primi effetti della pulizia nei bilanci si vedono e ora ci sono 310 milioni per i municipi e le manutenzioni, 500 milioni per il sociale e risorse per la crescita. Chi crede alle fantasmagoriche promesse del Papeete adesso farà spallucce. Cosa vuoi che siano i risparmi della Raggi di fronte ai miliardi garantiti per fare la Flat Tax? Nulla se non fosse che i soldi di Virginia sono veri e quelli di Matteo del Monopoli.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/19/il-miracolo-dei-conti-della-raggi/?fbclid=IwAR0h-EH67ubUkNy97UJnp_2S1byrohSQwCx8NL5iL_bmsgBSWDNmW3gmwew

Perché il governo Renzi soppresse il Magistrato delle Acque di Venezia. - Gian Franco Coppola

magistrato acque venezia doge

L'eliminazione dell'organo che avrebbe dovuto verificare la costruzione delle dighe mobili fu conseguenza dell'inchiesta per corruzione avviata sui lavori del Mose.

Fu fatto passare come un provvedimento all'insegna della semplificazione burocratica. Ma la soppressione, decisa dal Consiglio dei ministri il 13 giugno del 2014 (governo Renzi), del Magistrato delle Acque di Venezia, l'organo che avrebbe dovuto verificare e supervisionare la costruzione delle cosiddette dighe mobili per la salvaguardia della città, fu anche la conseguenza inevitabile dell'inchiesta per corruzione avviata sui lavori del Mose.

Secondo la magistratura, che ottenne gli arresti degli ex presidenti dell'ente Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva, c'erano funzionari infedeli che, invece di controllare, prendevano soldi e altre utilità dal Consorzio Venezia Nuova, che era il concessionario dell'opera. 

Nato nel 1500 e diventato poi, agli inizi del Novecento, un ufficio distaccato del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, il Mav, più in generale, aveva il compito di sovrintendere alla sicurezza idraulica nelle lagune di Venezia, Marano e Grado e, in alcune tratte, dei fiumi Tagliamento, Livenza e del torrente Judrio, nonché sull'operato del Consorzio Venezia Nuova, in stretta collaborazione con il Provveditorato Interregionale delle opere pubbliche.

Quei compiti, aveva previsto il Cdm, sarebbero passati per intero a partire dal primo ottobre del 2014 a un ufficio creato 'ad hoc' del Provveditorato Interregionale per i lavori pubblici di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. Un intervento più che altro di facciata, fu il commento della stampa dell'epoca, perché l'interim del Magistrato delle Acque, nell'agosto del 2013, era stato affidato all'ingegnere Roberto Daniele che contestualmente era stato nominato alla guida del Provveditorato. A lui successe, verso la fine del 2016, Roberto Linetti, ingegnere idraulico e dirigente di prima fascia del ministero delle Infrastrutture su nomina del ministro Del Rio.

Cantieri fermi nonostante i fondi.
Linetti, sentito il 12 settembre 2018 dalla Commissione Ambiente sullo stato di avanzamento delle opere e delle attività relative alla realizzazione del Mose, parlò di "cantieri fermi" in assenza di progettazioni e di "bassa produzione": "Mancano circa 560 milioni di lavori da fare - disse un anno fa -, opere interamente finanziate, e un diagramma che va a zero è una anomalia che va assolutamente segnalata, anomalia che non puo' essere solo dovuta a personale non capace e imprese che non hanno voglia. Ci sono molte difficoltà ma il commissariamento ormai dura da 4 anni".

"Eppure - avvertì Linetti - i soldi ci sono. I finanziamenti statali in passato sono stati scaglionati, ma oggi ci sono tutti e sono anche superiori ai lavori da fare. I fondi disponibili ammontano a 1.047 milioni e bastano per terminare i lavori, rifare opere che si sono guastate o sono venute male e per avviare l'opera, oltre che per la manutenzione fino al primo anno di gestione. Le principali strutture sono già concluse, sono da terminare i lavori ambientali, di restauro e di impiantistica". Andato in pensione il primo settembre scorso, Linetti potrebbe ritornare in corsa al Provveditorato come consulente per il Mose.

Nel frattempo, per legge si era stabilito che la nuova Città metropolitana di Venezia (insediata il 31 agosto 2015) assorbisse le funzioni e il personale dell'ex Magistrato alle acque "in materia di salvaguardia e risanamento della città di Venezia e dell'ambiente lagunare, di polizia lagunare e d'organizzazione della vigilanza lagunare, nonché di tutela dall'inquinamento delle acque". Ma ora, passata la bufera giudiziaria, c'è chi, con una nuova amministrazione, auspica il ripristino del Magistrato delle Acque. 

https://www.agi.it/cultura/magistrato_acque_venezia_doge-6543605/news/2019-11-14/?fbclid=IwAR2eLi0jfe07KJZoZAgs_OdJX2kg-hm59qHe62jFUHxMQuvjNWVd1YkefBc

Meccanismo europeo di stabilità, cosa prevede la bozza di riforma che può aprire la strada alla ristrutturazione del debito. - Chiara Brusini

Meccanismo europeo di stabilità, cosa prevede la bozza di riforma che può aprire la strada alla ristrutturazione del debito

Cinque mesi fa il via libera dei capi di Stato Ue, da confermare entro dicembre. Ma spaventano le condizionalità a cui sarebbero sottoposti gli aiuti finanziari ai Paesi in crisi. Il governatore di Bankitalia Visco vede un “rischio enorme". E Giampaolo Galli, audito come rappresentante dell'Osservatorio sui conti pubblici, ha avvertito: "Azioni o parole che possano ingenerare il timore di una ristrutturazione o peggio di un default, vanno considerati come un pericolo per l'Italia e per gli italiani".

La riforma del “fondo salva Stati” (Mes) creato nel 2011 durante la crisi dei debiti sovrani è finita all’improvviso al centro di una polemica politica sollevata da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Che chiedono al presidente del Consiglio Giuseppe Conte di chiarire se e quando sia stato firmato un accordo per cambiarlo “senza coinvolgere il Parlamento“. Le tappe della revisione, in realtà, sono note e dettagliate in diversi documenti dell’Ufficio rapporti con l’Unione europea della Camera e del Servizio Studi del Senato. L’ultima risale al 21 giugno 2019, quando i capi di Stato e di governo dei Paesi Ue – sulla base di un precedente accordo raggiunto il 14 dicembre 2018, mentre l’Italia trattava sulla manovra – hanno adottato una dichiarazione che tra il resto “prendeva atto dell’ampio accordo raggiunto dall’Eurogruppo sulla revisione del trattato Mes”. In entrambi i casi Conte era a capo del governo sostenuto dalla Lega: il ministro dell’Economia era Giovanni Tria e uno dei vicepremier era Matteo Salvini che – secondo una lunga nota informale di Palazzo Chigi – è stato tenuto a parte di tutto il percorso. E il via libera finale è atteso per dicembre.

Sono molto meno chiare le conseguenze che potrebbero discenderne per l’Italia. Perché la riforma evoca la possibilità che i debiti pubblici giudicati troppo elevati siano ristrutturati. Per i mercati equivale a parlare di default, con tutto quel che ne deriva. La Grecia insegna.

La bozza di riforma messa a punto dall’Eurogruppo prevede una serie di condizionalità a cui sarebbero sottoposti gli aiuti finanziari che il Mes, oggi guidato dal tedesco Klaus Regling, può concedere ai Paesi dell’Eurozona che si trovino in gravi difficoltà e perdano l’accesso al mercato. Tra cui il rispetto rigoroso dei criteri di Maastricht e del Fiscal Compact, a partire da un rapporto debito/pil inferiore al 60% o “almeno” un tasso di riduzione del debito in eccesso debba essere pari a 1/20 all’anno. Inoltre i vertici del Meccanismo – che ha 700 miliardi di capitale e vede l’Italia al terzo posto tra i soci dietro Germania e Francia – sarebbero chiamati a valutare in via preventiva la situazione finanziaria degli Stati, compresa la sostenibilità del debito stesso. La parola “ristrutturazione“, va detto, non compare. Ma nel preambolo si parla della possibilità, nel caso in cui il fondo conceda aiuti finanziari accompagnati da un programma di aggiustamento, di un “coinvolgimento del settore privato” (“private sector involvement”) che di fatto è una perifrasi per dire che i creditori pagherebbero un prezzo. Ristrutturazione, dunque.

Lo stesso Regling nei mesi scorsi ha rimarcato che l’Italia “non ha mai perso l’accesso ai mercati, e non rischia di perderlo in futuro”, perché “ha un attivo delle partite correnti” e “dunque non ha mai avuto e non avrà bisogno di ricorrere” all’Esm. Le rassicurazioni preventive lasciano però il tempo che trovano, hanno notato molti osservatori: anche la direttiva Brrd sul bail in bancario entrò in vigore in sordina fino a quando le conseguenze del coinvolgimento di azionisti e obbligazionisti hanno iniziato a farsi sentire dolorosamente sulla pelle dei risparmiatori.

Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco la settimana scorsa, commentando l’ipotesi di riforma del Mes, ha parlato di “rischio enorme che il mero annuncio di una introduzione della ristrutturazione del debito possa innescare una spirale perversa di aspettative di default”. E il professor Giampaolo Galli, audito come rappresentante dell’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, ha evidenziato “elementi di criticità” e “preoccupazione” perché “azioni o parole che possano ingenerare il timore di una ristrutturazione (del debito, ndr) o peggio di un default, vanno considerati come un pericolo per l’Italia e per gli italiani”. “Il Mes è un’istituzione molto utile”, è stata la sua conclusione, “che deve continuare ad avere il pieno sostegno dell’Italia” perché prevede anche aspetti positivi come l’approvazione del backstop, una sorta di “rete di sicurezza finanziaria”, per il Fondo di risoluzione unico delle Banche, da utilizzare per far fonte a crisi bancarie nel caso in cui non fossero sufficienti le risorse disponibili.

Ma “preoccupa l’idea che, in certe circostanze, la ristrutturazione del debito pubblico possa diventare una precondizione per avere accesso alle risorse del MES”. E “occorre rafforzare il ruolo della Commissione rispetto al Mes, evitare che le Cac “single limb” (nuove clausole da inserire nei titoli di Stato di tutti i Paesi membri, ndr) facilitino eccessivamente la ristrutturazione del debito”, oltre a “sottolineare con forza che la ristrutturazione del debito pubblico non può essere decisa sulla base di valutazioni meccaniche e va valutata con grande attenzione, con il pieno coinvolgimento delle autorità nazionali, perché rischia di aggravare la condizione economica e sociale di una nazione, nonché di avere effetti di contagio molto negativi sull’intera eurozona“.

Per ora il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, rispondendo al presidente della Commissione finanze del Senato Alberto Bagnai che accusava l’esecutivo di scarsa trasparenza sul negoziato per la riforma, si è limitato a parlare di “occasione perduta” perché “una parte molto significativa del lavoro è stata già discussa, negoziata e definita” dal precedente governo, il Conte 1. Il via libera dei capi di Stato in effetti è arrivato il 21 giugno, quando l’esecutivo gialloverde godeva ancora di piena salute. Il 19 giugno Camera e Senato avevano però approvato due risoluzioni di maggioranza (Molinari-D’Uva e Patuanelli-Romeo) che tra l’altro impegnavano il governo “in ordine alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità, a non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti, e che minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale”. E anche a “render note alle Camere le proposte di modifica al trattato MES, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato”.

Prima del via libera, atteso per dicembre e a cui dovrà seguire la ratifica dei parlamenti nazionali, c’è comunque ancora qualche chance per modificare l’accordo. Il professore Galli in audizione ha ricordato che dopo l’Eurogruppo del 7 novembre il presidente Mario Centeno ha dato per chiuso il negoziato – i testi sono “considerati non più emendabili perché approvati dai capi di Stato a giugno” – ma resta “un minimo spazio negoziale sul memorandum tra Mes e Commissione. Che sarà cruciale perché il Mes è un organo intergovernativo che si mette dichiaratamente dal punto di vista di chi eroga il prestito e non del comune interesse europeo”


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