martedì 20 luglio 2021

Irpef, forfait e Iva: riforma del Fisco in 20 punti chiave. - Marco Mobili e Salvatore Padula

Illustrazione di Giorgio De Marinis / Il Sole 24 Ore

Delega entro fine luglio. Certezza delle norme, forfait, Ires, Iva, anti-evasione: ecco per ciascun tema il grado di convergenza, la fattibilità e il nodo dei costi.

I prossimi giorni sveleranno i progetti del Governo sul nuovo Fisco, una delle «riforme di accompagnamento» previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Entro fine mese, salvo sorprese, verrà approvato il disegno di legge delega per riordinare alcuni aspetti del sistema tributario, a partire dall’Irpef e con possibili affacci – vedremo quanto ampi, profondi e ambiziosi – su ulteriori ambiti della fiscalità nazionale.

Nella definizione dei principi del Ddl delega, il Governo terrà in considerazione il documento conclusivo dell’«Indagine conoscitiva sulla riforma dell'Irpef e altri aspetti del sistema tributario», approvato il 30 giugno dalle Commissioni Finanze di Camera e Senato con il voto favorevole di tutti i partiti, eccetto l’astensione di Leu e il voto contrario di Fratelli d'Italia.

La scrittura della riforma vera e propria richiederà più tempo. E le proposte arriveranno da una Commissione di esperti, che il Governo nominerà. Difficile immaginare che le nuove norme possano entrare in vigore già nel 2022, almeno non nella loro interezza.

La grande incognita delle risorse.

L’ampiezza della riforma dipenderà anche dalla disponibilità di risorse e dalla capacità di finanziare i nuovi interventi recuperando gettito con tagli e razionalizzazioni. Visti livelli e dinamica del debito pubblico, sembra difficile immaginare che il Governo voglia avventurarsi in una riforma interamente o prevalentemente in deficit. Qualche risorsa si potrà trovare nelle pieghe del bilancio (per altro, già esiste un fondo al quale sono state destinate risorse per avviare la riforma), ma serviranno coperture aggiuntive ad hoc.

Quale contributo può arrivare dalle indicazioni contenute nel documento finale delle Commissioni Finanze di Camera e Senato? Una lettura complessiva del documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla riforma - si veda la mappa in 20 punti nelle infografiche in questo articolo tracciata dal Sole 24 Ore del Lunedì - può fornire qualche indicazione. Il documento è il risultato di una serie di compromessi tra i partiti, vedremo quanto solidi, e alla capacità di mediazione dei due presidenti, Luigi Marattin (Iv, Camera) e Luciano D'Alfonso (Pd, Senato). Alcune tematiche non hanno trovato spazio nella sintesi finale: non è difficile capire che, su quelle materie, non si siano trovati spiragli di compromesso (Catasto, tassazione immobiliare, patrimoniali).

Posizione unanime dei partiti su semplificazione (anche con la soppressione di un lungo elenco di tributi minori) e certezza delle norme.

In questo senso, la strada per avviare la redazione del Codice tributario non sembra avere ostacoli, anche se, come sappiamo, le difficoltà oggettive non mancano, soprattutto se il risultato finale non deve essere una “raccolta” di norme, ma a una reale razionalizzazione e semplificazione.

La condivisione può durare?

Il documento parlamentare suggerisce l’adozione di un modello di imposta personale basato sulla «Dit» (Dual income taxation): imposta proporzionale sui redditi finanziari (con aliquota coincidente o prossima alla nuova prima aliquota Irpef) e tassazione progressiva per i redditi da lavoro. Con alcune eccezioni, tra cui, quella dell’imposta fissa sulle partite Iva (forfait), insieme ad altre possibili “deviazioni” dal modello, che indeboliscono il presupposto teorico di questo impianto.

Al Governo toccherà una riflessione su una serie di misure proposte per riequilibrare il prelievo, rendere più equa l’imposta personale e favorire la crescita. Vanno in questa direzione sia l’alleggerimento del prelievo per i redditi tra 28 e 55mila euro; sia l’introduzione del reddito minimo esente; sia ancora l’adozione di meccanismi che possano favorire l'ingresso nel mondo del lavoro del secondo percettore di reddito in ambito familiare (mantenendo l’individuo come unità impositiva); sia quella di agevolare fiscalmente i giovani (under 35) che iniziano un’attività lavorativa.

Proposte coraggiose che tuttavia – come in fondo è comprensibile – trasferiscono l’idea che il Parlamento abbia in mente una riforma “a spendere”.

C’è da chiedersi se la “condivisione” che il testo restituisce potrà durare nel tempo. La Lega disposta a rinunciare alla “sua” flat tax generalizzata; il Pd disposto ad accettare la sopravvivenza del forfait per le partite Iva (e, di fatto, anche una sua estensione, per favorire l’uscita morbida dall’agevolazione al superamento del limite di 65mila euro di ricavi/compensi); Italia Viva rinuncia al bonus Renzi da 80-100 euro (buona notizia, guardando alla coerenza del sistema, ma, probabilmente, non sarà facile destinare alla riforma gli oltre 15 miliardi di risparmio senza penalizzare gli attuali percettori del bonus).

Il groviglio tax expenditures.

Su spese fiscali e agevolazioni varie dal documento parlamentare arriva una (cauta) apertura a semplificazione e riduzione, ma con un esplicito riferimento a quelle con benefici e beneficiari minimi. Il che renderebbe l’operazione poco utile, almeno se l’obiettivo è quello di destinare le risorse così risparmiate alla copertura di altri “pezzi” di riforma.

Ed è anche un po' la conferma che tutti sono d’accordo sul taglio delle agevolazioni ma che è più facile metterne di nuove che non eliminare le vecchie: solo pochi giorni dopo l’approvazione del documento condiviso, il Parlamento ha approvato un decreto che introduce un’altra ventina di bonus di varia natura, con un costo complessivo di circa 800 milioni di euro.

Dall’Irap all’Iva.

Tutti d’accordo anche sull’abolizione dell’Irap, che verrebbe di fatto assorbita con un’addizionale Ires/Irpef, che garantirà la parità di gettito ma la cui applicazione determinerà comunque un rimescolamento dei livelli individuali di prelievo.

Nel documento c’è anche un accenno all’Iva, con la proposta di prevedere una delega al Governo per il riordino, in chiave di semplificazione e di possibile riduzione dell’aliquota ordinaria. È una mediazione importante, soprattutto se si pensa che la Lega, nel suo documento conclusivo, escludeva categoricamente qualsiasi intervento sull’Iva. Come molti sostengono, l’Iva avrebbe bisogno di un robusto riordino, finalizzato anche a ridurre gli spazi di evasione (resta l’imposta con il maggiore tax gap), legati anche alla frammentazione delle aliquote.

A Draghi e ai suoi ministri il difficile compito di conciliare i desideri con ciò che è davvero possibile e necessario.

IlSole24Ore

Gratteri fa a pezzi la riforma Cartabia: “Così converrà delinquere, meno sicurezza nel Paese. Morirebbero i maxiprocessi alla ‘ndrangheta come Rinascita Scott”. - Giuseppe Pipitone

 

Il procuratore di Catanzaro in audizione alla Camera: “Produrrà un aumento smisurato delle impugnazioni in Appello e Cassazione: a tutti conviene, per ingolfare la macchina della giustizia". Secondo il magistrato il 50% i processi "finiranno sotto la scure della improcedibilità". Tra questi anche "i 7 maxi processi" contro la 'ndrangheta che si stanno celebrando nel distretto di Catanzaro. "A questo punto - ha aggiunto - meglio la prescrizione del reato come era prima della riforma Bonafede. Provocherebbe meno danni".

Nicola Gratteri fa a pezzi la riforma della giustizia di Marta Cartabia. Con un intervento lungo una ventina di minuti, in videoconferenza con la commissione Giustizia della Camera, il procuratore capo di Catanzaro contesta punto per punto gran parte delle norme contenute nella legge delega varata dal governo di Mario Draghi. A cominciare da quella che viene considerata la “nuova prescrizione” cioè l’improcedibilità: se il processo dura più di due anni in Appello (tre per i reati più gravi) e uno in Cassazione (o 18 mesi) non può più perseguire e il medesimo processo muore. “Le conseguenze saranno, in termini concreti – dice Gratteri – la diminuzione del livello di sicurezza per la Nazione visto che certamente ancor di più conviene delinquere, l’annullamento totale della qualità del lavoro, perché fissare una tagliola con un termine così ristretto vuol dire non assicurare che tutto venga adeguatamente analizzato con la dovuta attenzione, aumento smisurato di appelli e ricorsi in Cassazione perché se prima qualcuno non presentava impugnazioni con questa riforma a tutti, nessuno escluso, conviene presentare appello e poi ricorso in Cassazione non foss’altro per dare più lavoro ingolfare di più la macchina della giustizia e giungere alla improcedibilità”

“Un processo su due morirà in appello” – Un quadro a tinte fosche quello tratteggiato dal magistrato anti ‘ndrangheta: “Fissare una tagliola – continua – vuol dire non assicurare che tutto venga esaminato con attenzione. Anzi provocherà un aumento smisurato delle impugnazioni in Appello e Cassazione: a tutti conviene fare ricorso, anche solo per ingolfare la macchina della giustizia A questo punto meglio la prescrizione del reato come era prima della riforma Bonafede. Provocherebbe meno danni“. Sempre sull’improcedibilità Gratteri ha spiegato che, tra i lati negativi, c’è da segnalare che “prescinde completamente dal tempo trascorso dalla commissione del reato”. Quindi nei processi per direttissima che si concludono in un giorno, per esempio quelli per rapina in flagranza, in Appello l’improcedibilità scatterebbe in due anni, mentre attualmente la prescrizione scatta dopo sette anni. “Le conseguenze special preventive mi sembrano evidenti”, dice il magistrato. Che quantifica nel 50% i processi che “finiranno sotto la scure della improcedibilità“. Tra questi anche “i 7 maxi processi” contro la ‘ndrangheta che si stanno celebrando nel distretto di Catanzaro. Comperso il famoso Rinascita Scott, maxi procedimento alla cosca Mancuso che vede imputate 355 persone.

“Processi contro pubblica amministrazione andranno in coda”” – Secondo Gratteri in gioco c’è oltre alla sicurezza, la stessa “credibilità dello Stato”, visto che non solo “non si celebreranno i processi contro la pubblica amministrazione“, destinati , come tutti i processi senza detenuti ad “andare in coda”, e che a rischio improcedibilità ci sono oltre ai processi di mafia anche quelli per rapine e di chi “vende droga nelle piazze“. Non solo: la riforma della prescrizione, accusa il procuratore, parte da un “approccio errato: l’idea che il tempo eccessivo per i giudizi di appello sia correlato alla scarsa produttività dei magistrati”, che invece sono “i più produttivi in Europa”. Se i giudizi in Italia durano di più,il motivo è il numero dei procedimenti sulle spalle dei giudici: “gli appelli proposti in Italia sono il doppio di quelli della Spagna e il triplo di quelli della Francia. E in Cassazione i ricorsi sono pari a 10 volte il numero che si registra nei Paesi europei”. Anche per questo “occorre cominciare a parlare di risorse: da un anno e mezzo non si fanno concorsi per l’accesso in magistratura e così non si riuscirà a coprire i posti di chi va in pensione”. Gratteri, poi, ha fatto notare che i termin i del processo d’Appello “oltre ad essere ridottissimi, decorrono dal 90esimo giorno dal deposito della sentenza di primo grado, mentre per la trasmissione del fascicolo in appello o in Cassazione in genere ci vuole molto più tempo. Quindi il termine per lo svolgimento del giudizio inizia a decorrere quando il giudice non ha ancora il fascicolo”. Come dire: i processi d’Appello non moriranno dopo due anni di dibattimento, ma molto prima. Il bello è che questa riforma, scritta per velocizzare i processi, non sortirà alcun effetto su questi fronti: “Gli attuali giudizi di impugnazione – dice Gratteri – non vengono in sostanza toccati, il che significa che non vi è nessun motivo ragionevole per ritenere che i tempi attualmente impiegati possano essere ridotti”.

Tempo perso per reati poi cancellati – Per Gratteri è poi “poco efficace l’ulteriore sconto di pena di 1/6 in caso di mancata proposizione di ricorso in appello. Infatti, se l’imputato sa che può beneficiare della improcedibilità, troverebbe più conveniente impugnare la sentenza vedendosi azzerata la pena in caso di sforamento dei due anni”. Altro punto contestato è il potenziamento dell’istituto del concordato in appello: “Questo istituto appare assolutamente incoerente con l’intero sistema processuale, tanto è vero che era stato abolito in passato. Infatti, dopo il giudizio di primo grado, in cui si sono assunte le prove davanti al giudice, con tutte le lungaggini che ciò comporta e dopo che il giudice ha dovuto redigere la sentenza, si arriva a un accordo che può letteralmente smontare la sentenza impugnata, evitando la celebrazione del giudizio di appello. Essendo illimitato il concordato, si può negoziare la cancellazione di un reato, ovvero di una aggravante con consistente abbattimento della pena”. Un sistema che si può estendere ai reati gravi come quelli di mafia: “Se passasse la riforma, le parti, dopo il processo di primo grado in cui l’imputato è stato condannato per associazione mafiosa con ruolo di promotore, oppure per partecipazione ad associazione finalizzata al traffico di droga, oltre a singoli reati di droga, potrebbe concordare la eliminazione della qualità di promotore. La corte di appello ha il potere di non accogliere la richiesta di accordo. Ma, oberata da tante cause e pur di evitare la improcedibilità di un processo che si presenta complesso, difficilmente non avallerebbe l’accordo raggiunto e così si andrebbe ad indebolire il giudizio di primo grado. Per cui lo Stato, dopo avere investito risorse per celebrare un processo di primo grado, consentirebbe di fatto di vanificare il tempo e i denari spesi, con concordati in appello che svuoterebbero di contenuti il processo celebrato in primo grado”.

“L’iscrizione retrodatata appesantirà i processi” – Un altro aspetto della riforma smontato dal magistrato anti ndrangheta è quello che concede “all’indagato di chiedere al giudice di retrodatare l’iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato in caso di ingiustificato ed inequivocabile ritardo”. Ma cosa vuol dire ingiustificato e inequivocabile ritardo? “Sono concetti molto sfumati e tali da creare non pochi problemi. Normalmente la questione viene sollevata in processi complessi, contrassegnati da numerose imputazioni e persone coinvolte”, dice Gratteri, prima di fare un esempio: “Viene depositata una informativa di reato di oltre 3000 pagine, nella quale la polizia giudiziaria deferisce centinaia di persone. Ebbene qual è il tempo congruo per valutare la necessità di iscrivere le persone nel registro? Il giudice si dovrà studiare l’informativa e magari solo dopo 3 o 6 mesi potrà dire qual era il tempo adatto. E se poi il pm era impegnato nel frattempo a esaminare un’altra informativa altrettanto ponderosa? Il giudice dovrà studiarsi anche l’altra informativa per valutare se il ritardo era o meno giustificato. Come è dato vedere la questione è più complessa di quello che appare. Tanto è vero che, opportunamente, il legislatore non aveva comminato alcuna sanzione processuale alla tardiva iscrizione lasciando che il comportamento fosse eventualmente censurabile sotto il profilo disciplinare”. Insomma un’altra norma che appesantisce i processi. “Ovviamente se il giudice di primo grado dovesse rigettare la questione verrebbe riproposta anche in appello. In quel caso, la situazione è ben più drammatica, poiché la Corte è tenuta già a fare una corsa contro il tempo, per non incorrere nella tagliola dei fatidici due anni pena la improcedibilità del reato”.

Le alternative – Quindi Gratteri ha poi spiegato alcune sue proposte alternative: “Bisogna modificare il sistema delle impugnazioni, inserire la possibilità di celebrare anche i giudizi in appello davanti a un tribunale monocratico per reati di minore rilevanza. Va rimosso il divieto di reformatio in peius”. Per il capo della procura di Catanzaro “si deve modificare il sistema delle impugnazioni, non lasciare inalterato il sistema delle impugnazioni (in appello e poi in cassazione) però poi ‘fissare’ un termine tagliola. Tutto questo non ha alcun senso, peraltro attraverso un istituto che il nostro ordinamento non conosce”. Per l’investigatore “Qualsiasi proposta per ridurre i tempi deve partire da modifiche a monte e non a valle”. Il magistrato ha poi criticato i colleghi fuori ruolo, perché “mentre si fa questa la ghigliottina dei processi ci sono 250 magistrati fuori ruolo che fanno i tecnici nei ministeri”. Una situazione – quella dei vuoti in organico – destinata ad aggravarsi, visto che “non si fanno concorsi da un anno e mezzo, quindi tra un anno saremmo nei guai”. In chiusura il procuratore di Catanzaro si chiede perché “si ragioni di pene alternative anziché costruire quattro carceri prefabbricate“.

IlFQ

I veri anti-italiani/3. - Marco Travaglio

 

19luglio 2020. Mentre Conte combatte al Consiglio Europeo sul Recovery Fund e ricorda come la “frugale” Olanda sia un mezzo paradiso fiscale, i giornali italiani continuano a gufare contro l’Italia. Giannini (Stampa) sa già come andrà a finire: “Per noi diminuisce la quota di contributi a fondo perduto e aumenta quella dei prestiti”. E, comunque andrà, sarà un disastro: “Conte e i suoi ministri, superato a fatica il pasticcio venezuelano su Autostrade (sic, ndr) e con lo stress-test delle elezioni regionali del 20 settembre non saranno in grado di reggere l’urto”. Il Giornale tifa apertamente Rutte: “Europa, Conte flop. E quella frase degli olandesi: ‘Non ce la beviamo’. L’Olanda imita Prezzolini e Rutte copia gli Apoti”. Belpietro (Verità): “L’accordo che si profila è una disfatta”. Libero: “L’Europa detesta Conte”, “L’Unione non si fida del nostro governo”. Ma il record di patriottismo lo stabilisce l’ultimo nato fra i giornali di destra, Repubblica, estasiata dall’eroica resistenza della povera Olanda: “Processo all’Italia. L’Olanda guida l’accusa: ‘Non ci fidiamo più’”. Il fatto che Fca che edita Stampubblica abbia sede legale in Olanda è puramente casuale.

20 luglio. Messaggero: “Fondi Ue ridotti per l’Italia. Per il nostro Paese 10 miliardi di sovvenzioni in meno e più fondi da restituire”. Corriere, Repubblica e Stampa: “172 miliardi all’Italia”. Giornale: “Doppia fregatura”, “L’Italia perde già 10 miliardi”, “serve subito la zattera del Mes”, il premier è in “euroaffanno a caccia di un accordo per salvare la poltrona”. Il noto padre dell’europeismo Sallusti difende Rutte: “Gli olandesi sono stronzi, ok. Ma il nostro governo è un’Armata Brancaleone che campa di trucchi ed espedienti”. Feltri (Libero): “Ecco perché l’Ue non sgancia: l’Italia ha molti soldi, ma li dà ai fannulloni. Conte con l’Europa sta sbagliando tutto”. Dagospia: “Conte viene gonfiato come una zampogna a Bruxelles”, “Cosa abbiamo fatto per meritarci questo? Dopo il Cazzaro verde, abbiamo il Cazzaro con la pochette! Per evitare il crack, Conte sarà costretto a chiedere all’Ue un prestito. E a quel punto l’Italia ha la troika in casa. Una vittoria di Pirro che il Conte Casalino proverà a rivendere come un trionfo… (per finire nella merda)”. Paolo Mieli (Corriere): “Una cosa sicuramente Conte è riuscito a portare a casa: potrà esibire la foto in cui sedeva sereno (ancorché non sorridente) accanto ai grandi d’Europa: Merkel, Macron, Sànchez e Ursula”. Folli (Repubblica) a ristabilire l’equilibrio: a causa degli “errori” e dell’“inesperienza” di Conte, “la coperta si è rattrappita” con una “riduzione dei sussidi a fondo perduto tra i 20 e i 30 miliardi che a Roma si considerava già acquisiti”.

E “ora il Mes torna d’attualità”, anzi “diventa una priorità”, “urgente”. A Bruxelles nessuno ne parla. Ma è il sogno erotico di Folli: “per il Conte-2 questo è il nuovo ostacolo”, che “dopo le elezioni di settembre potrebbe rivelarsi troppo alto”. Per l’eccitazione, gli si rizza il riportino.

21 luglio. Dopo l’ultimo giorno e l’ultima notte di battaglia, alle 5.31 il presidente Michel twitta: “Deal!”. L’accordo è siglato dai capi dei 27 Paesi Ue. Il premier italiano ha ottenuto tutto ciò che chiedeva: Recovery di 750 miliardi, nessun diritto di veto dei singoli Stati e, per l’Italia, 36,5 miliardi in più di quelli previsti dal piano Von der Leyen. Da 172,7 a 208,8: intatti quelli a fondo perduto (81,4) e più prestiti (da 90,9 a 127,4). Il surplus è la cifra del Mes, ora ancor più inutile di prima. Mattarella chiama Conte all’alba per complimentarsi. Poi i leader e i ministri giallorosa.

I giornali, chiusi a mezzanotte, non hanno ancora i dettagli dello storico accordo, ma solo la notizia che è quasi fatto. E l’imbarazzo dei profeti di sventura si taglia col coltello. Il Messaggero dà le pagelle, strepitosa quella di Conte: “Ha combattuto e non ha perso”. Il Corriere ha due editoriali che sono l’apoteosi del rosicamento. Sabino Cassese: “Non è solo questione di soldi” (abbiamo appena ottenuto 209 miliardi quando tutti ne prevedevano la metà e, ora che li abbiamo, non contano più), “il piano di riforme è poca cosa” (come quelli di tutti gli altri Paesi, che iniziano a scriverli ora e han tempo sino a fine anno, scadenza che poi slitterà a fine aprile 2021). Carlo Verdelli pare Bartali: tutto sbagliato, tutto da rifare. Titolo: “La carta d’identità sbiadita del governo (e della nazione)”. Svolgimento: “il governo sembra avere smarrito la carta d’identità, con quella provvisoria ormai scaduta da un pezzo”, privo com’è di una “reputazione spendibile e credibile, specie sui tavoli dove si sta giocando la partita più delicata del finanziamento per ripartire dopo i disastri del virus”; e poi “la bizzarria tutta italiana di mantenere lo stesso premier per due esecutivi molto diversi”, colpevole di “stallo immobile”, mentre “l’improbabile categoria ‘giallorosa’ ricorda il fiocco ormai sbiadito appeso fuori dalla nursery alla nascita del secondo Conte”. Delle due l’una: o a Bruxelles hanno gli occhi foderati di prosciutto e han dato fiducia al premier sbagliato, o Verdelli ha scritto il pezzo senza sapere del Consiglio Europeo. E senza che nessuno avesse cuore di avvertirlo. O di cestinarlo.

Repubblica è da leggenda: “Vince l’asse tra Berlino e Parigi”, “Merkel raggiunge il compromesso sugli aiuti e salva l’Europa”. Conte, a Bruxelles, non c’era proprio. Sta’ a vedere che, al vertice dei Ventisette, erano in Ventisei.

(3 – continua)

ILFQ

M5s, ecco il nuovo statuto: al posto del capo politico un comitato direttivo di 5 membri per 3 anni. Convocati gli iscritti per il voto finale.

 

L'annuncio è stato fatto dal capo politico reggente Vito Crimi sul Blog delle Stelle e arriva esattamente un anno dopo le dimissioni di Luigi Di Maio. Le modifiche saranno votate online, per parti separate, dall’Assemblea degli iscritti il 9-10 febbraio in prima convocazione e il 16-17 in seconda convocazione.

E’ pronto il nuovo statuto del Movimento 5 stelle che cambia definitivamente la gestione della leadership e a metà febbraio sarà sottoposto al voto degli iscritti. Dopo mesi di discussioni e rinvii, e nel pieno di una crisi di governo che al momento sembra in una fase di stallo, il M5s cerca di sbloccare uno dei processi interni più delicati. L’annuncio è stato fatto dal capo politico reggente Vito Crimi sul Blog delle Stelle e arriva esattamente un anno dopo le dimissioni di Luigi Di Maio. Le modifiche saranno votate “dall’Assemblea degli iscritti convocata dalle ore 12 di martedì 9 febbraio 2021 fino alle ore 12 di mercoledì 10 febbraio 2021 in prima convocazione e dalle ore 12 di martedì 16 febbraio 2021 fino ore 12 di mercoledì 17 febbraio 2021 in seconda convocazione”. Il documento verrà votato per parti separate.

La proposta di modifica dello statuto prevede un cambiamento radicale nella gestione della leadership e una vera e propria nuova struttura (qui il documento che confronta il vecchio Statuto con il nuovo modificato). All’articolo 5, si prevede l’istituzione del Comitato Direttivo, ovvero dell’organo collegiale. L’articolo che viene modificato principalmente è il numero 7, che inizialmente si occupava del capo politica. La proposta di modifica prevede il trasferimento di tutte le funzioni di competenza del Capo Politico appunto al “Comitato direttivo” di nuova istituzione, composto da 5 membri, eletti dagli iscritti, della durata di tre anni e le cui deliberazioni sono assunte a maggioranza dei membri. “Ogni membro è rieleggibile per non più di due mandati consecutivi”.

L’articolo 7 prevede inoltre che venga eletto un “rappresentante legale ed istituzionale” del comitato: “Il Comitato direttivo elegge e revoca al proprio interno a maggioranza, con rotazione annuale, colui che assumerà le funzioni di rappresentante legale ed istituzionale del Movimento 5 stelle e per l’esercizio delle sole funzioni che le leggi pro tempore vigenti richiedono. Il Comitato direttivo è l’organo che ha tutti i necessari poteri di ordinaria amministrazione. Gli atti di straordinaria amministrazione sono subordinati al consenso e/o ratifica da parte dei componenti del Comitato di Garanzia”. Ma come verrà eletto? Su questo si esprimerà il comitato di garanzia. “Il Comitato di Garanzia, nella definizione del regolamento per l’elezione dei membri del comitato direttivo, individuerà eventuali cause di incompatibilità, e stabilirà che ciascun genere sia rappresentato per almeno i due quinti e che ciascuna delle seguenti tipologie di portavoce: membri del governo, parlamentari europei, nazionali, consiglieri regionali e consiglieri comunali, non sia rappresentato all’interno del Comitato da un numero di membri superiore ai due quinti”. I membri del comitato potranno essere sfiduciati: “Il Comitato direttivo, o uno o più membri dello stesso, può essere sfiduciato con delibera assunta a maggioranza assoluta dei componenti del Comitato di Garanzia e/o dal Garante, ratificata da una consultazione in Rete degli iscritti, in conformità a quanto previsto dal presente Statuto. Il Comitato direttivo delibera a maggioranza dei propri membri”.

Quali le funzioni del Comitato direttivo? “Il Comitato direttivo convoca e dirige i lavori dell’Assemblea, indice le votazioni in rete degli Iscritti e mantiene l’unità dell’indirizzo politico del MoVimento 5 Stelle. Il Comitato direttivo si coordina con gli eletti ed i membri del Governo espressi dal MoVimento 5 Stelle e in particolare concerta l’azione politica con i capigruppo parlamentari, il capo della delegazione governativa, nonché con il capo della delegazione europea per le materie di sua competenza”.

ILFQ

Incognita emendamenti, arriva il giorno della verità per il ddl Zan. - Giovanni Innamorati

 

Renzi, mediazione vicina. Letta,non mi fido dell'omofobo Salvini.

Dopo il fumo delle parole dei giorni scorsi, da oggi sul ddl Zan si comincerà a vedere l'arrosto dei fatti, cioè gli atti parlamentari che dovrebbero concretizzare quanto detto fino ad oggi. Alle 12 scade il temine per presentare gli emendamenti per modificare il testo, e questi consentiranno innanzitutto di vedere se c'è una reale volontà di mediazione da parte di chi la ha invocata, come Lega e Iv.

Una mediazione che richiede un minimo di fiducia reciproca, che al momento non sembra esistere, visto le accuse reciproche registrate anche in giornata, con Enrico Letta che ha definito "omofobo" Matteo Salvini.

Il leader di Iv Matteo Renzi, ha affermato che a suo giudizio "un compromesso è possibile sugli articoli 1, 4, e 7", vale a dire quelli che, rispettivamente, introducono il concetto di identità di genere, che trattano la libertà di espressione e che riguardano l'insegnamento anti-discriminazione nelle scuole.

Secondo Renzi "un accordo è a portata di mano", perché " la Lega, dopo mesi di ostruzionismo, ora si dice disponibile". In tal senso il leader di Iv dice di "non capire perché Letta si sia messo di traverso". E a rivendicare l'invito al "dialogo" è stato anche Salvini.

Tuttavia Iv e Lega non hanno chiarito i contenuti delle loro proposte sui tre articoli indicati da Renzi. La proposta del presidente della commissione Giustizia, il leghista Andrea Ostellari, giudicata da Iv "un passo avanti" e respinta dal Pd, non è stata fatta propria dalla Lega, che anzi ha ribadito di voler puntare a introdurre una semplice aggravante comune per i reati di odio omo-transfobico, punto su cui Pd, M5s e Leu non accederanno mai.

Sicuramente, emendamenti arriveranno da Julia Unterberger, capogruppo delle Autonomie: "personalmente voterei subito il ddl così come è, ma prendo atto che la destra non lo vota e per favorire un compromesso presenterò un emendamento sugli articoli 1, 4 e 7" per "favorire un compromesso". Anche il socialista Riccardo Nencini ne presenterà uno sull'articolo 4 perché la sua formulazione "è scivolosa": il timore è che qualche Pm possa distorcerne l'applicazione, perseguendo semplici opinioni.

L'articolo 4, introdotto alla Camera su richiesta di Fi in commissione Affari costituzionali, è ora quello più a rischio. In ogni caso al momento di votare gli emendamenti, indipendentemente da chi li avrà presentati, si arriverà ai nodi politici: Iv sarà disposta a votare insieme al centrodestra e a spostare quindi il proprio baricentro verso destra? In caso di esito incerto il Pd dirà sì, per esempio proprio sull'articolo 4, ad un emendamento che sia comunque accettabile e non renda incoerente il testo? Nodi che non si presenteranno martedì, visto che mancano ancora diversi interventi in discussione generale e che per i prossimi giorni l'Aula dovrà prima votare alcuni decreti. In casa Dem la fiducia verso la Lega è nulla: "Chi è omofobo in Europa non può essere un credibile interlocutore in Italia", ha detto Enrico Letta ricordando che la Lega al Parlamento europeo ha votato in favore dell'Ungheria di Orban e della sua legge anti Lgbt. "non si può essere omofobi in Europa e poi voler dialogare con noi: è incompatibile".

ANSA

lunedì 19 luglio 2021

Addio Guido Palma. L’arte di beffare i potenti (e capire il rischio profondo della Lega al governo). - Furio Colombo

 

Quando c’è stata la non dimenticata “discesa in campo” di Berlusconi (ma anche il divertimento, ascoltandolo, erano i tempi di Romolo e Remolo) a Roma si è subito affollata una piccola piazzetta “detta del Pasquino”. Lì, per antica tradizione secolare, si andavano depositando (incollando foglietti sulle pietre dei monumenti), commenti, versi, brevi diari in rima di ciò che era accaduto in quei giorni in casa di vescovi, cardinali e altre gerarchie della città papale.

Un uomo estroso, pieno di fantasia, ha preso con mitezza e tenacia il posto del Pasquino della storia. Si chiamava Guido Palma e ha vissuto una lunga vita (se ne è andato da pochi giorni) sempre con un umore lieto e una capacità di giudizio folgorante. Lui non ha mai mancato un giorno (salvo proprio quando la salute si ostinava a tacere, ma pochi giorni alla volta) ed è così diventato l’unico memorialista rigoroso della terribile storia italiana: dal giorno in cui Berlusconi scopre di amare l’Italia, è convinto di esserne riamato e non l’abbandona più.

Il regime che nasce – credendo di essere spensierato e portato al buon umore – cambia all’improvviso (ha una personalità debole, racconta Pasquino) quando fa amicizia o quasi (ci sono momenti in cui il pericolo torna e ritorna) con un gruppo politico che ha come scopo di far danno e ha i diversi nomi seguenti: Lega Nord, Lega per la liberazione della Padania, Lega per la Secessione dalla Repubblica Italiana, Lega per la indipendenza della Padania. È stato un grande giorno per Pasquino quando tutte queste leghe sono confluite nel governo di Mario Draghi allo scopo di salvare l’Italia. Pasquino-Guido Palma però è stato un dei pochi italiani ad accorgersi subito che la Lega – con tutta la sua cattiveria ammazza-emigranti e tutta la sua ricerca del male che si poteva ancora infliggere ai migranti sventuratamente già accolti – non era il fondo del barile. Sotto c’erano le riserve, un po’ rancide ma in grado di spargere veleno, che si indignano alle affermazioni di Pasquino. Ma guai a scambiarli per democratici. Per sicurezza Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno firmato il documento “Orbàn-Le Pen” che scredita la seconda guerra mondiale (la tragedia che ha eliminato il fascismo) e invoca la forza e l’autonomia della “nazione” come punto di rinascita.

Come vedete Guido Palma-Pasquino ha ancora molto da lavorare. Ma ci lascia due notizie che ci importano molto. Il padre è stato partigiano, la madre ebrea.

ILFQ

Giustizia, Conte fa asse con Letta. Se Draghi insiste, parola alla base. - Paola Zanca

 

L’incontro. L’ex premier spiegherà “da giurista” i nodi tecnici In caso di fiducia, decideranno gruppi parlamentari e iscritti.

Alle 11, a palazzo Chigi, più che da leader di partito ha intenzione di presentarsi come giurista. Per convincere “dal punto di vista tecnico” e non “identitario” che la riforma Cartabia, così com’è, non regge. Nel faccia a faccia con Mario Draghi in programma per questa mattina, insomma, Giuseppe Conte insisterà soprattutto sulla questione dell’improcedibilità – le nuove norme prevedono che, se entro due anni l’appello non si chiude, il processo salta, ndr – che poi è l’aspetto su cui si stanno concentrando le principali critiche dei magistrati italiani. A cominciare da quelle del loro presidente, Giuseppe Santalucia, che in audizione alla Camera, tre giorni fa è arrivato a definire la nuova prescrizione uno “strumento eliminatorio dei processi”, al punto che – secondo i calcoli dell’Anm – la riforma farebbe andare al macero 150 mila procedimenti in corso.

Sono state proprio le audizioni dei magistrati ad aver convinto anche il Pd a far arrivare a Draghi tutte le perplessità che la riforma lascia senza risposta. Non è un caso che ieri, il segretario dem Enrico Letta, su Repubblica abbia aperto a degli “aggiustamenti” e abbia sottolineato come sia un “dovere” del Parlamento intervenire per migliorare il pacchetto di misure votato dal governo.

L’irritazione per i tempi strettissimi con cui la Camera è chiamata ad esaminare il provvedimento (che dovrebbe andare in Aula già questa settimana) è ormai diffusa e i 5 Stelle, a questo punto, sperano di poter fare asse con Pd e Leu per riportare Draghi a più miti consigli: “Si troveranno le giuste soluzioni”, ha ribadito ieri sera Letta alla festa dell’Unità di Roma.

Non sarà esattamente una passeggiata, visto che il premier, sul tema, è piuttosto intransigente. “Prendere o lasciare”, aveva già detto ai ministri grillini che ventilavano l’astensione in Cdm, salvo poi decidersi a votare sì dopo i “consigli” di Beppe Grillo. Ma ora Conte ha deciso di ufficializzare proprio sulla questione della giustizia la fine della “diarchia” interna al Movimento. Lui la riforma così non la vota, ripete ai suoi. E conta di far leva sui risvolti tecnici della faccenda, ovvero sui suoi trascorsi professionali, per rompere le rigidità del premier: “Io sono consapevole che siamo in una nuova maggioranza e che non possiamo essere ideologici e arroccarci sulla difesa della legge Bonafede – ragiona l’avvocato –. Ma l’importante è che si trovi un modo, e si può trovare, per evitare che i processi vadano in fumo”. Porterà le sue proposte, Conte. E se Draghi dovesse tirare dritto e magari decidere di mettere la fiducia sul provvedimento, sarà lui a prendersi la responsabilità di questo gesto, è il senso delle riflessioni che l’ex premier sta facendo in queste ore. Conte ripete ai suoi – a cominciare dai ministri – che non ha intenzione di far cadere il governo, anche perché gli serve tempo per ricostruire il Movimento provato dalle lunghissime fibrillazioni interne. Ma vuole (e deve) ottenere qualcosa dal confronto con Draghi. Altrimenti, interpellerà i gruppi parlamentari e la base del Movimento. Cioè gli iscritti, che cinque mesi fa votarono in maggioranza Sì all’ingresso nel governo, ponendo tre condizioni “imprescindibili”: il “Superministero della Transizione ecologica”, la difesa del reddito di cittadinanza e l’indisponibilità a cambiare la riforma della prescrizione così com’era stata concordata dai giallorosa (quella nata dall’”accordo precedentemente raggiunto con Pd e LeU, oltre il quale il M5S non è disposto ad andare”). A Draghi, stamattina, Conte proverà a spiegare che – col senno di poi – la corda si è già tirata parecchio.

ILFQ